Le profezie raramente si avverano e sono spesso sconvenienti, sia per chi le pronuncia che per chi ne è oggetto. Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè, è stato uno più grandi nella storia del calcio, ma alcuni suoi pronostici hanno lasciato strascichi negativi, come la Colombia vincitrice alla Coppa del Mondo 1994 o il Brasile eliminato ai gironi nel 2002. Durante Italia 90, però, Pelè andò oltre. Di fronte al Camerun sconfitto ai quarti dall’Inghilterra, O Rey fu didascalico: «Un’africana vincerà il Mondiale entro il 2000» (salvo ripensarci otto anni più tardi). Al di là della sparata, l’interrogativo rimane: è veramente possibile mettere fine al duopolio Europa-Sud America?
Nella storia dei Mondiali, i venti trofei sono stati quasi equamente divisi tra il Vecchio Continente (11) e l’America Latina (9). Agli altri – per storia, cultura ed evoluzione dello sport – sono rimaste le briciole. L’Oceania ha all’attivo un ottavo di finale con l’ultima Australia nella sua confederazione; il Nord America un terzo posto con gli USA, ma nel 1930; l’Africa, invece, sul podio non ci è mai arrivata, raggiungendo al massimo i quarti (Camerun ’90, Senegal 2002 e Ghana 2010).
In questo scenario, è sorprendente scoprire che l’Asia è la confederazione che più recentemente ha centrato (l’unica) top 4 della sua storia ai Mondiali. L’avventura della Corea del Sud nell’edizione casalinga del 2002 è ricordata più per i vizi arbitrali ma dietro c’era comunque la mano di Guus Hiddink, che avremmo sofferto anche quattro anni più tardi, stavolta in versione Aussie.
Il termine fixed ha cancellato quanto di buono ha fatto la Corea del Sud nel girone. E forse anche nella semifinale con la Germania, vinta con Kahn e Ballack in versione superstar.
Eppure l’ultimo Mondiale per club ci ha dato qualche indicazione interessante sulla crescita del calcio asiatico. I Kashima Antlers in Giappone sono una tradizione: 20 titoli in due decenni di professionismo indicano una mentalità vincente, la stessa che li ha portati in finale al Mondiale per club, costringendo il Real ai supplementari dopo esser persino passati in vantaggio. Può sembrare una semplice luce nel buio, ma è il segno di come gli equilibri calcistici potrebbero cambiare nei prossimi anni.
Storia e problemi
Per usare un proverbio: «A esser giovani s’impara da vecchi». E di strada per maturare l’AFC (Asian Football Confederation) ne ha fatta parecchia. Se la CONMEBOL ha una nascita precoce (1916) e l’UEFA, fondata negli anni ’50, in realtà aveva già grosso potere nella FIFA dal 1904, l’AFC è stata la terza confederazione a darsi un suo statuto: 13 federazioni si unirono per formarla a Manila l’8 maggio del 1954.
È un processo fisiologico: dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, le potenze coloniali hanno perso un po’ di peso. Nonostante i diversi conflitti, il calcio ha trovato un modo per farsi spazio e ramificarsi: tramite un lavoro lungo 60 anni, l’AFC oggi accoglie 47 federazioni, tra cui esuli dall’OFC (Guam e l’Australia) e membri AFC, ma non FIFA (le Isole Marianne settentrionali). Ha creato diversi tornei per club e per nazionali, ma soprattutto ha una struttura di cui poter esser fiera, peraltro recentemente riformata.
L’AFC è guidata dallo sceicco Salman Bin Ibrahim Al-Khalifa, ex presidente della federazione del Bahrain e membro della famiglia reale che governa il paese. Recentemente ha anche tentato la scalata alla FIFA, ma molti lo hanno criticato per questa scelta: un po’ perché il suo lavoro all’AFC è apprezzato e temevano distrazioni, un po’ perché secondo Human Rights Watch Al-Khalifa sarebbe stato coinvolto nella repressione degli oppositori al regime in Bahrain.
Purtroppo, gli ultimi presidenti AFC sono stati controversi: il qatariota bin Hamman (2002-2011) è rimasto pesantemente coinvolto in vari scandali, mentre il malese Ahmad Shah (’94-2002) è stato lo Yang di-Pertuan Agong di stato, ovvero il sovrano della Malesia dal ’79 all’84. Nonostante l’enorme disponibilità economica, la sicurezza di vincere e degli avversari apparentemente sfavoriti, alla fine Al-Khalifa ha perso contro Gianni Infantino.
