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Quattro utopie sportive
14 gen 2016
Papa Bergoglio diventa presidente della FIFA. Nasri rompe il tabù depressione nel calcio. Conte diventa dittatore del calcio italiano. Kobe Bryant viene a giocare in Italia.
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Papa Bergoglio diventa presidente della FIFA

di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

All’alba del 27 febbraio la categoria dei titolisti è chiamata a una delle imprese più ardue che si ricordi in tutta la perigliosa e affascinante storia del titolismo: come resistere alla tentazione di un gioco di parole che non associ la FIFA alla paura? Nel caso specifico, la paura sarebbe quella del vuoto. Del vuoto istituzionale.

Il Congresso straordinario dell’organismo di governo calcistico mondiale si chiude con un eclatante silenzio stampa. I 209 membri elettori lasciano l’Hallenstadion di Zurigo a piccoli gruppi, evitando artificiosamente i giornalisti, senza essere riusciti ad andare oltre l’undicesimo punto dell’ordine del giorno: l’elezione del presidente.

Solo nella tarda mattinata del 27, trapelano voci secondo le quali non solo nessuno dei cinque concorrenti alla carica abbia raggiunto il quorum, ma che addirittura tutte le tessere siano state imbucate nell’urna in bianco.

La svolta—ma l’avremmo scoperto solo successivamente, dal pittoresco resoconto di Kalusha Bwalya, presidente della federcalcio dello Zambia, in un documentario intitolato "Kalusha spills the beans"—sarebbe giunta dopo poco più di un mese di negoziazioni e trame cospiratorie. Nel routinario spoglio, ormai inatteso, per la prima volta sarebbe comparso, finalmente, un nome.

«La misura era colma», dichiara Bwalya intorno al minuto 23:00 del documentario. «C’era bisogno di una vera rivoluzione, di qualcuno che si esponesse: alla FIFA serviva una cometa coraggiosa che guidasse i Magi verso il loro Salvatore. A quanto pare quella cometa doveva essere africana e chiamarsi Kalusha».

Che poi il nome non è neppure veramente un nome. L’ex calciatore africano, in forze un tempo al PSV, è il primo (e in quella votazione anche l’unico) a indicare un possibile successore di Joseph Blatter. Un po' provocazione un po’ no, scrive a grandi lettere: PAPA FRANCESCO.

Per quanto puntualmente didascalica, dotata di tutti i crismi che deve avere la foto perfetta, l’istantanea di Papa Francesco con un pallone tra le mani—lo sguardo incredulo e divertito dopo aver parato un rigore sul campetto del Barrio Chino, nel quartiere de La Boca—che il 31 marzo campeggia sulle prime pagine di tutti i quotidiani del mondo è stata scattata qualche ora prima dell’evento che avrebbe cambiato il mistero della fede nella sfera di cuoio.

Il 29 marzo, subito dopo aver festeggiato una Pasqua giubilare con Messa solenne a San Pietro, Bergoglio parte per un Viaggio Apostolico, organizzato in tutta fretta in Argentina: è il primo nella sua terra natale dall’ascesa al soglio di Pietro. Accompagnato dal cardinale di Buenos Aires Mario Aurelio Poli, Bergoglio visita i quartieri più disagiati della capitale rioplatense. La prima immagine ufficiale, pubblicata sul sito web de L’Osservatore Romano, lo ritrae con i mocassini bianchi affondati in un potrero di periferia.

Non possiamo conoscere la vera reazione al momento in cui, il giorno dopo, con un tono presumibilmente tra l’inquieto e lo sbigottito, Poli gli ha scombussolato l’agenda degli impegni apostolici per sussurrargli: «Santità, quello che sto per dirle non è uno scherzo. Mi promette di non ridere?».

Il «potrero» del Barrio Chino è oggi diventato un luogo di culto e pellegrinaggio: il Clarín l’ha ribattezzato «La Betlemme del Calcio Mondiale».

