Il 19 settembre 2015 Todd Ewen, 518 partite in NHL e una Stanley Cup vinta con i Montreal Canadiens nel 1993, si toglie la vita con un colpo di pistola nel seminterrato di casa sua. È il settimo caso di morte fra giocatori NHL, in attività o ritirati, a partire dal 2010. I familiari, che in seguito saranno smentiti, autorizzano un esame per stabilire se fosse affetto da C.T.E., una patologia neurodegenerativa che compare negli esami post-mortem di Derek Boogaard, Barry Potomski e Bob Probert che, oltre a una morte prematura, con Ewen hanno condiviso il ruolo di enforcer.
Gli enforcers, negli sport americani, sono i giocatori deputati a fare da guardia del corpo ai propri compagni di squadra intimorendo gli avversari attraverso l’utilizzo della violenza fisica. Nell’hockey si traduce in cariche, gomitate, colpi con la mazza alla testa o allo stomaco e, quando tutto questo non basta, in pugni e risse. Due giocatori infatti possono affrontarsi in un incontro di boxe sino a quando non cadono a terra permettendo all’arbitro di intervenire per sedare gli animi e infliggere le dovute sanzioni.
Ghiaccio rosso
Nella NHL questo ruolo ha assunto una funzione fondamentale dopo la vittoria della Stanley Cup da parte dei Philadelphia Flyers nel 1974 e nel 1975. I giocatori di quella squadra sono passati alla storia come i Broad Street Bullies. A quei tempi l’hockey era ancora spartano, giocato senza caschetto protettivo e con regole abbastanza permissive ma loro alzarono l’asticella con uno stile che prevedeva botte, botte e ancora botte. Una tattica che funzionò così bene da portare ogni General Manager a credere che l’intimidazione fosse l’unica soluzione possibile per conquistare un titolo.
Clarence Campbell, il presidente della NHL all’epoca, non fece molto per arginare il fenomeno. L’hockey è un blood sport per cui la violenza è un ingrediente fondamentale. Gli enforcers andavano oltre tutto ciò: erano hardcore e piacevano alla gente. Rispondevano alla necessità della lega di costruire uno spettacolo che attirasse quanti più spettatori possibili e così, con il bene placito del massimo dirigente, diventarono gli idoli degli appassionati. L’impennata di interesse fu tale che vennero raggiunti livelli di popolarità mai più toccati.
Le partite venivano presentate in cartellone con il nome delle squadre ma la gente comprava il biglietto con la speranza, e molto spesso la certezza, di assistere allo scontro tra i due tough guy più rappresentativi. Fuori dalle scuole, nei bar, in ogni spogliatoio, migliaia di appassionati si confrontavano sulle ultime risse di Dave “The Hammer” Schultz o di Tiger Williams.
“Red ice sells hockey tickets”.
Negli anni ’70 e ’80, gli enforcers però non si limitavano esclusivamente alle botte ma partecipavano al gioco contribuendo alla produzione offensiva della squadra. È con gli anni ’90 che ‘enforcer’ e ‘fighter’ sono diventati sinonimi. La lega, in questa fase, ha cominciato ad affollarsi di giocatori scarsi tecnicamente ma che grazie al loro fisico da boxeur riuscivano ad ottenere un contratto. E dato che il loro unico compito era fare a pugni, quello facevano. La stagione 1996/1997 si chiuse con 1020 risse in 1066 partite totali, il dato più alto dal 1988, ma a partire dall’anno successivo le cifre crollarono vertiginosamente, tanto che a cavallo fra la stagione passata e quella appena conclusa sempre meno giocatori con questa etichetta sono riusciti a trovare un contratto.
Come l’evoluzione del gioco ne ha decretato la nascita, la stessa evoluzione tecnica ne ha decretato la fine. Oggi, infatti, per una squadra che punta alla Stanley Cup è impensabile non avere quattro linee di giocatori in grado di condurre il puck, difendere, attaccare e segnare. Date le dure regole del salary cup, che non prevede deroghe come la Luxury Tax della NBA, i GM ora preferiscono spendere i loro soldi per giocatori di quel tipo piuttosto che per un peso massimo il cui unico compito, assegnato oltretutto dalla stessa dirigenza, è fare a pugni. Inoltre, tra la necessità di aumentare la media di gol a partite e i tanti di casi di morte fra ex giocatori e atleti ancora in attività, anche la lega si è interrogata sul senso di questo ruolo e, tramite un inasprimento del regolamento, ha cercato di eliminarlo.