«Non abbiamo mai preso decisioni sui giocatori riguardo problemi che non siano relativi al calcio».
A questo si aggiungono problemi che attanagliano alcune federazioni. Le sospensioni non sono uno strumento nuovo usato dall’AFC: l’ultimo (e abbastanza imbarazzante) caso è quello del Kuwait, la cui federazione è stata invasa dal controllo governativo, contrariamente a quanto stabilito dai regolamenti continentali e FIFA (per lo stesso motivo l’Indonesia non ha iniziato il percorso di qualificazione al Mondiale 2018).
Ma se la squalifica per l’Indonesia è arrivata nel maggio 2015, con effetto immediato, diversa è stata la sorte del Kuwait, la cui federazione di fatto è stata sospesa nell’ottobre 2015, impedendo la partecipazione delle sue rappresentative nazionali alle competizioni asiatiche. Il Kuwait è presente nelle qualificazioni ai Mondiali del 2018, con la squadra comunque ancora in corsa per il terzo turno, nonostante una federazione recidiva.
La ciliegina è arrivata in chiusura di 2016, con l’AFC che ha rinviato la decisione sulla sospensione all’11 gennaio 2017, lasciando in vita una federazione non in regola. Con il Kuwait escluso, a rientrare in gioco è Macao, eliminata al primo turno, ma vice-campione dell’AFC Solidarity Cup, la nuova coppa che promuove le realtà marginali dell’AFC e che sostituisce l’AFC Challenge Cup, abolita nel 2014. Il tutto dopo che Guam – underdog della prima fase di qualificazione – ha dovuto rinunciare al percorso per problemi finanziari, facendosi sostituire dal Nepal, anch’esso eliminato malamente nel primo turno.
Problemi che si ripresentano anche a livello di club. I sud-coreani del Jeonbuk Hyundai Motors, campioni d’Asia uscenti ai danni dell’Al-Ain di Omar Abdulrahman, sono i primi a vincere un titolo continentale e a non partecipare alla prossima edizione della Champions League asiatica per un’accusa riguardante un match truccato, fenomeno non nuovo per il calcio coreano.
Rinascita graduale
Eppure, il lavoro dell’AFC sotto la presidenza Al-Khalifa è stato lodevole. I partner commerciali sono di alto livello, ma soprattutto ci sono state due novità importanti: la crescita costante del calcio femminile e la riforma delle qualificazioni per le squadre maschili a Mondiale e Coppa d’Asia.
La prima non è propriamente una novità, quanto piuttosto un ulteriore miglioramento in un percorso comunque d’eccellenza. Le gerarchie del calcio femminile sono diverse da quelle maschili: nell’ultimo Mondiale del 2015, l’Asia aveva diritto a 5 posti su 24 (quasi il 25%, contro i 4,5 su 32 di quello maschile, quindi il 14%). Non solo: il Giappone si è presentato da campione uscente e medaglia d’argento alle Olimpiadi di Londra 2012.
Alla fine, tre di queste cinque (Giappone, Cina e Australia) sono entrate nella top 8, con le nipponiche distrutte in finale dagli Stati Uniti, ma di nuovo all’ultimo atto. Se a Rio non è arrivata nessuna medaglia, i segnali sono comunque quelli di un dominio imminente. In fondo, il ranking FIFA vede cinque nazionali nelle top 20.
E il meglio deve ancora arrivare per l’AFC: la Corea del Nord ha trionfato sia al Mondiale U-20 che in quello U-17, entrambi disputati sul finire di quest’anno. Benissimo ha fatto anche il Giappone, in semifinale nel primo e in finale nel secondo per una finale tutta asiatica. Se il trend fosse questo anche solo per i prossimi dieci anni, l’Asia rischia di monopolizzare il calcio femminile.
E se intanto nel futsal l’Iran è arrivato terzo all’ultimo Mondiale di categoria (battendo Brasile e Portogallo), l’AFC ha nel frattempo messo a punto una riforma intelligente per accorpare le qualificazioni al Mondiale e alla Coppa d’Asia, che si disputano a distanza di sei mesi l’uno dall’altra. In precedenza, i due formati di qualificazione si disputavano separatamente, garantendo ai primi tre classificati della precedente Coppa d’Asia una qualificazione diretta all’edizione successiva.
