Per spiegare l'eccitazione che si prova a seguire giovani talenti userò un'immagine a portata di mano. Dalla finestra di casa mia vedo il campo da calcetto/basket/tennis/educazione fisica di una scuola elementare e adesso che sono finite le lezioni i ragazzini giocano tutto il giorno. Però degli alberi ostruiscono la vista e vedo solo una metà del campo. È frustrante, perché di una squadra vedo solo l'attacco e dell'altra la difesa; ma è anche eccitante, perché nonostante tutto la seguo come se fosse una partita vera, cercando di immaginare cosa sta succedendo nella metà di campo che non vedo: penso che bravo il ragazzino grasso con la maglia rossa che ha tolto palla a quello alto con la maglia gialla, ma poi non vedo che succede quando si lancia in avanti allungandosela e posso solo sperare che non l'abbia persa. È la stessa cosa con i talenti più giovani: per metà ci si sforza di conoscerli per come sono, per metà ci si immagina come possono diventare, incrociando le dita. Il successo nel calcio moderno è talmente imprevedibile che è inevitabile prendere cantonate, appassionarsi a giocatori che poi finiscono in serie minori, o sulla panchina di qualche squadra mediocre. È frustrante, ma il gusto di seguire i giovani sta tanto in quello che vediamo quanto nella nostra capacità di scommettere sul futuro che in fondo sappiamo di non conoscere. In realtà non lo sa nessuno cosa diventeranno questi calciatori, non lo sa chi investe su di loro milioni di euro, figuriamoci chi guarda da una finestra con gli alberi davanti . (D.M.)
Federico Viviani (1992) – Italia
di Daniele Manusia (@DManusia)
Federico Viviani è il primo caso in cui il cosplayer di un calciatore famoso diventa a sua volta calciatore. Il calciatore di cui Viviani si mette il costume per giocare è Daniele De Rossi, con cui ha condiviso lo spogliatoio e che probabilmente ha guardato quasi ogni giorno mentre cresceva nelle giovanili della Roma (da quando si è trasferito da Lecco). Gioca nella stessa posizione centrale in un centrocampo a 3 e ha la stessa filosofia di calcio come un'arte marziale composta da interventi difensivi estremi, come se dalla palla che vuole togliere all'avversario dipendesse il destino dell'umanità, e frivolezze tecniche: tacchi al limite al limite dell'area, compilation di dribbling difensivi, lanci a casaccio a tagliare il campo da una parte all'altra.
Il primo a sdoganare un'idea di centrocampista tough e stiloso al tempo stesso è stato De Rossi, che ha cominciato giocando più vicino alla porta avversaria e fino alla riconversione in difensore aggiunto voluta da Luis Enrique (che ha fatto esordire in Serie A Viviani contro la Juventus) sembrava interessato anche a segnare. Ancora oggi, a dirla tutta, quelle rare volte in cui De Rossi segna gode come un pazzo, ogni volta mi chiedo se non sta sacrificando una parte troppo grande di sé stesso. Viviani si avvicina raramente all'area avversaria, si è formato sull'ultimo De Rossi, quello dei dribbling di suola sull'avversario in pressione, quello dei cambi di campo con la palla che si alza come fosse un palloncino che il vento trascina fuori dallo stadio. A Latina ha giocato con la maglia numero 7 e da piccolo giocava attaccante, quindi magari anche a lui starebbe stretta una carriera davanti alla difesa.
Viviani gioca come la versione aggiornata di un calciatore esperto a fine carriera, per questo forse Mark Iuliano, l'allenatore del Latina, gli ha dato anche la fascia da capitano. Viviani è andato via da Roma con l'aria del coatto che apparecchia e sparecchia la tavola dopo aver cenato con i genitori, ma dopo l'ultimo anno e mezzo nell'Agro Pontino (e le esperienze precedenti a Padova e Pescara) ha l'aria del ragazzo-padre che si sveglia tutte le mattine alle sei e mezza, fa fare colazione al figlio e poi va in fabbrica. Questo se Viviani fosse il protagonista di un film di Ken Loach, o Ben Affleck.
Io scelgo la palla filtrante di esterno a 1:19.