Il 25 marzo, alla seconda votazione giornaliera per eleggere un nuovo presidente FIFA, l’ultima prima della pausa per la Pasqua cattolica, i sostenitori di Bergoglio sono già 30: il successivo martedì 29 marzo viene raggiunta la maggioranza semplice. La sera stessa viene annunciata l’acclamazione, in contumacia, di Papa Francesco I come nuovo presidente in pectore della FIFA.

Alla prima reazione sui generis (un tweet ironico, poi prontamente rimosso, in cui il pontefice dichiara «Non son degno ecc. ecc.») fa seguito, a ventiquattro ore di distanza, uno più confacente, anche se per certi versi sbalorditivo, annuncio ufficiale di accettazione dell’incarico da parte del Pontefice:

Il tweet che ha generato la maggiore movimentazione di follow/unfollow nella storia di Twitter.

Il 1° aprile si festeggia l’anniversario della fondazione del San Lorenzo. Allo Stadio Pedro Bidegain nel quartiere di Almagro, casa del San Lorenzo, l’amichevole tra "El Ciclón" e una selezione di vecchie glorie argentine diventa l’occasione perfetta per officiare una specie di laica cerimonia di insediamento ufficiale di Francesco.

«Annuntio vobis gaudium magnum», squarcia il silenzio gonfio d’attesa lo speaker dello stadio. Sul cerchio di centrocampo sono già schierati i giocatori del cuervo e dieci avversari, estemporaneamente battezzati Club de Fútbol Santa FIFA. La gradinata più calorosa del Nuovo Gasómetro inizia a intonare: «Ha-bemus papam, habemus un solo papam».

Con un’immacolata maglia numero cinque sulle spalle, quella che Gesù avrebbe indossato se avesse giocato al fútbol, Francesco entra in campo con una corsa trotterellata. Saluta il pubblico con il gesto benedicente: subito dopo dà il simbolico calcio d’inizio a una nuova era.

In una parentesi enfatica, a Cracovia, durante l’adunata di chiusura delle Giornate Mondiali della Gioventù, a pochi giorni dalla sua elezione Francesco presenta il suo programma. I punti che hanno fatto più scalpore, e che hanno portato alle più grandi conseguenze per il mondo del calcio sono i seguenti:

Motu proprio, il Papa introduce il divieto di esultanze che contemplino il contatto tra testa («luogo deputato al ragionamento sull’importanza di Dio») e campo di gioco, un provvedimento interpretato da molti militanti musulmani come attacco mirato all’Islam.

- Apertura di luoghi di preghiera per ogni fede e credo (con una particolare preferenza per cappelle in cui officiare riti tridentini) all’interno di tutti gli stadi del mondo, seguendo la scia di ospedali e aeroporti.

- Fondazione della FVIC, Foederatio Vaticanis Ioci Calcis, presieduta honoris causa da Javier Zanetti.

- Divieto tassativo dei trasferimenti in Europa di calciatori provenienti da Africa, America del Sud e Asia prima dei vent’anni, eccezion fatta per una selezione ristretta dei 24 più meritevoli autorizzata a spendere trentasei mesi di seminario presso il Vaticano, ma con l’obbligo di difendere i colori della FVIC nei tornei ufficiali U-15 e U-17 della FIFA.

Nel giro di pochi mesi il pubblico si abituò alle riforme di Papa Francesco, ma le vere conseguenze sarebbero arrivate dopo qualche tempo.

Il divieto di esultare inginocchiati portando la testa al suolo venne ritenuto così offensivo da spingere l’IS, a fine 2016, a rapire Diego Armando Maradona. In rete comparvero alcuni falsi video che ne inscenavano la decapitazione (alcuni giornali titolarono "D10S è morto"); Maradona venne invece rilasciato dopo 15 mesi di prigionia in cambio della promessa di un posto nel girone di qualificazione per i Mondiali del 2022, area Medio Orientale, per una rappresentativa dello Stato Islamico (che terminò le gare raccogliendo 0 punti, con 0 gol fatti e 66 subiti in dodici partite).

A quei Mondiali, con Nicola Legrottaglie in panchina, il Vaticano—forte di un gruppo di giocatori solido e affiatato, abituato a giocare insieme da anni—arrivò sul tetto più alto del mondo calcistico, sconfiggendo in finale l’Albiceleste allenata da Javier Mascherano.