Ad aprile 2014, l’AFC ha deciso un cambio di rotta, sfruttando l’aumento di squadre partecipanti alla prossima Coppa d’Asia (nel 2019 saranno 24 contro le attuali 16). Primo e secondo round vanno di pari passo per Mondiale e Coppa d’Asia, con una fase di play-off a scremare le nazionali più deboli in partite di andata e ritorno, capaci di regalare storie come quelle del Bhutan (con il Ronaldo locale) o di Timor Est.
Il secondo round vede l’entrata del resto delle squadre, con 40 nazionali divise in otto gruppi da cinque e partite di andata e ritorno: gli otto vincitori dei gironi più le quattro migliori seconde passano alla fase successiva, quella che si divide in due ulteriori gruppi da sei che combattono per i 4/5 posti al Mondiale 2018. Quelle 12 squadre sono già qualificate per la Coppa d’Asia – tra cui sorprese come Siria e Thailandia – mentre le altre si sfidano per arrivare a un’altra fase a 24 squadre, divise in sei gironi, per ottenere i rimanenti 12 posti per la competizione continentale, che nel 2019 sarà ospitata dagli Emirati Arabi Uniti.
Se la Siria ha vinto in Cina, la Thailandia gioca così sotto il ct che li ha fatti rinascere, l’ex leggenda Kiatisuk Senamuang.
Così facendo, l’AFC ha cambiato la vita di federazioni come Guam, Laos, Maldive, che finalmente hanno potuto giocare 10 match competitivi nel giro di un anno, senza doverli organizzare da soli, costringendosi all’esilio competitivo. Perché per una nazionale dal ranking basso perdere 12-0 in Cina o 9-0 in Corea del Sud è sempre meglio che non giocare affatto. Ci sono margini di miglioramento nascosti in una sconfitta, che è comunque un’esperienza. L’ha capito persino la CONCACAF, che sta pensando a una riforma del format di qualificazione al Mondiale, considerato ormai “arcaico”.
Ora però bisogna capire come le nazioni asiatiche potranno imporsi anche sullo scenario internazionale. E ci sono tre modi per farlo, perché l’Asia è talmente grande da esser paragonabile a un mostro tricefalo: la confederazione è unica, ma al suo interno ci sono diverse vie per arrivare all’obiettivo prestabilito.
Petroldollari
Nelle ultime due edizioni del Mondiale, le quattro rappresentanti asiatiche sono state quasi sempre le stesse: Australia, Giappone, Corea del Sud e poi un’alternanza. In Sudafrica la sorpresa Corea del Nord, in Brasile il solido Iran. Salta all’occhio una cosa: non ci sono nazionali arabe o dell’Asia occidentale. La penisola araba ha fallito nel portare propri rappresentanti al Mondiale: l’Arabia Saudita, la squadra più importante della zona a livello calcistico, ha disputato l’ultima Coppa del Mondo nel 2006, arrivando poi a disputare una finale di Coppa d’Asia l’anno successivo, persa contro l’Iraq.
Anche a livello continentale le cose non sono andate benissimo, proprio perché da quella edizione le cose sono precipitate: manifesto di questo disagio è la Coppa d’Asia 2011, in cui nessuna nazionale della zona è arrivata nelle top 4, con l’Arabia Saudita ultima nel suo girone. Se qualche realtà è nel frattempo cresciuta, il livello medio della penisola araba è sembrato scendere, nonostante a inizio anni 2000 i primi campioni fossero arrivati a giocare nei campionati locali (Batistuta e Hierro su tutti). La certificazione è arrivata all’inizio del percorso di qualificazione per il Mondiale 2014, quando non c’era una nazionale della penisola araba nella top 5 del ranking FIFA per la zona asiatica.
Saeed Al-Owairan maradoneggia e l’Arabia Saudita vola agli ottavi a USA 94.
Una situazione disastrosa, specie se calcoliamo i soldi spesi in quelle zone per il calcio. Diversi giocatori, ma soprattutto tecnici hanno militato tra l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, i tre principali campionati della zona. Le grandi risorse derivanti dal petrolio hanno messo a disposizione un discreto capitale, ma avere tecnici e giocatori esperti non è sufficiente per progredire. Per crescere ancora servivano altri due elementi: programmazione e legami internazionali.