Fisicamente non ha l'imponenza di De Rossi e non è velocissimo, però è abbastanza veloce da recuperare in scivolata gli avversari che scappano palla al piede. A lui non piace portare la palla per porzioni grandi di campo, corricchia quasi sul posto con la palla vicina al piede, il tempo necessario per trovare un compagno a cui passarla, più lontano è meglio è, magari dalla parte opposta, con una linea di passaggio strettissima che taglia fuori mezza squadra avversaria. È il suo modo di dimostrare quanto vale.
Calcia bene sia di destro che di sinistro, non è molto preciso (come De Rossi), soprattutto rasoterra, ma ha una buona visione di gioco (come De Rossi) e non ha paura di sbagliare. Quest'anno ha segnato 8 gol in campionato ed è uno specialista delle punizioni dal limite: prepara il tiro con dei passettini sul posto che somigliano a una marcia militare e di destro sa calciare a giro da qualsiasi punto fuori dall'area, in uno qualsiasi dei quattro angoli della porta (da piccolo guardava i video di Mihajlovic e Beckham).
Sarà interessante vedere dove può arrivare un giocatore così particolare, con pregi e difetti già chiarissimi. Le potenzialità di Viviani sono nascoste nei vari passaggi di categoria che dovrà affrontare (si parla di Palermo, ma non è ancora ufficiale) e nella sua capacità di compensare con il carattere e l'intelligenza i limiti tecnici e atletici. Perché di più dotati di lui ce ne sono senz'altro moltissimi, ma come lui non c'è nessuno. O meglio, c'è De Rossi.
Rúben Neves (1997) – Portogallo
di Emanuele Atturo (@Perelaa)
Se vi piacciono le storie di predestinazione a questi Europei dovreste tener d’occhio Rúben Neves, centrocampista del Porto e della selezione lusitana. Come in ogni storia di predestinazione i numeri e le date hanno la loro importanza. A 17 anni, 5 mesi e due giorni è stato il giocatore più giovane ad aver esordito con la maglia del Porto, contro il Marítimo.
Dopo 11 minuti ha già infilato un diagonale di destro sul secondo palo.
Lo scorso anno, nei preliminari contro il Lille, è stato il più giovane esordiente portoghese nella storia della Champions League, superando il Cristiano Ronaldo del 2002. Neves non si è limitato a fare presenza ma è stato tra i migliori del doppio confronto vinto dai portoghesi: 4 tiri, 5 dribbling, 2 passaggi chiave in due partite. Con più di 100 tocchi è stato il giocatore più coinvolto nel gioco dopo Casemiro ed Herrera: i compagni non hanno mai visto in lui un esordiente, soprattutto perché è raro che un esordiente faccia questo tipo di cose in uno scontro diretto di Champions League:
Qualità tecnica, calma e personalità in una sola azione.
Luis Castro, allenatore del Porto B, ha descritto così l’impatto di Neves nel calcio professionistico: «La gente parla delle sue qualità tecniche e tattiche, ma è un incredibile talento soprattutto dal punto di vista mentale. Gioca con una calma straordinaria; sa cosa richiede ogni situazione di gioco. Non ha senso parlare di processo di maturazione quando un giocatore è già pronto». Dopo queste incredibili prestazioni alcuni grandi club hanno iniziato a ronzargli attorno, tanto che il Porto è stato costretto a rinnovargli il contratto fino al 2017 con una clausola rescissoria che arriva a 40 milioni.