La depressione degli Enforcers
I dati confermano questa inversione. Nelle 1230 partite della regular season che si è appena conclusa ci sono state 344 risse per un valore di Fights for game pari 0.28, il più basso mai riscontrato dalla lega dal 1968. Nonostante siano stati messi al bando, i fighter restano comunque ancora molto amati dal pubblico. Ad esempio John Scott, uno di quei giocatori con una biografia ricca di contenuti su hockeyfights.com, grazie ai voti degli appassionati è stato nominato capitano della Pacific Division e MVP della manifestazione nonostante non facesse nemmeno parte della lista degli eleggibili. Ma se i cambiamenti voluti dalla lega hanno portato delle trasformazioni sensibili sul ghiaccio, fuori dal campo i problemi non sono certo finiti.
Suicidi. Depressione. Alcol. Droga. Dipendenza da antidolorifici. Nonostante le testimonianze che li descrivono come i compagnoni dello spogliatoio o come familiari modello, nel passato dei giocatori che hanno perso la vita negli ultimi cinque anni compare almeno uno di questi elementi, se non tutti insieme. Demoni che trovavano una fonte nello stress derivante dal ruolo di enforcer. Ogni sera dovevano essere pronti a uno scontro. Che fosse il rivale diretto, un avversario da punire su ordine del coach o semplicemente uno sconosciuto che voleva il suo momento di gloria, in qualsiasi partita arrivava sempre il momento per sfilarsi i guantoni e combattere. Evitare lo scontro significava perdere e un enforcer con la reputazione di perdente non serviva nulla. La loro carriera si basava esclusivamente sulla capacità di fare a pugni meglio di chiunque altro. Dovevano dimostrarsi sempre i più duri, i più decisi, i più cattivi e, come gladiatori, uscire dall’arena sporchi del sangue del proprio avversario acclamati dalla folla. In ballo c’era il loro contratto e di conseguenza la loro vita.
La pressione psicologica era ulteriormente aggravata dagli infortuni e dai traumi che subivano. Essendo uomini duri non potevano provare dolore e così, con la complicità dei propri allenatori, continuavano a scendere sul ghiaccio secondo il mantra dei professionisti americani, ‘Playing through pain’, con ripercussioni che anni dopo si sarebbero dimostrate tragiche. Nel longform di TSN Lifetime penalty, Mike Peluso, 458 partite in NHL e 1,951 minuti di penalità, descrive un aneddoto che esemplifica al meglio il concetto. Al termine di una partita in cui aveva subito un duro colpo alla testa, il suo cervello andò in black-out e senza rendersene conto si fece diverse volte la doccia prima di essere condotto all’ospedale più vicino. Lì rimase giusto il tempo di eseguire gli accertamenti del caso e una volta tornato a casa, cinque giorni dopo quel durissimo colpo, venne mandato in campo nonostante avesse confessato al suo allenatore di non essere pronto. “Fuck off” fu quello che ottenne in risposta. Oggi Peluso, oltre ad aver tentato il suicidio, soffre di disturbi psichici che gli causano vuoti di memoria e attacchi epilettici. In tutta la sua intervista non la cita mai, ma è probabile che lui, come tanti ex fighter, stia affrontando un nemico invisibile, una malattia che non può essere scoperta sino a quando sarà in vita: la C.T.E.
Anche i duri piangono.
Conosciuta in Italia come demenza pugilistica o encefalopatia traumatica cronica, la C.T.E. è una malattia neurodegenerativa che colpisce prevalentemente quelle persone che hanno subito numerose commozioni cerebrali. I sintomi più comuni sono vertigini, mal di testa e una costante diminuzione dell’attenzione. Con il progressivo evolversi, la malattia può causare perdita della vista, paresi facciale, incapacità a parlare, sordità e può portare a istinti suicidi. Al momento, però, solo un esame post mortem può essere fonte di diagnosi.