Ai secondi ci hanno pensato soprattutto Emirati e Qatar, tanto che quest’ultimo si è garantito – con un’assegnazione controversa, undici anni prima dell’evento (quando normalmente il termine è sette anni) – l’organizzazione del Mondiale 2022, sebbene il Qatar abbia come massimo risultato i quarti di finale in Coppa d’Asia. Nonostante il Garcia Report, le indagini americane e la probabile corruzione all’interno della FIFA, nonché la costruzione delle infrastrutture in violazione di diversi diritti umani (con tanto di morti e ambasciate coinvolte) e i fondi non sufficienti, il carrozzone prosegue la sua corsa.
La programmazione sembra esser venuta in un secondo momento. Mentre si tessevano rapporti con gli organismi internazionali, l’Aspire Academy – sede a Doha, con ambasciatori come Pelè, Xavi, Messi e Raul – ha provato dal 2004 a far crescere atleti in casa, arrivando persino alla naturalizzazione di alcuni di loro e all’acquisto di alcuni piccoli club (come il KAS Eupen) per permettere ai propri atleti di giocare. A questo aggiungiamo le proprietà di Manchester City e Paris Saint-Germain (la prima emiratina, la seconda qatariota): uno sforzo senza fine, ma i cui frutti sembrano cominciare ad arrivare.
Nel 2014 il Qatar ha vinto il campionato U-19 asiatico con una squadra interamente formata dall’Aspire Academy. Un anno più tardi, gli Emirati Arabi Uniti sono arrivati terzi alla Coppa d’Asia, battendo l’Iraq nella finale per il bronzo. E nel 2016, l’Arabia Saudita ha dato un forte segnale di rinascita nel girone di qualificazione al Mondiale, pareggiando con l’Australia: attualmente sarebbe al Mondiale 2018, eliminando proprio gli Aussies. Intanto, altre nazionali della zona – Siria, Giordania, Oman – proseguono la loro crescita.
Bert van Marwijk ha più di un merito per la rinascita saudita: 11 partite, 69% di vittorie.
The Chinese way
Diversa la situazione della Cina, perché la più numerosa popolazione al mondo ha fatto passi persino più grandi a livello economico rispetto alla penisola araba: dopo le riforme economiche del 1978 volute da Deng Xiaoping, la Cina è diventata una delle economie più grandi al mondo, capace di accumulare una discreta dose di capitale economico. E quale miglior modo di riutilizzarlo, se non nel calcio? È il piano del presidente Xi Jinping, che vuole trasformare la Cina in una super-potenza anche calcistica, vincendo il Mondiale entro il 2050.
In questa linea si muove anche la sponsorizzazione della Dalian Wanda per la FIFA e le ingenti spese per portare tanti giocatori europei e sudamericani nella crescente Chinese Super League, ma non basta. Perché l’ampia popolazione (1,3 miliardi di persone) e l’altrettanto ingente capitale a disposizione amplificano la delusione per i risultati della Nazionale: qualificata una sola volta al Mondiale (nel 2002: Dobre, Bora!), in Coppa d’Asia ha raggiunto la finale due anni dopo.
Se il Guangzhou Evergrande ha vinto per due volte la Champions League asiatica, la Cina ha fatto molta fatica. Un rapporto inversamente proporzionale nel quale il 2013 è stato l’anno-manifesto di questa differenza: mentre il club allenato da Lippi vince il primo alloro continentale, a giugno la Cina perde un’amichevole con la Thailandia per 5-1, contro una Nazionale dal ranking FIFA 47 posti inferiore.
Il licenziamento di Camacho e l’interregno di Perrin avevano portato qualche buona notizia, ma il ritorno di Gao Hongbo è stato un disastro. La Cina ha persino rischiato di non qualificarsi per la terza fase di qualificazione al Mondiale: solo un miracoloso 2-0 al Qatar ha permesso di continuare la corsa, ma il calcio iper-conservativo di Hongbo ha spazientito persino il presidente Xi Jinping. E mentre il Guangzhou Evergrande ha vinto una seconda Champions League nel 2015 (venendo però eliminato ai gironi l’anno successivo), c’è da dire che gli altri club della Chinese Super League non sono ancora emersi a livello continentale.