Neves ha chiuso la stagione con 37 presenze, aumentate negli ultimi mesi, dimostrando di trovarsi a proprio agio nel calcio associativo proposto da Julen Lopetegui, dove viene schierato principalmente come mezzala di possesso del 4-3-3. Neves ha trovato nell’ex allenatore dell’Under-21 spagnola il tecnico ideale per la propria crescita: non solo è abituato a lavorare con i giovani, ma la sua idea di calcio sembra su misura per valorizzare le doti di gestione del pallone del portoghese. Nonostante sia stato accostato, più per suggestione che per reale somiglianza tecnica, a João Moutinho, Neves offre un’interpretazione più moderna e dinamica del ruolo di regista. Alla gestione corta del possesso, affianca una capacità di calcio che gli permette di coprire 40 o 50 metri con assoluta precisione, soprattutto col destro (piede naturale) che col sinistro. Per questo si leggono articoli di tifosi del Liverpool che lo vorrebbero ad Anfield come «il sostituto di Xabi Alonso che non è mai arrivato». La capacità di leggere le situazioni e di fare sempre la scelta giusta lo rendono tra i giovani più affidabili per costruire un calcio basato sulla gestione del pallone, anche per l’aggressività che dimostra in fase di non possesso, dove ha ottimi tempi di pressione. Cristian Tello, ex giocatore del Barcellona in prestito al Porto, lo ha definito «fantastico con la palla tra i piedi, sa dove giocare ed è molto aggressivo. Somiglia a Sergio Busquets».
Difficilmente il Porto lo lascerà andare questa estate. Con Óliver Torres e Casemiro pronti a tornare alle due sponde opposte di Madrid, il prossimo anno Rúben Neves diventerà probabilmente uno dei cardini del gioco di Lopetegui.
Filip Kostic (1992) – Serbia
di Gabriele Anello (@nellosplendor)
Negli ultimi giorni Kostic è stato escluso dalla lista dei convocati della Serbia su richiesta dello Stoccarda. Dieci giorni fa ha esordito con la Nazionale maggiore contro l'Azerbaijan, godetevelo lo stesso.
Tra le nomination proposte da ESPN per il premio di miglior giocatore di maggio nelle top 5 leghe europee, accanto a Lionel Messi e a Cristiano Ronado, c’era anche Filip Kostic. Un ragazzo che non è cresciuto nel vivaio delle due superpotenze serbe (Stella Rossa e Partizan), che ha esordito tardi in Nazionale maggiore, ma che ha fatto sognare i tifosi dello Stoccarda durante la primavera.
Cresciuto nel FK Radnicki 1923, ha giocato per tre anni nel club che ha lanciato anche Predrag Djordjevic (ancora venerato dai tifosi dell’Olympiakos). Nell’estate del 2012 passa al Groningen, in Eredivisie, per poco più di un milione di euro, la stessa squadra in cui trovò la consacrazione Arjen Robben, a cui lo stesso Kostić è stato paragonato, per la progressione e il mancino preciso. Mentre in Eredivisie si metteva in luce il suo connazionale Tadic con la maglia del Twente, Kostić cresce all’Euroborg: un 2013-14 da undici reti e otto assist in 38 partite.
Il sinistro a giro da PlayStation contro l’Ajax è molto Arjen Robben.
La sua maturazione ha subito un trauma nell’estate 2014. Kostić inizia la sua terza stagione con il Groningen con la possibilità di andar via. Rimane, almeno finché non se ne esce con una frase infelice per i tifosi. Dopo l’andata del preliminare di Europa League contro l’Aberdeen, finito con uno striminzito 0-0, Kostic sentenzia: «Andiamo a casa felici. Abbiamo fatto l’80% di quello che dovevamo fare». I media si arrabbiano, il Groningen perde il ritorno per 2-1 e l’allenatore avversario si vendica: «Sono contento di avergli ficcato quelle parole dritte in gola».
A quel punto, Filip ha dovuto salutare l’Olanda: la situazione è troppo compromessa per rimanere. Lo Stoccarda se lo assicura per sei milioni di euro, che rischiano di diventare una plusvalenza la prossima estate. Kostic ha stupito tutti, in punta di piedi, perché il suo girone d’andata è stato normale. Quei sei milioni sembravano esser diventati un investimento a perdere. Poi l’esplosione in primavera: quattro assist e due gol nelle ultime nove giornate, decisivi per mantenere il club in Bundesliga.
A differenza di quando giocava in Olanda: non è più terminale offensivo, ma colonna mancina del tridente dietro la punta Ginczek.
A sinistra, senza piede invertito, gioca ancora meglio. L’unione tra progressione, forza fisica ed efficacia balistica lo fa somigliare più ad Antonio Candreva, per certi versi. Tra le progressioni spaventose segnaliamo questa in particolare.