Le analisi condotte sino ad oggi, per quello che riguarda l’hockey, hanno dimostrato che la C.T.E. non è una malattia che colpisce esclusivamente gli enforcers dato che anche giocatori per così dire normali, come Steve Montador e Rick Martin, hanno sofferto di queste malattia prima di morire. L’unico fra tutti i casi esaminati ad aver dato esito negativo è stato quello di Todd Ewen ma amici e familiari sin dal giorno del suo suicidio avevano confermato che soffriva occasionalmente di depressione. La stessa parola accomuna anche le vite di Rick Rypien e Wade Belak, giocatori sui cui però non è stato condotto alcun esame.
Omertà
Seppur tragiche, tutte queste morti sono riuscite a strappare il velo di omertà con cui la NHL ha provato a nascondere il proprio passato violento. Un passato che non sta solo creando problematiche d’immagine ma anche legali.
I genitori di Derek Boogard, morto nel 2011 per un overdose accidentale di alcol e antidolorofici, stanno conducendo una causa in cui la lega è accusata di omicidio colposo in quanto responsabile per la dipendenza ai painkillers dell’ex difensore dei New York Rangers mentre nel Novembre 2013 dieci ex giocatori hanno denunciato la NHL, rea di non averli informati e tutelati in maniera sufficiente in materia di traumi cranici. Nelle loro intenzioni, il procedimento dovrebbe seguire le orme del caso che ha coinvolto la NFL, chiuso con un risarcimento di 765 milioni di dollari nei confronti degli oltre 4500 atleti che si erano schierati contro di essa. Il numero dei giocatori ad oggi è salito a 105 e oltre che ricevere un risarcimento economico, il loro obiettivo è ottenere un monitoraggio medico dei quasi 5000 ex atleti ancora in vita per offrire loro un supporto in caso di problemi psichici derivanti dai colpi subiti durante la loro carriera.
Sino ad oggi il commissioner Gary Bettman ha ripetutamente affermato che non esiste alcune relazione diretta fra l’hockey e tutti i casi di C.T.E. riscontrati, e più in generale di una qualsiasi malattia neurologica. Non solo. Lo stesso Bettman ha ribattuto alle accuse di mancata tutela dei giocatori ponendo l’attenzione sul fatto che la NHL, nel 1997, sia stata la prima lega a stabilire un programma di studio per il monitoraggio delle concussions, coinciso con una crescita vertiginosa del dato medio per stagione: 12 all’anno dal 1986 al 1996, 56 dal 1996 al 2002. Un aumento dovuto a una maggiore attenzione nel valutare ogni singolo caso che però non corrispondeva a una vera tutela nei confronti degli atleti visto il protocollo debole che forniva agli allenatori e non allo staff medico la facoltà di giudicare se un giocatore che aveva subito un duro colpo era idoneo a rientrare in campo o meno e così nel 2011 ne è stato introdotto uno nuovo, rinominato Quiet room policy. Un anno prima il Board of Governors aveva votato favorevolmente ad un’applicazione più rigida della Rule 48, la norma che rende illegali tutte le cariche alla testa, volontarie e involontarie. Nonostante questa misura cautelativa le statistiche non sono migliorate e lo studio scientifico Bodychecking Rules and Concussion in Elite Hockey condotto dal Dottor Michael Cusimano ha dimostrato che dal 2009 al 2012 nei 123 casi o presunti tali di concussion, il 64,2% era dovuto ad un bodychecking di cui solo il 4,1% dal lato cieco, ovvero senza dare la possibilità al giocatore che subisce la carica di poter attutire l’impatto con l’avversario o con il ghiaccio, mentre i casi dovuti alle risse sono il 9%.
Se anche davanti ai numeri il tentativo di difesa da parte di Bettman ha retto, il castello è crollato dopo le dichiarazioni di Jeff Miller, vice presidente NFL per la salute e sicurezza, che ha cambiato le carte in tavola ammettendo pubblicamente che non ci sono dubbi sull’esistenza di una connessione fra le concussions dovute al football e i numerosi casi di C.T.E. riscontrati negli ex giocatori deceduti. Una dichiarazione imprevista, arrivata a breve distanza da quella del commisioner Roger Goodell che, alla vigilia del SuperBowl, minimizzava i pericoli che potevano nascere giocando a football sottolineando come anche stare sul divano fosse pericoloso.