Forse è proprio questa la grande sfida del futuro e la conferma di quanto Nicholas Gineprini raccontava nel suo pezzo sul calcio cinese, quando Francesco Abbonizio – interprete di Ciro Ferrara al Wuhan Zall – gli ha spiegato perché ci siano queste difficoltà: «Se vogliono progredire devono creare una cultura calcistica, e per farlo ci vogliono vent’anni: Corea e Giappone ci dicono proprio questo. Il Giappone per arrivare allo stato attuale è partito dai tempi di Zico, erano i primi anni ‘90, ora è il 2016 e vedi che la cultura calcistica giapponese è importante. Quando anche i cinesi riusciranno in questo intento, potranno ottenere risultati».
Pro Evolution Soccer ha inserito la Chinese Super League nel trailer 2017: segni dei tempi che cambiano. C’è anche la telecronaca in cantonese e mandarino.
Con gli arrivi di Oscar e Tévez, anche Shanghai sta provando a sognare un futuro migliore in Champions League. Magari spodestando il Guangzhou, come vorrebbero fare l’Hebei China Fortune, il Jiangsu Suning e il Tianjin Quanjian, tutti club facoltosi e in cerca di gloria. Come la nazionale, che ha deciso di fare il grande passo con Marcello Lippi, nuovo ct della Cina dallo scorso ottobre: la Cina è quasi fuori dal Mondiale 2018 e il piano è quello di riprovarci per il 2022.
Sydney, Seoul, Tokyo
Se la Cina guarda ai suoi vicini, c’è un motivo valido: a oggi, il trittico Australia-Corea del Sud-Giappone domina l’Asia. Non tanto attraverso i club (sono soprattutto quelli sudcoreani ad andar bene), ma con le nazionali. In parte, questo scenario è dovuto alla tradizione. Guardiamo la Corea del Sud, dove la K League non naviga nell’oro, gioca in stadi non così pieni e ha vissuto l’ennesimo scandalo legato alla corruzione.
Tuttavia, la Corea del Sud ha una tradizione, fa crescere bene i suoi giocatori (nonostante il problema della leva militare) e prosegue nel suo dominio. Quanti avrebbero puntato sui Taeguk Warriors – solidi, ma poco spettacolari allenati da Stielike – in finale di Coppa d’Asia nel 2015? Pochi, eppure ci sono arrivati. E per poco non hanno rovinato la festa agli australiani, perdendo solo ai supplementari. Chi però sta facendo salti da gigante, e senza una debordante dote economica alle spalle, sono Giappone e Australia.
Non tutti possono essere Mat Ryan o Aaron Mooy, ma gli australiani sono ora consapevoli di come anche in un paese giovane dal punto di vista del professionismo è possibile creare del calcio d’avanguardia (Amor e il suo Adelaide United) o superare la perdita di una generazione che ha segnato la storia recente del calcio australiano (quella dei Kewell, degli Schwarzer e a breve dei Cahill), vincendo la Coppa d’Asia in casa.
Non ci sono più stelle assolute, ma la qualità-media si è alzata e il passaggio dalla confederazione oceanica a quella asiatica è stato azzeccato. A questo si è aggiunto lo sviluppo dell’A-League: una lega giovane, ma che sta crescendo bene, dando alla Nazionale diversi giocatori interessanti. Ci sono persino storie di reietti della Serie A che si rilanciano e diventano idoli o di gruppi che intravedono le potenzialità australiane e investono in un club di Melbourne (con il solito rebranding).
Ma l’obiettivo non è fermarsi ai dieci club attuali, perché ci sono altre realtà che potrebbero aggiungersi negli anni a venire. In 12 anni di vita – l’A-League ha sostituito la moribonda National Soccer League nel 2004 – tre club hanno abbandonato la lega, ma c’è voglia di calcio in Australia: secondo quanto rivelato nel novembre scorso, Brisbane, Tasmania, Auckland, Canberra, Wollongong e la parti sud di Melbourne e Sydney tenteranno l’ingresso nell’A-League entro il 2020.
A livello organizzativo, però, il Giappone rimane il paese asiatico di gran lunga più avanzato. Che siano programmatici fino all’esaurimento è ben noto, e le ultime notizie sono estremamente incoraggianti.
