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2017: l’anno in cui l’All-Star Game cambierà per sempre
20 gen 2017
Zaza Pachulia #NBAVote
(articolo)
8 min
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Quando Ernie Johnson ricevette i nominativi dei titolari per l’All-Star Game di New Orleans, neanche lui poteva crederci. Pensava che lo stessero prendendo in giro, o che Shaquille O’Neal gli stesse tirando un brutto scherzo per farlo finire in puntata di Shaqtin’ A Fool. Invece era tutto vero: insieme a Stephen Curry, James Harden, Kevin Durant e Kawhi Leonard, il quinto titolare della Western Conference sarebbe stato Zaza Pachulia.

Subito dopo l’annuncio del volto principale di TNT, l’associazione giocatori e quella dei giornalisti rilasciarono il seguente comunicato congiunto: «Contrariamente a quanto deciso dalla NBA — che senza consultarci ha scelto di coinvolgerci nella votazione per i titolari dell’All-Star Game, mettendoci in una posizione difficile in quanto dall’ASG dipendono diversi bonus dei contratti, a volte anche di svariati milioni di dollari — l’All-Star Game è e rimane un evento per i tifosi. E per questo abbiamo deciso assieme di confermare i voti espressi dai fan di tutto il mondo per quanto riguarda i quintetti, come sempre è stato e come sempre dovrebbe rimanere. Sia l’associazione giocatori che quella dei giornalisti desiderano ringraziare Jalen Rose per la consulenza e la mediazione per questa scelta: il suo ‘Got To Get The People What They Want’ è stato per noi una fonte di ispirazione nel prendere questa decisione».

Le reazioni del mondo del basket furono di tutti i tipi: i primi rumors lanciati da Adrian Wojnarowski parlavano di una Olympic Tower furente per la pessima figura fatta, pronta a rimettere mano all’accordo collettivo concordato con la NBPA solamente poche settimane prima; i tifosi di tutto il mondo riempirono i social network di meme riguardanti il centro georgiano dei Golden State Warriors, innalzato ad eroe di culto del web; perfino Beppe Grillo e Matteo Salvini si sentirono in dovere di dedicare dei post sull’accaduto, elogiando il potere della giuria popolare.

La reazione del diretto interessato Zaza Pachulia, invece, fu affidata a un semplice quanto criptico tweet.

Nel corso delle settimane che separarono l’annuncio dei quintetti e il weekend delle stelle di New Orleans, il centro degli Warriors si rifiutò di parlare con la stampa, mormorando solo “Il tweet parla da solo” quando i giornalisti tentarono di estorcergli qualche commento sulla decisione della gente e quello che, a tutti gli effetti, era il punto più alto della sua carriera. Per uno che si era sempre dimostrato più che disponibile a collaborare coi media, quel silenzio così inusuale faceva ancora più rumore — anche perché veniva esteso ai suoi compagni di squadra, che non riuscivano a capacitarsi di quel comportamento. Sui forum e su Reddit iniziarono a circolare le teorie più strampalate a riguardo, che passavano dal becero razzismo («Magari non sa ancora parlare bene in inglese») fino alla cospirazione più assurda («È una spia del governo russo mandato per sabotare l’All-Star Game»). In un caso o nell’altro, nessuno riusciva a trovare una spiegazione per il suo silenzio e per quell’hashtag #NE.

Quando si presentò in campo per la palla a due, il suo volto era una maschera di serietà. Mentre i suoi compagni di squadra e gli avversari della Eastern Conference si scambiavano saluti e gesti di affetto per i soliti interminabili minuti, Pachulia rimase fermo sotto il suo canestro senza tradire la minima espressione facciale e senza dare alcun accenno di voler saltare per la palla a due, che venne vinta facilmente dall’Est grazie alle braccia infinite di un emozionatissimo Giannis Antetokounmpo. Il suo tocco in direzione di Kyrie Irving innescò lo schema classico dell’All-Star Game: la palla immediatamente alzata al ferro per il primo di una lunga serie di alley oop.

Solo che il salto di LeBron James venne bruscamente interrotto da una gomitata volante di Pachulia, che lo mandò per le terre in una scena tremendamente simile all’ultima azione di gara-7 delle Finals.

Il pubblico di New Orleans rimase impietrito. Una giocata di quella violenza era insensata anche per una partita di regular season, figuriamoci per un’All-Star Game. Persino i commentatori di TNT rimasero senza parole davanti a quel fallo, con gli arbitri che si guardarono interdetti chiedendosi se si potessero fischiare i falli flagrant in quella partita di esibizione. L’allenatore dell’Ovest Steve Kerr fu il primo a lanciarsi in campo cercando di separare Zaza Pachulia dal resto dei giocatori, che lo avevano circondati chiedendogli spiegazioni per quel gesto così inspiegabilmente violento. Sui social network — gli stessi social network che lo avevano portato fin lì — si levò un polverone di odio di rare proporzioni, con un altro hashtag che si elevò dalla massa: #DeathToZaza.

Il volto di Pachulia rimase impassibile per tutto il tragitto che lo separava dal campo alla panchina dove andò immediatamente a sedersi, e solo un primo piano strettissimo della regia televisiva riuscì a carpire un impercettibile mormorìo della sua bocca.