Tutt’intorno al Monumental Vespucio Liberti, sede della finale di una rassegna che solo in pochi ricordavano fosse stata inizialmente assegnata al Qatar, le lacrime di delusione si mescolarono alle effigi di Bergoglio in trionfo. Una specie di Maracanazo, ma più felice.

Samir Nasri rompe il tabù della depressione nel calcio

di Daniele Manusia (@DManusia)

Infortunato dall'ottobre del 2015, Samir Nasri ha passato alcuni mesi di difficile introspezione prima di prendere la drastica decisione di raccontare la verità su Instagram. Le intenzioni di Nasri erano quelle di criticare la cultura calcistica globalizzata che da una parte mastica giocatori in una continua selezione darwiniana, e dall'altra pubblicizza quello stile di vita che era il suo e che è ancora di molti suoi colleghi. Perché, come ha scritto Nasri nel suo primo post in tema #LesFootballersAussiSouffrent: anche i calciatori soffrono.

Nasri è scomparso da Instagram all'inizio di febbraio 2016, non è tornato in campo nei tempi previsti e non ha comunicato niente di nuovo fino a inizio giugno. Il Manchester City lo ha coperto parlando di complicazioni di vario tipo (a un certo punto si parlava addirittura di mononucleosi), ma a fine maggio il giocatore ha raccontato in un'intervista a France Football che nonostante i fisioterapisti e i dottori del Man City gli avessero dato il via libero per tornare ad allenarsi lui si sentiva continuamente stanco. L'inspiegabile spossatezza di Nasri (che gli impediva di compiere anche le più piccole azioni in casa) ha spinto il City a rescindere il contratto per giusta causa e il calciatore è dovuto tornare a vivere con i propri genitori a Marsiglia da un giorno all'altro.

Preso in cura dalla cugina psicologa, Nasri è tornato lentamente in forze e a febbraio ha annunciato pubblicamente di voler seguire l'esempio della modella australiana Essena O'Neill che, a novembre 2015 (più o meno in corrispondenza con il suo ultimo infortunio muscolare) aveva tolto circa 2mila foto dal suo profilo ripubblicandole poi con didascalie tipo: «Sorriso forzato», «Sono stata pagata per questo scatto», «Non ho pagato quel vestito. Ci sono volute non so quante foto per sembrare fica su Instagram». E dopo qualche settimana lo ha fatto davvero.

Il suo caso ha fatto parlare del tabù dei disturbi mentali nel calcio e nella società, spingendo numerose società a prendere provvedimenti per curare la vita extra-sportiva dei propri giocatori. Il Manchester City ha assunto 11 psicologi e molti giocatori in attività hanno deciso di comunicare il proprio disagio, tra cui: Ménez, Illarramendi, Valdivia, Balotelli, Sturridge, Pjanic. Il lavoro e il coraggio di Nasri sono stati citati come fonte di ispirazione da Patrick Vieira e Roy Keane durante la conferenza stampa conginuta con cui hanno annunciato la nascita della Roy & Pat Foundation per la depressione nel calcio (entrambi erano in cura da anni pur mantenendone il segreto).

La UEFA ha introdotto pesanti squalifiche per squadre e agenti che cercassero di nascondere il problema al pubblico, mentre la federazione inglese ha affidato a Clarke Carlisle la direzione di un centro di ascolto e sostegno per calciatori inglesi di tutte le categorie. Le federazioni francese, olandese, danese, norvegese, svedese e islandese hanno lanciato un programma per il reinserimento in società dei calciatori a fine carriera, con corsi speciali per i calciatori d'élite.

Qui sotto ci sono i 10 migliori post che Nasri ha ripubblicato sul suo sito con delle nuove didascalie in corsivo, perché per quanto possa sembrare strano oggi, è tutto cominciato da lì.

«Quella sera ero troppo triste per uscire. La foto l'ha voluta scattare a tutti i costi il mio agente, altrimenti il brand che mi aveva regalato lo smoking per il galà a cui non sono andato ci sarebbe rimasto male. E poi non mi avrebbe più regalato vestiti... #LesFootballersAussiSouffrent».