J. League is kawaii.
La J. League ha avuto una genesi stile Chinese Super League, con la differenza che il calcio era una realtà più solida che in Cina: nel ’93 i club amatoriali – una sorta di dopo-lavoro delle grande aziende nipponiche – diventano professionisti e così parte la prima stagione della J. League, con diverse stelle europee o sudamericane pronte a giocare in Giappone per tanti yen.
Ma la grande crescita economica del secondo dopoguerra si è esaurita a fine anni ’90: the Lost Decade ha generato un periodo di crisi economica, con una bolla speculativa trasformatasi in deflazione. Questa ha segnato il paese e di riflesso le possibilità delle aziende, che ancora oggi gestiscono diversi club. La corrispondente diminuzione degli spettatori – la media del ’97 è inferiore di quasi 9000 persone rispetto a solo tre anni prima – ha messo in crisi la J. League, ma la programmazione è riuscita parzialmente a compensare.
Il Giappone è stato bravo, ma anche fortunato: durante la crisi economica, il Sol Levante si era assicurato l’organizzazione dei Mondiali, seppur in co-abitazione con la Corea del Sud. Questo ha creato un immaginario calcistico nel paese: molti giocatori odierni dicono di essersi avvicinati al calcio proprio ricordando quell’evento.
Inoltre, la Nazionale è cresciuta: nel 1988, la Nippon Daihyo non aveva mai disputato un Mondiale e si apprestava a giocare la sua prima Coppa d’Asia. Oggi il Giappone è forse la Nazionale asiatica più forte, ma soprattutto ha vinto quattro delle ultime sei Coppe d’Asia (perdendo una sola gara delle ultime 28 disputate nella competizione durante i 90’) e ha partecipato a cinque Mondiali di fila (raggiungendo gli ottavi nel 2002 e nel 2010).
Se la Nazionale si è costruita uno status ormai consolidato, è la J. League che sta di nuovo crescendo. L’economia attraversa ancora delle difficoltà, ma s’intravedono i primi frutti del 100 year-plan per il calcio nipponico. I club dotati di una licenza professionistica sono 56, sparsi su tre divisioni – il piano è arrivare a 100 entro il 2092, magari vincendo il Mondiale – e alcuni stadi sono modelli da seguire. Con l’interesse crescente per il sakkā, il Giappone sembra poter diventare la potenza asiatica più stabile.
Ci sarebbe il gioiellino Suita City Football Stadium di Osaka, ma persino una squadra come il Giravanz Kitakyushu – retrocessa in terza divisione – aprirà nel 2017 un impianto del genere.
Ci sono stati alcuni passaggi a vuoto: le scarse performance dei club nella Champions League asiatica; la media-spettatori alta, ma non soddisfacente; il breve ritorno al two stage-format, che dal prossimo anno sparirà. Ma il 2016 è stato l’anno d’oro dal punto di vista commerciale. La J. League ha visto le sue squadre comparire in maniera ufficiale su FIFA 17 e ha stretto accordi proprio con EA Sports e TAG Heuer. Ma l’operazione migliore è stata quella con il Perform Group: 210 miliardi di yen per un accordo decennale (183 milioni di euro all’anno, vicini ai 213 dei diritti tv in Cina) con il gruppo britannico, che daranno ulteriori fondi ai club per espandersi, ma soprattutto aumenteranno l’interesse per la J. League senza bisogno di ricorrere a super-star o ingaggi faraonici.
Lo ha confermato James Rushton, il rappresentante di Perform Group: «Non siamo qui per fare beneficenza. L’investimento è a lungo termine: se il calcio giapponese continuerà a crescere come sta facendo, avremo un ritorno economico». L’affare è per tutti, visto che il Perform Group punta a diventare una sorta di Netflix in ambito sportivo, trasmettendo quindi la J. League in streaming tramite DAZN (una piattaforma lanciata quest’estate per lo sport on line).
Il fatto che una azienda straniera abbia stretto un accordo del genere è un altro segnale di come in Asia le cose stiano progredendo.
Le altre (e il ranking “bugiardo”)
Per capire quanto il panorama restante stia cambiando, dobbiamo dare un’occhiata al ranking Elo. Il suo nome omaggia l’inventore di questa formula, Élő Árpád Imre, un professore di fisica nato nell’impero austro-ungarico, poi trasferitosi negli States e diventato possessore di una cattedra a Marquette, nonché gran giocatore di scacchi.