“…ntnteisi…”

La persona che si trovò più in difficoltà tra tutte fu Steve Kerr: cosa fare, continuare a tenerlo seduto per evitare di irritare ulteriormente avversari e i piani alti della NBA, o guardare al proprio interesse e schierare di nuovo il centro su cui avrebbe dovuto fare affidamento per il resto della stagione? Quando si avvicinò a Pachulia per parlargli, quest’ultimo gli disse poche ma granitiche parole: «Non farò del male a nessuno, ma nel secondo tempo mi rimetterai in campo. Sai che non puoi fare a meno di me. Se non lo fai, dovrai far giocare JaVale McGee titolare ai playoff».

Steve Kerr deglutì fortissimo e si allontanò da Pachulia tornando a sedersi in mezzo ai suoi assistenti allenatori, più pallido in volto del solito.

All’inizio del secondo tempo, sul punteggio record di 95-90 per la Western Conference a seguito di un primo tempo giocato con difese ancora più blande rispetto al passato, Zaza Pachulia fu regolarmente schierato in campo dal suo allenatore tra il brusio preoccupato della gente. Questa volta, nonostante gli sguardi di disapprovazione di compagni e avversari, il centro georgiano non fece niente di violento, ma continuò a tenere un atteggiamento poco ortodosso. I suoi blocchi erano duri e puntuali, i suoi tagliafuori precisi e fisici, i gomiti in area sempre ben allargati per far capire chi comandava, i piedi pestati a chi provava a prendere posizione a rimbalzo. Insomma, diede fondo a tutto la valigia dei trucchi che lo avevano fatto arrivare fino a lì, fedele al suo personaggio fino in fondo.

Poco a poco, cominciò anche a scandire due semplici parole. Inizialmente nessuno riusciva a capire cosa dicesse, si riusciva solo a notare lo sguardo stranito degli altri nove giocatori in campo quando lo incrociavano, come se fossero in presenza di un pazzo. I telecronisti a bordocampo avanzarono le prime ipotesi: «Credo che Zaza stia dicendo ‘Nothing qualcosa’ agli altri giocatori, ancora non capiamo bene». Impercettibilmente ma in maniera sempre più morbosa, l’attenzione della partita passò dalle evoluzioni prive di senso degli All-Star al comportamento di quel centro georgiano così sottovalutato per tutta la sua carriera. Ma fu solo dopo il suo primo e unico canestro della partita — un semplicissimo sottomano da mezzo metro, costruito per lui da un palleggio incrociato e uno dietro le gambe di Steph Curry — che Zaza Pachulia finalmente parlò ad alta voce rivolgendosi alla telecamera, interrompendo il voto di silenzio che aveva fatto fino a quel momento.

“Nothing. Easy.”

Solo a quel punto gli altri giocatori, gli allenatori, i dirigenti, i VIP a bordocampo, i tifosi sugli spalti, gli appassionati di tutto il mondo finalmente capirono. Nothing Easy, non lasciare niente di facile. Era la frase più iconica della sua carriera, pronunciata a squarciagola verso il pubblico di Atlanta quando con i suoi Hawks aveva forzato la gara-7 contro i Boston Celtics poi campioni nel 2008. E il mondo, improvvisamente, capì tutto.

Zaza Pachulia voleva che l’All-Star Game venisse giocato sul serio dai giocatori in campo.

Continuando a ripetere in maniera ossessiva le due parole rivolgendosi ai giocatori e al pubblico, l’eroe del popolo trascinò con sé tutto il palazzetto di New Orleans, che accompagnò la sua uscita dal campo con un coro assordante: “NO-THING-EA-SY! NO-THING-EA-SY!”. Prima di andare in panchina, si girò verso i giocatori riuniti in mezzo al campo dicendo solamente: «Li sentite adesso? Got To Get The People What They Want».

I giocatori, presi alla sprovvista, ci misero qualche secondo a confrontarsi, ma quando LeBron James — proprio lui che durante l’intervallo aveva chiesto l’allontanamento di Pachulia dallo stesso palazzetto — disse agli altri: «Zaza ha ragione. Diamo alla gente quello che vogliono», tutti si convinsero.

Quello che ne seguì fu l’ultimo quarto più bello della storia della pallacanestro, il migliore spot che il mondo del basket potesse fare al suo prodotto: dieci giocatori versatili che giocavano senza alcuna distinzione manichea di ruolo o di compiti, cambi vorticosi, spaziature perfette, competitività, atletismo, voglia di vincere.

Prima dell’ultimo possesso per la Western Conference — sotto solamente di un punto a 10 secondi dalla fine dopo il canestro da tre segnato da Kyrie Irving — Zaza Pachulia si alzò e si avviò verso gli spogliatoi. Aveva già visto abbastanza, non gli interessava più il risultato finale.

Incrociò lo sguardo di un giornalista, il primo che provasse a rivolgergli la parola da settimane. Zaza per una volta sorrise e disse solo: «Ora che ho cambiato il basket per sempre, mi ritiro. Dite a Steve Kerr che mi dispiace».

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