«Avevo un problema con l'alcool e con la rabbia, e la società mi offriva su un piatto d'argento la migliore delle scuse: gli haters. In quel periodo mio fratello più piccolo era venuto a Manchester a trovarmi ed ero così preso da shopping e locali che non l'ho neanche salutato prima che ripartisse. Mi ha mandato un messaggio per dirmi quanto era deluso. Gli ho risposto: hater gonna hate, e sono uscito fino all'alba tanto ero infortunato. #LesFootballersAussiSouffrent».

“Vincere è l'unica cosa che porta rispetto nel mondo del calcio. Negli ultimi anni ho cominciato ad avere paura di tutto: di perdere il posto in squadra, di farmi male, di perdere sponsor, di non essere amato dai tifosi. Alla fine non parlavo con nessuno nello spogliatoio. Una volta in allenamento ho provato a far male a David Silva perché pensavo che senza la sua competizione sarei tornato titolare. David era l'unico della squadra che mi era rimasto vicino fino a quel momento. #LesFootballersAussiSouffrent».

«Non ho comprato niente di quello che si vede in questa foto. Le case, la Lamborghini e il mini-segway erano in prestito. Le Yeezy mi sono state regalate, anche la camicia e il cappello sono di un designer inglese. Il mio agente mi ha chiesto di guardare in basso mentre scattava la foto perché non riuscivo a sorridere. #LesFootballersAussiSouffrent».

«Quando fai il calciatore è impossibile distinguere tra chi sei e quello che fai. A FIFA prendevo il Manchester City e cercavo di far segnare solo me stesso. Per non perdere giocavo da solo con livello Dilettante. #LesFootballersAussiSouffrent».

«Cosa significa essere un adulto? A me non l'ha spiegato nessuno. Ho sempre avuto persone intorno che pensavano a tutto per me, non ho mai saputo neanche quanti soldi avevo, quanti ne spendevo. Quando ho smesso di giocare avevo speso quasi tutto, non sapevo cucinarmi neanche una frittata e non sapevo cosa fare con una giornata di 16 ore. Ci ho messo tutta la mattina per scrivere quel messaggio di auguri per il nuovo anno. Volevo scrivere qualcosa di profondo, ma non mi è venuto niente. #LesFootballersAussiSouffrent».

«Non sapevo neanche che mi avessero scattato questa foto, quando è stata postata non guardavo Instagram da settimane. Ma il mio agente è andato avanti finché il Man City non si è liberato di me. La didascalia: Forza City; ovviamente è sua e in netto contrasto con la mia posa. Non riuscivo a guardare il campo e più tardi quel giorno ho avuto un attacco di panico. #LesFootballersAussiSouffrent».

«Scrivevo: la solitudine è meglio dell'amicizia falsa. Ma io non ero solo in quel momento: ero a cena con mio padre e ho avuto l'idea per quella foto, che ha scattato mio padre con il mio secondo iPhone. Comunque, qualcuno della New Balance, il mio sponsor, ha visto questa foto e visto che ai piedi avevo le Yeezy (adidas) hanno rescisso il contratto. #LesFootballersAussiSouffrent».

«Un giorno mi sono svegliato e non riconoscevo casa mia. Mi sembrava un posto assurdo, credevo di stare sognando. Il divano, le scale illuminate, i cuscini giganti, non c'era niente di normale. Ho aperto l'armadio e avevo solo vestiti assurdi. Per un attimo ho pensato che mi avessero rapito gli alieni, o che un alieno avesse vissuto al posto mio la mia vita fino a quel punto. Ho chiamato il mio agente e gli ho chiesto perché mi aveva lasciato vivere in quel posto. Anche adesso non ho vestiti normali, ho persino una tunica di Rick Owens che guardandola mi chiedo: davvero mi sono messo questa roba? Ho chiamato mia madre per dirle che volevo tornare a casa con lei, ma lei mi ha detto di non lasciare il lavoro. #LesFootballersAussiSouffrent».