Per molti uno strumento sconosciuto, l’Elo è una misurazione alternativa a quella della FIFA, ma più veritiera, perché inserisce una serie di variabili fondamentali (il fattore campo, l’importanza del match e il numero di gol). Tanto che la FIFA ha parzialmente ceduto e il ranking femminile è calcolato con una formula che prende spunto da quella Elo. Non è un caso che la top 10 delle nazionali maschili sia molto diversa tra FIFA e Elo. La differenza però diventa insormontabile quando si analizza la posizione dei team asiatici nei due ranking.
Dicembre 2016.
Tralasciando il fatto che l’Elo contempli Russia e Turchia nell’Asia, l’Iran paga sei posti rispetto al ranking FIFA; la Corea del Sud 14, il Giappone 18, l’Uzbekistan 16, il Qatar 19. E nel frattempo altre realtà si stanno sviluppando in Asia.
Parte del merito va a una competizione come l’AFC Cup, l’equivalente dell’Europa League per le federazioni minori (o paesi in via di sviluppo) in campo continentale: è grazie a questa che club del Kuwait, della Giordania, della Malesia o dell’India si sono potuti giocare un trofeo e crescere ancora.
Due casi da citare sono quelli dell’Uzbekistan e dell’India. Il primo per la sua Nazionale: il campionato non ha avuto grossi sviluppi (sebbene continui a produrre giocatori per i Lupi Bianchi), ma club come il FC Nasaf hanno vinto l’AFC Cup e poi si sono ritrovati a giocare la Champions League asiatica per tre volte. A questo, va aggiunto che l’Uzbekistan sta facendo benissimo: già vicino ai Mondiali 2006 e 2014, ora è in corsa per un posto nel 2018.
Alla voce talenti da guardare, Sardor Rashidov, fine mancino.
L’India, invece, vive con proporzioni diverse lo stesso fenomeno della Cina: una popolazione numerosa, ma una cultura del calcio che manca. A crearla sta provando l’Indian Super League, che – come la CSL e J. League – sta acquistando soprattutto manovalanza estera per crearsi un nome e delle basi da cui partire. I risultati si vedranno forse tra vent’anni e solo una maggior collaborazione con l’I-League – il vero campionato nazionale, visto che l’ISL non fa parte della piramide calcistica indiana – porterà dei veri cambiamenti. Per ora la Nazionale fatica (battuta persino dal Guam) e l’espansione della lega è in divenire.
Sorpasso?
Nonostante questi cambiamenti, però, non si vedono ancora progressi tali sullo scenario internazionale da predire un sorpasso dell’Asia. Il podio tra le confederazioni è realtà, visto che l’Africa delude e la CONCACAF si regge molto (forse troppo) sul duopolio USA-Messico e sulla costante crescita della MLS. Ma poi? Ci sono margini per salire ancora?
Ci sono elementi che fanno pensare di sì. Non solo l’aumento della qualità media, i fondi a disposizione e i guai che stanno azzoppando la rincorsa delle altre confederazioni, ma anche perché quel duopolio Europa-Sud America – un tempo solido e inattaccabile – sta mostrando qualche crepa. Come ha sottolineato qualcuno dopo il 3-0 dei Kashima Antlers all’Atlético Nacional nel Mondiale per club, specialmente le rappresentative dell’America Latina stanno facendo fatica sullo scenario internazionale.
Il punteggio è ingannevole, ma l’esito imperdonabile.
Eppure la pessima performance delle sue squadre al Mondiale 2014, tutte fuori nella fase a gironi, ha dimostrato che la strada è ancora tanta da fare. Se non altro perché partire con quasi un secolo di ritardo rispetto ad altri continenti si fa sentire soprattutto negli aspetti più intangibili - dell’immaginario, della forza culturale, in altre parole: della tradizione - ma comunque fondamentali, alla fine dei conti, per ottenere dei risultati.
Nel frattempo il calcio interessa sempre di più in Asia, con presenze notevoli nelle partite di qualificazione al prossimo Mondiale (63mila per un Cambogia-Singapore o 50mila per un Thailandia-Taipei Cinese sono tanti). Magari ha ragione Football Benchmark, braccio sportivo della KPMG, quando dice: «Non è tanto una questione di se, ma di QUANDO le leghe asiatiche supereranno i principali campionati europei».