Miller, con le sue parole, ha scoperchiato il vaso di Pandora dando vita ad una serie di reazioni a catena. In Europa, ad esempio si è cercato di sensibilizzare l’argomento in relazione al rugby dopo l’infortunio dell’inglese Dylan Hartley durante l’ultima giornata del Sei Nazioni, mentre oltreoceano ovviamente la reazione mediatica ha investito la NHL ma Bettman ha declinato l’invito della stampa a seguire l’esempio della NFL affermando semplicemente che “giocare a hockey è differente che giocare a football”.
Altro esempio. Nel suo discorso d’addio, andato in onda live su USA Network in prima serata, Daniel Bryan, ex campione WWE, ha dichiarato che era costretto a ritirarsi a causa delle complicazioni dovute alle numerose concussions.
L’intento della lega è di giungere all’archiviazione del caso ma, a differenza della NFL, senza un risarcimento nei confronti del fronte accusatorio. Per questa ragione Bettman ha accolto la proposta del tribunale di St.Paul nel Minnesota, l’autorità che dovrà pronunciarsi in merito alla denuncia, fornendo tutte le comunicazioni ufficiali avvenute fra le maggiori cariche della NHL. Su richiesta della stessa lega, una parte delle comunicazioni è stata secretata mentre 298 mail sono diventate di pubblico dominio.
Mediaticamente, questo passaggio ha fornito all’accusa la cosiddetta smoking gun visto il contenuto di alcuni messaggi. Ad esempio, Colin Campbell, Vice Presidente della NHL sino al 2011, apostrofa Gerry Townend, responsabile dello staff medico degli Ottawa Senators, ‘un autentico cretino’ dopo una sua mail in cui sosteneva che la lega non fornisse l’adeguata educazione ai giocatore in materia di colpi alla testa. Lo stesso Campbell, in uno dei passaggi più ripresi dai media, dichiara che la NHL vende rivalità e promuove l’odio.
Legalmente però questa prova schiacciante non c’è. Ci sono molti indizi in relazione al fatto che la NHL fosse al corrente dei pericoli legati ai colpi alla testa e alle risse ma nella stessa misura ci sono comunicazioni che dimostrano invece la volontà della lega di eliminare questo fenomeno. Ad esempio, nel 2011 Brendan Shanahan, oggi presidente dei Toronto Maple Leafs ma che all’epoca sostituì Campbell come senior VP, scrisse a Bettman una lunga mail in cui sosteneva che la NHL dovesse essere la prima lega di hockey al mondo ad eliminare le risse. Doveva diventare un esempio per tutti. Le risse, ovviamente, non sono mai state eliminiate del tutto, né in NHL né in qualsiasi altra lega, ma questo documento ai fini giuridici resta una prova della volontà della lega di provare a migliorare la sicurezza dei giocatori, così come tutte le mail che descrivono il processo che ha portato al rafforzamento della Rule 48.
L’intera partita si giocherà sull’interpretazione da parte del giudice Susan Nelson di questo materiale. In particolare di uno studio di mercato commissionato da Bettman alla Edelman Berland per valutare la percezione della violenza in NHL e in NFL da parte degli utenti. Lo studio è rimasto segreto ma sono state pubblicate le reazioni di Gary Meagher, vice presidente del dipartimento comunicazione, che in una mail a Mike Berland, chief executive dell’azienda, chiede come rendere la NHL una lega più sicura senza spendere centinaia di milioni di dollari in educazione e campagne promozionali come la NFL, campagne che lo stesso Meagher definisce fumo negli occhi degli appassionati per fargli credere che il football sia più sicuro di quello che è in realtà.
La pubblicazione di questo materiale ha segnato una svolta nel caso ma la conclusione è lontana e la battaglia si preannuncia molto lunga. In ogni caso, anche con una vittoria legale la percezione generale della NHL ne uscirà danneggiata. L’unica fortuna è che sono iniziati i playoff.