«Quando non riuscivo a dormire guardavo foto di quando ero bambino. Ho sempre e solo giocato a calcio, non so chi sono senza calcio. Guardando quel bambino provo pietà per me stesso: sarei potuto essere talmente tante cose... #LesFootballersAussiSouffrent».

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Antonio Conte diventa dittatore del calcio italiano

di Emanuele Atturo (@Perelaa)

Quando l’arbitro fischia la fine della partita tutti gli azzurri corrono verso il centro del campo per un abbraccio epico che coinvolge tutti tranne Antonio Conte. L’Italia si è appena laureata campione d’Europa e mentre tutto un Paese festeggia il suo allenatore corre verso gli spogliatoi, a testa bassa, evitando telecamere e microfoni, l’espressione ancora tesa e concentrata: niente da dichiarare. Conte non si presenta neanche alla premiazione, lasciando la medaglia al suo vice.

La squadra rientra a Fiumicino nella notte, accolta da un milione di tifosi, tutti gridano il nome di Antonio Conte, ma l’allenatore non si vede. Su internet circola un’immagine a bassa risoluzione di Conte, Buffon e De Rossi nel tunnel del Parco dei Principi, abbracciati, testa contro testa, in lacrime.

Un tweet criptico.

Le prime parole dell’allenatore campione d’Europa arrivano solo il giorno dopo, in una conferenza stampa fiume organizzata all’improvviso e che inizia con queste parole: «Quello che la squadra del signor Antonio Conte ha dovuto subire in questi mesi è qualcosa di molto grave. Forse allora è arrivato il momento di mettere i puntini sulle "i"». Conte, sempre parlando di sé stesso in terza persona, si lamenta delle eccessive critiche prima della competizione: «Era una squadra di pippe quella di Antonio Conte. Dicevate. Adesso che la squadra di pippe ha vinto l’Europeo tutti al Circo Massimo a festeggiare? Eh no cari miei, troppo facile così». Dopodiché inizia una lettura di circa 15 minuti di stralci di articoli sulla Nazionale: «Vi rendete conto di quello che ha dovuto sentirsi dire la squadra di Antonio Conte?».

Poi riprende lo sfogo prendendosela con la federazione: «I signori dentro gli uffici—questi signori di cui non faccio i nomi perché sono una persona per bene—questi signori che ora vanno davanti alle telecamere col vestito buono, a prendersi i meriti degli altri—sono quelli che ci hanno messo i bastoni tra le ruote tutto l’anno. Sapete quante volte Antonio Conte ha potuto avere la squadra al completo? Non lo sapete? Ve lo dico io? Mai. Pensate che è facile vincere un Europeo senza fare gli allenamenti?». Ne ha per tutti: «"No, il giocatore non può venire perché è affaticato"; “No il giocatore deve far riposare il ginocchio infiammato”; “No il giocatore non viene perché lo fate lavorare troppo” Basta. Antonio Conte dice basta». Infine allarga il ragionamento: «Perché questo è un Paese dove se tu vinci poi ci si scorda tutto. Per questo la vittoria fa comodo a tanta gente. Ma ve lo dico subito: a me questa cosa non sta bene, Antonio Conte non si prostituisce, Antonio Conte non dimentica». Poi si toglie la cravatta ufficiale, la sbatte sul tavolo e se ne va. In serata arrivano le dimissioni di Conte alla Federazione. Il Paese impazzisce.

Non è chiaro quello che Conte vuole, il significato complessivo della sua conferenza stampa. L’unica cosa certa è che nessuno vuole le sue dimissioni: la Federazione prende tempo, davanti alla sua sede si assiepano centinaia di tifosi con i cartelli “Antonio resisti!” o “#jesuisantonio”. Due giorni dopo Conte arriva alla Federazione, scortato in mezzo alla folla in delirio, per una riunione a cui partecipa tutto il consiglio federale e Maurizio Beretta, presidente della Lega Serie A. Poco prima di entrare in FIGC Conte si ferma all’ingresso, si gira verso la folla e si prende una pausa scenica. Si toglie gli occhiali da sole e dichiara: «Vi giuro che voglio solo giustizia». In serata la FIGC dirama un comunicato nel quale spiccano le seguenti riforme:

- Abolizione totale della Lega Serie A.