Se la Serbia gioca questi Europei, è merito di Kostic. Il suo mancino ha segnato il 2-1 decisivo nel ritorno dei play-off. Una rete pesante, capace di eliminare la Spagna campione d’Europa uscente.
Pierre-Emile Hojbjerg (1995) – Danimarca
di Federico Aquè (@FedAque)
Nel libro Pep Confidential, Martí Perarnau descrive come Guardiola, appena arrivato al Bayern Monaco, abbia provato a trasformare Pierre-Emile Hojbjerg nel nuovo Sergio Busquets, insegnandogli i movimenti da “numero 4” e lavorando in particolare sull’intesa con il centrale difensivo, nel caso Jerome Boateng.
Il rapporto Guardiola-Hojbjerg è più profondo del semplice rapporto allenatore-giocatore. In Pep Confidential Hojbjerg e Lahm vengono definiti i due giocatori simbolo del primo anno di Guardiola al Bayern Monaco. Pep si sofferma spesso a parlare con Hojbjerg e piange con lui quando il giovane danese lo informa che al padre era stato diagnosticato un cancro. Hojbjerg definisce Guardiola «la miglior cosa possibile che potesse capitare al Bayern».
Se si dovesse giudicare l’allievo dal maestro, insomma, non ci sarebbero dubbi sul fatto che nei prossimi anni Hojbjerg si imporrà come uno dei migliori centrocampisti della propria generazione. Eppure per trovare spazio è dovuto andare all’Augusta, con il quale ha concluso la Bundesliga al quinto posto, conquistando una storica qualificazione all’Europa League.
Un gol bello e importante, perché fa partire la rimonta contro il Borussia Mönchengladbach nell’ultima, decisiva giornata di campionato.
L’esperienza con l’Augusta è la più significativa fin qui per Hojbjerg: ha giocato 16 partite su 17 in Bundesliga, 10 da titolare e segnato due gol. Oltre a quello nel video qui sopra ne ha segnato un altro al Paderborn con un tiro da fuori area che si infila sotto la traversa. Come dire, la potenza non gli manca e quando arriva sui venti metri è davvero pericoloso.
L’esuberanza fisica (1,85 m per 81 kg) è evidente e sarà un’arma importante per la Danimarca in questo Europeo Under-21. L’utilizzo del corpo per gestire la palla è già impressionante, se a ciò si aggiunge il senso della posizione innato si capisce perché Guardiola abbia provato a trasformarlo nel “numero 4” del suo Bayern.
In realtà il suo ruolo non è ancora definito: la capacità di coprire ampie porzioni di campo (ha giocato anche da laterale destro nella finale di Coppa di Germania del 2014) lo può far diventare un eccellente centrocampista box-to-box. È stato paragonato spesso a Bastian Schweinsteiger, ma ha anche giocato da trequartista. Qualità e visione di gioco non gli mancano, se sarà impostato stabilmente da “numero 4” dovrà però migliorare nelle letture difensive.
È il giocatore più giovane della Danimarca, ma è al tempo stesso uno dei più attesi, nonché possibile stella del torneo. È titolare con la Nazionale maggiore (con la quale ha già segnato), per cui è lecito aspettarsi un Europeo da trascinatore, per tornare a giocarsi le sue carte al Bayern (si parlava di un interesse della Sampdoria, ma i bavaresi hanno ufficializzato il suo ritorno) con uno status diverso e guadagnarsi più minuti di quelli che gli ha concesso finora Guardiola.
Filip Djuricic (1992) – Serbia
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
Per Filip Djuricic questo torneo è un’occasione ben diversa rispetto ai coetanei. Non lo affronta come una tappa di crescita, ma come un’occasione di rinascita. A 23 anni il serbo è obbligato a giocare un torneo di livello per poter sperare di cambiare il corso della propria carriera, che sta scendendo nell’anonimato nonostante il talento di cui dispone e le ottime premesse.