- Tutta l’organizzazione dei campionati professionistici ricade sulla FIGC.

- Dimissioni di Carlo Tavecchio dalla presidenza della FIGC.

- Incarico a tempo indeterminato della presidenza della FIGC ad Antonio Conte, che svolgerà allo stesso tempo l’incarico di commissario tecnico della Nazionale italiana.

Si stabiliscono inoltre i seguenti vincoli per le società di Serie A:

- La FIGC è da adesso in poi co-proprietaria dei cartellini di tutti i giocatori italiani militanti in Serie A.

- Nessuna società può quindi impedire la convocazione di un calciatore nella Nazionale italiana, in qualsiasi momento.

- Qualsiasi cessione o trasferimento del cartellino di un giocatore italiano deve passare per l’approvazione della FIGC.

- Ogni società di Serie A potrà avere in rosa un massimo di 4 calciatori non italiani.

- Ogni società di Serie A dovrà presentare nella distinta ufficiale di gara almeno 8 giocatori italiani nell’undici titolare.

- Ogni società di Serie A è tenuta a investire almeno il 50% del proprio fatturato nel settore giovanile.

In 24 ore e un comunicato la cosa era fatta: Antonio Conte era una specie di dittatore del calcio italiano, anche se lui non amava farsi chiamare così: «Questo è un Paese dove si vuole sempre la botte piena e la moglie ubriaca. O ci diamo il rispetto alla Nazionale o è meglio se ce ne stiamo a casa. Se volete chiamarmi dittatore fate come vi pare, voi non avete idea di quello che deve sopportare Antonio Conte». Le riforme per i club che sono state stabilite hanno un tempo di attuazione di appena due anni: gli investitori stranieri fuggono immediatamente. Nessuna trattativa cinese per il Milan, nessuno stadio nuovo per la Roma, niente più investitori indonesiani nell’Inter.

La Serie A della stagione 2016-2017 diventa un enorme supermercato a cui si rivolgono i club di tutta Europa per compare i migliori talenti non-italiani. Le società provano a correre ai ripari intavolando un complicatissimo mercato di passaporti falsi: si alza una grande polveriera di scartoffie per provare a ritrovare radici genealogiche italiane in quasi tutti i calciatori di Serie A.

Conte stabilisce ritiri della Nazionale italiana con scadenze bisettimanali. Ogni due settimane i convocati devono ritrovarsi a Coverciano dal lunedì al mercoledì. Ritiri pre-partita a parte. Il Paese, dopo un po’ di scetticismo iniziale, offre il proprio consenso incondizionato a Conte, visto come l’uomo di polso di cui aveva bisogno il calcio italiano per lasciarsi gli scandali alle spalle una volta per tutte. Si poteva pensare che l’aver tolto il potere ai club in un Paese così campanilista come l’Italia avrebbe portato problemi. In realtà le nuove riforme hanno finito per promuovere soprattutto l’inserimento di giocatori locali, in fondo appagando ancora di più il campanilismo.

Tutti i giornali indicano l’Italia come la principale favorita ai Mondiali in Russia del 2018. In molti chiedono per Conte una discesa in politica: è davvero lui l’uomo forte che serve al Paese?

Kobe Bryant viene a giocare in Italia

di Dario Vismara (@Canigggia)

Caro basket,

forse non ero del tutto sincero quando ho scritto che ero pronto a lasciarti andare. O meglio: forse ero pronto a lasciar andare il basket NBA, ma non il gioco della pallacanestro nella sua totalità.

L’ultimo anno con i Lakers e Olimpiadi di Rio sono state un’esperienza indimenticabile: vedere quanta gente—molti anche ruffiani, visto che erano quelli che mi criticavano e fischiavano—è venuta a salutarmi e a omaggiarmi per la fine della mia carriera mi ha fatto venire voglia di giocare ancora. Ovviamente non potevo costringere i Lakers a tenermi—loro devono andare per la loro strada, e dopo la botta di culo al Draft con Ben Simmons direi che sono su quella giusta—, io dovevo iniziare a pensare alla mia carriera post-pallacanestro.

Quando, una mattina del settembre scorso, ho letto sullo schermo del mio iPhone che mi stava chiamando “Giorgino”, pensavo che fosse di passaggio a L.A. e volesse incontrarmi per il solito brunch a Marina del Rey. Mi piace parlare con Armani, c’è sempre qualcosa da imparare da un uomo che ha fatto così tanti soldi—e io ne voglio fare altrettanti nella seconda parte della mia vita con la Kobe Inc.. Quando ci siamo incontrati—lui con i soliti occhiali neri, io ancora sudato dai due allenamenti mattutini (quello delle 3:45 e quello delle 8:35, certe cose non si cambiano)—però non voleva parlare di business. O meglio, non solamente di quello.

«Vieni a giocare un ultimo anno in Italia, nella mia Olimpia Milano. Vivendo vicini, potrò insegnarti tutto quello che so sul business, e ti farò diventare testimonial a vita della mia azienda. Possiamo anche parlare di quote della società, se ti interessa. Dal punto di vista cestistico, potrai fare quello che ti pare—sarà una grande operazione mediatica per tutto il mondo del basket, e sai quanto ti amiamo in Italia».

In condizioni normali non ci avrei nemmeno pensato, ma negli ultimi mesi il mio corpo aveva iniziato a reagire meglio e il mio amore per il gioco era ancora intatto. E poi tutti sanno quanto io e Vanessa amiamo l’Italia, visto che ogni estate facciamo la nostra settimana da piccioncini in giro per la Toscana. Non mi dispiaceva neanche la possibilità di far vedere alle mie bimbe i posti in cui sono cresciuto, magari insegnando loro qualche parola di italiano. E poi quel rompicoglioni di Metta da quando è tornado da Cantù non ha smesso un secondo di dire quanto è bello il lago di Como, quanto è buona la “vera pizza italiana”, quanto fosse figo fare shopping a Milano. Dovevo riprendere il controllo della mia Italia. Per tutti questi motivi alla fine ho accettato.

Quando sono atterrato alla Malpensa c’erano 10.000 persone lì ad accogliermi, molte delle quali accampate nella hall da un paio di notti. Sono a malapena riuscito a infilarmi in un van prima di essere trasportato nel mio ultra-esclusivo loft in Piazza San Babila (vicino ai negozi di via della Spiga, così Vanessa è contenta), la mia base milanese in attesa che il mio amico George Clooney mi lasciasse la sua villa a Como.

Devo dire che mi ha dato fastidio ritrovarmi in salotto una troupe televisiva di SKY, ma mi hanno detto che avevano investito talmente tanti soldi nell’operazione—e in effetti nel tragitto dall’aeroporto era impossibile non notare i cartelloni pubblicitari con la mia immagine ogni 100 metri—che sarebbero saltate parecchie teste senza quell’intervista di 5 minuti. Perciò ho indossato il sorriso più ruffiano che avevo e ho risposto con le solite banalità, rispolverando per la prima volta il mio italiano—cosa che li fa sempre andare fuori di testa, nonostante non riesca a dire mai niente di interessante usando la loro lingua.

Ora che posso fermarmi a ripensare ai mesi appena trascorsi, devo dire che non mi aspettavo un’accoglienza del genere: alla mia prima partita al Forum di Assago—contro Reggio Emilia, l’ultima squadra italiana di mio padre—erano presenti media da tutto il mondo e con le richieste per i biglietti (venduti a partire da 300€) avrebbero potuto riempire San Siro, dicono. Cosa che effettivamente hanno contemplato di fare nel corso della stagione, prima che gli facessi notare che, con l’umidità di Milano, sarebbe stato impossibile giocare degnamente a pallacanestro. Ma mi ci è voluto un po’. Non sto neanche a dirvi che i palazzetti erano sempre pieni e che le partite erano sempre in prima serata su SKY ed eccezionalmente qualche volta anche su Rai Uno, grazie a un accordo multi-milionario tra le due emittenti.