Il “Cruijff dei Balcani” (giuro che lo chiamavano veramente così quando era teenager) ha alle spalle un passato di grandissime aspettative in patria, dove è stato considerato il miglior trequartista della sua generazione, guadagnandosi a 16 anni le attenzioni del Manchester United di Ferguson e dell’Ajax. Lui avrebbe accettato volentieri l’offerta dello United, se non fosse che con le stringenti regole sul permesso di lavoro nel Regno Unito gli viene negata questa possibilità. Djuricic rifiuta invece l’Ajax per evitare di doversi giocare il posto con la stella delle giovanili della squadra di Amsterdam, Christian Eriksen. Accetta l’anno successivo di andare in Olanda, ma all’Heerenveen, che per lui spende 1.5 milioni di euro (500k in più rispetto a quanto l’Ajax aveva pagato proprio Eriksen). In Olanda, dopo il necessario tempo di ambientamento, esplode diciannovenne e chiude la stagione con 10 gol e 12 assist. Trequartista che rasenta la perfezione tecnica, con grande visione di gioco e tecnica di tiro, in Olanda impara a muoversi senza palla e a sfruttare i movimenti dei compagni, rendendo finalmente, almeno in parte, giustizia al soprannome. Il tutto con un fisico slanciato, che quando corre palla al piede ricorda tremendamente quello del grande Johann.
Sono ormai passati tre anni dalla stagione dell’esplosione di Djuricic. Non può fallire quindi questo torneo.
Dopo il debutto in Nazionale a vent’anni, e un’altra importante stagione personale, arriva nel 2013 l’occasione in una grande squadra con il Benfica, che per lui spende 8 milioni e gli fa firmare un contratto di 5 anni con clausola di rescissione a 40 milioni. Purtroppo la parte ascendente della carriera finisce qui. Il primo anno al Benfica è da dimenticare: 22 presenze (di cui solo la metà in campionato) scialbe, i miglioramenti del gioco del periodo in Olanda sembrano dimenticati.
La necessità per il Benfica di trovargli minuti in campo lo portano alla cessione in prestito al Mainz. In Germania dura solo 6 mesi e chiude con 12 presenze e l’umiliante giudizio del suo allenatore Hjulmand: «Deve capire che sono necessarie più velocità e più forza fisica qui». Come a dire che sì, sei tanto pulito tecnicamente, ma corri poco e sei tanto magro che ti spostano. Il Southampton lo prende in prestito a gennaio ma i sei mesi in Inghilterra non cambiano la realtà stagnante di Djuricic, che non arriva a 10 presenze e chiude con 0 tiri in porta e assist la stagione. Spesso in campo sembra passare il tempo concentrato nel trovare la giocata di lusso, convinto di aiutare così la squadra. Protegge il pallone in modo perfetto, ma poi vuole un filtrante che compagni meno bravi a leggere lo spazio non capiscono. Rimane tecnicamente pulitissimo, ma gioca da solo, nonostante la voglia essere un giocatore associativo. Un brutto paradosso da cui deve uscire al più presto: questo torneo deve essere la sua occasione per indirizzare una carriera che non sta andando come avrebbe dovuto.
Saido Berahino (1993) – Inghilterra
di Giacomo Detomaso (@gdetomaso)
A cinque minuti dal termine di Inghilterra-Croazia, gara d'andata dei playoff per qualificarsi all'Europeo Under-21, sul punteggio di 1-1, Saido Berahino (che aveva già confezionato il cross del pareggio per la testa di Harry Kane) ruba il tempo al portiere croato e viene atterrato in area.
Non passa nemmeno un secondo dal fischio dell'arbitro che Berahino è già schizzato in piedi per andarsi a prendere il pallone: l'idea di trovarsi solo davanti a una grande responsabilità non lo spaventa, anzi.
I primi dieci anni di vita di Saido dovrebbero farci rivalutare il concetto di "infanzia difficile". Nato nell'agosto 1993 in Burundi, il secondo Paese più povero del mondo, non ha nemmeno cominciato a gattonare quando, nell'ottobre dello stesso anno, inizia il conflitto civile tra le etnie Hutu e Tutsi. Dopo meno di quattro anni la guerra si porta via il padre. Quando lui ne ha otto la madre e i suoi fratelli riescono a fuggire e a trovare asilo in Inghilterra, ma Saido li raggiungerà due anni dopo viaggiando da solo, dal Burundi alla Tanzania, dalla Tanzania al Kenya, da dove decollerà per l'Europa. Ricongiuntosi con la famiglia a Birmingham, ci mette un attimo a farsi notare, grazie alle abilità affinate giocando con una palla fatta di buste di plastica avvolte da lacci: a undici anni è già del West Bromwich Albion.