Ovviamente ci sono stati dei mitomani che hanno cercato in tutti i modi di mettersi in contatto con me. Il momento peggiore è stato una notte prima di una trasferta a Bologna, durante la quale hanno cercato di entrare nella mia camera d’albergo gridando: «Ma noi ti avevamo contattato su Facebook durante il lockout!!». Ce n’è uno però che mi ha inquietato più di tutti gli altri. Ovunque io sia stato sono stato seguito come un’ombra da un uomo basso e dal naso a punta: era presente a bordo campo a tutte le partite, era in studio tutte le volte che sono andato in tv, e in generale ovunque apparissi io magicamente c’era anche lui—nonostante io non gli avessi mai dato il consenso per essere presente. Neanche Tony Allen è riuscito a marcarmi così. Certe volte l’ho sentito dire cose tipo: «Lo stato di salute del basket italiano è eccezionale, visto che Cobbebriant ha deciso di venire a giocare da noi. Me ne sono occupato in prima persona, convincendolo della bellezza del nostro Paese e del nostro movimento». Ho cercato di interagire con lui il meno possibile: mi pare che si sia presentato col nome di Gianni, ma non saprei dire molto altro.

Di sicuro posso dire che il basket italiano non sta bene, non ci vuole di certo un genio per capirlo. Nonostante i soldi portati dalla mia presenza, i palazzetti restano vecchi e malandati—senza ombra di dubbio è stato lo shock più grande passare da quelli della NBA a quelli italiani, senza parlare della disorganizzazione. In generale poi ho avuto l’impressione che si usasse la mia presenza come tappeto sotto al quale nascondere tutti i problemi del basket qui, e che tutti cercassero di salire sul mio carro—prendendosi il merito del mio arrivo in Italia, dichiarando pubblicamente che erano miei grandi amici, cercando di “tirarmi per la giacchetta” per il loro quarto d’ora di gloria. Ma ci sono abituato—dopotutto ho passato gli ultimi 20 anni a Los Angeles, figuriamoci se tutto questo mi tange. La gente non è molto diversa, dopotutto.

Per quanto riguarda il gioco in sé e per sé, devo dire che mi sono divertito parecchio. Purtroppo con l’Olimpia non siamo riusciti a passare il girone iniziale della nuova Eurolega, ma ognuna delle 15 trasferte è stata un’esperienza indimenticabile, e sono riuscito a toccare con mano quanto la gente mi ami anche da questa parte dell’oceano. In Italia invece siamo andati sul velluto, anche perché il livello è ben più basso di quanto mi immaginassi, e ho vinto abbastanza comodamente la classifica dei marcatori—che alla mia età e con le mie vecchie gambe non è un brutto risultato. Le altre squadre si sono lamentate un po’ perché ho tirato oltre 10 tiri liberi a partita: dicevano che ero tutelato, a me sono sembrati semplicemente dei rosiconi (questa parola l’ho imparata quest’anno).

Ovviamente abbiamo chiuso al primo posto in regular season, e i playoff—in cui siamo passati alle sette partite per tutte le serie in stile NBA perché gli incassi erano troppo favorevoli, nonostante nessuno fosse in grado di reggere quei ritmi—sembravano fatti apposta per massimizzare la mia presenza: primo turno contro Roma (che da quello che ho capito è stata promossa “d’ufficio” in modo da poter sfruttare il PalaLottomatica ed è stata spinta verso l’ottavo posto con un’ultima partita palesemente regalata dagli avversari), semifinali contro Pistoia (con i miei amici d’infanzia a cui ho regalato personalmente dei biglietti) e finale Scudetto contro Reggio Emilia, degna conclusione della mia parabola italiana. Ovviamente abbiamo vinto, ed è stato bello chiudere alzando la coppa in mezzo all’invasione di campo al Forum di Assago. Non avrei potuto chiedere di meglio.

Anzi sì, c’è un’ultima cosa: nel corso del nostro anno italiano, Vanessa è rimasta incinta. Finalmente, dopo due femmine, avremo un maschio. Abbiamo deciso di chiamarlo Milan, in onore del luogo in cui è stato concepito. Sapete già che lo farò diventare più forte di me, vero? D’altronde il gioco del basket ha bisogno di un altro Bryant in campo.

Mamba out.

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