Nell'ultima stagione ha segnato 14 reti in Premier, sesto nella classifica marcatori, terzo tra gli inglesi. In quella precedente, la prima da titolare nella massima serie, è stato spesso schierato sulle due fasce, una posizione che poco si addice ai suoi istinti di realizzatore e alla non così spiccata predisposizione al dribbling. Ha finito per giocare al centro, a supporto di una punta più fisica, ma anche da unico attaccante. Di certo Berahino non è un punto di riferimento statico. Vive le sue partite galleggiando sulla linea del fuorigioco, indicando costantemente ai compagni con il braccio il punto dove sta per scattare. Anche spalle alla porta sa come farsi valere, riuscendo, grazie alla buona tecnica, ad addomesticare palloni imbizzarriti che restituisce docili ai compagni.
I gol di Berahino: tiri chirurgici con l'interno destro e movimenti d'astuzia in area.
Lo scorso novembre gli è stata sospesa la patente per guida in stato di ebbrezza oltre i limiti di velocità (non la prima bravata). Una vicenda che, insieme a qualche tweet polemico nei confronti di allenatori avuti in passato, gli ha procurato la fama di "bad boy".
Con l'Europeo che sta per iniziare avrà l'occasione di raggiungere, segnando tre reti, quota 13 con l'Under-21, ovvero le stesse realizzate dai capocannonieri all time Shearer e Jeffers. Ma soprattutto di convincere una grande a investire su da lui sin da subito, perché, come ha fatto capire con scarsa diplomazia, che ben si abbina al suo stile di gioco senza fronzoli, Berahino scalpita per andar via anche dal WBA.
Emre Can (1994) - Germania
di Dario Saltari (@dsaltari)
Sono tante le cose che la Germania deve alla Turchia. Tra le più importanti: la religione islamica, il kebab, la stabilità della piramide demografica e il talento sui campi da calcio.
Quello dei giocatori tedeschi di origine turche sta ormai diventando un brand di successo. È una storia che parte da Mehmet Scholl, passa per Mesut Özil e arriva fino a Ilkay Gündogan. All’interno di questa grande famiglia, che riunisce giocatori passati, presenti e futuri, sta assumendo un ruolo sempre più importante Emre Can.
Can è cresciuto calcisticamente nell’Eintracht di Francoforte e quando arrivò al Bayern Monaco era considerato uno dei più grandi talenti del calcio tedesco. Ai Mondiali U-17 del 2011 attirò su di sé l’attenzione di tutti segnando uno dei goal più belli della competizione. Poi la luce dei riflettori si è gradualmente abbassata: fu ceduto al Leverkusen nell’estate del 2013 con diritto di recompra (come avevano già fatto con Alaba, Lahm e Kroos, disse Rumenigge) ma quando arrivò il Liverpool con i 12 milioni di euro necessari per attivare la clausola rescissoria, il Bayern Monaco si accontentò di incassarne due per astenersi dall’esercitarlo.
A vederlo correre, effettivamente, somiglia a Ballack.
Nella folle campagna acquisti del Liverpool della scorsa estate Can fu sicuramente l’acquisto meno discusso, nessuno sapeva bene cosa aspettarsi dal giocatore tedesco. In patria era stato accostato prima a Ballack e poi a Schweinsteiger e per questo inizialmente si pensò a lui come a un possibile sostituto di Gerrard o al massimo di Henderson. La svolta della sua stagione (e per adesso della sua carriera) arrivò intorno a dicembre, quando Rodgers, in crisi nera di risultati, decise di passare al 3-5-2.
Da quando l’allenatore del Liverpool ha iniziato a schierarlo all’interno della difesa a tre, Can ha ricominciato a essere considerato uno dei giovani più interessanti del panorama mondiale. Rodgers, con l’entusiasmo dello scienziato che vede il suo esperimento riuscire, lo ha paragonato ad una Rolls-Royce. Il ruolo da difensore centrale, infatti, gli permette di mascherare i suoi principali difetti (lentezza, scarso movimento senza palla) mettendo in luce invece i suoi punti di forza (progressione palla al piede, tecnica, visione di gioco).
Il momento più alto della bellezza regalata quest’anno ai tifosi del Liverpool.
Con Can anche la Germania U-21 potrà fare affidamento su un difensore abile a costruire dal basso e a evitare il pressing avversario con il lancio lungo preciso o con il dribbling. L’Europeo sarà l’esame di ammissione definitivo al club dei difensori centrali. Can dovrà infatti dimostrare di aver assimilato completamente il ruolo, evitando gli errori che la giovane età e l’adattamento a una nuova posizione hanno richiesto in passato.
Milos Jojic (1992) - Serbia
di Lorenzo De Alexandris
Se dovessimo dare un'immagine all'aforisma latino annus horribilis potrebbe funzionare la stagione 2014/2015 di Milos Jojic. In forza al Borussia Dortmund, il ventitreenne centrocampista serbo si è seduto spesso in tribuna per scelta di Klopp, come lo stesso mister neodimissionario ha ammesso, nessun infortunio. Ciliegina sulla torta della sua annata una truffa su Facebook fatta tramite il suo profilo.
L’arrivo a dicembre del nuovo c.t. dell'Under-21 serba, Mladen Dodic, ha dato nuova linfa al ragazzo di Stara, che ha trovato minutaggio importante per non uscire completamente dal calcio giocato. A inizio carriera, dopo una positiva esperienza nella B serba al Teleoptik Zemun, fa ritorno alla base Partizan.
Il suo primo anno in bianconero sulle sponde della Sava si riassume in una data e una partita. 28 maggio 2013, derby di Belgrado contro la Stella Rossa. Il Partizan è avanti in campionato di due punti a sette giornate dalla fine. Al minuto 89 punizione dal limite. Se ne incarica Jojic. Tiro a giro, traversa, gol.
Il Partizan batte 1-0 i rivali, vola in classifica e alla fine vince il campionato. Fuori dai confini è ancora poco conosciuto, ma un altro inizio di stagione impressionante, 2013, lo porta sotto le luci della ribalta. Sei gol nei primi sei mesi in bianconero, poi esordio nella Nazionale maggiore. Un predestinato. Entra e dopo 20 minuti in un'amichevole, dedicata all'addio al calcio di Stankovic contro il Giappone segna il 2-0.
In molti si interessano a lui, su tutti Napoli, Stoccarda e Leverkusen. Il Borussia brucia tutti a gennaio con un'offerta di 2,2 milioni di euro. Dovrebbe servire per sostituire Blaszczykowski. Date infatti le sue qualità tecniche può interpretare più ruoli: quello che preferisce è il regista, non a caso ha come idolo e modello Toni Kroos; può giocare anche da intermedio nel centrocampo a tre o da trequartista centrale nel 4-2-3-1, come preferisce Dodic.
Nell’inverno 2013-2014 viene visto come il possibile sostituto di Gündogan. Il 15 febbraio del 2014 esordisce contro l’Eintracht e sostituisce Mkhitaryan: impiega 17,04 secondi per segnare il suo primo gol.
Ne farà altri tre prima della fine della stagione.
L'inizio di questo campionato gli ha però riservato solo qualche presenza nelle prime giornate, poi il vuoto. Eppure il talento non sembra mancare a Jojic: ha dribbling, visione di gioco e un destro con cui può andare alla conclusione o costruire azioni, sia da palla inattiva che in movimento.
Jojic non sembra riproporre lo stereotipo del balcanico tutto indolenza e follia. Sui social network consiglia libri da leggere ai suoi follower. Uno degli ultimi, Il manoscritto ritrovato ad Accra, dove Paulo Coelho scrive: «La cosa peggiore non è cadere, bensì non rialzarsi e giacere nella polvere».