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Ode ad Al Horford
10 mag 2018
Invece di sottolineare che mancano Irving e Hayward, perché non parliamo dei playoff di "Big Al"?
(articolo)
8 min
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Nel momento in cui i Boston Celtics hanno annunciato che Kyrie Irving avrebbe saltato il resto della stagione, è diventato quasi automatico scrivere e pensare che avrebbero dovuto affrontare i playoff “senza le loro due stelle”. Il riferimento del secondo era ovviamente Gordon Hayward, che ha visto la sua stagione interrompersi dopo appena cinque minuti dall’esordio in maglia biancoverde, e la narrativa attorno ai Celtics è immediatamente diventata quella degli “underdog” piagati dagli infortuni e dalla sfiga — lo scenario emotivo ideale per i giocatori a disposizione di coach Brad Stevens per avere successo.

In qualsiasi altra squadra sarebbe stato sottolineato come ci fosse comunque un’altra stella a disposizione nel roster. Ma quando si pensa ad Al Horford, chissà perché, la sua presenza sembra sempre svanire sullo sfondo. Mentre gli occhi di tutti si sono invece spostati sugli altri giocatori e sulle loro cifre in crescita, perché la gioventù e la novità fanno sempre più notizia della solida normalità, Horford ha lentamente e silenziosamente cominciato ad aumentare la sua influenza in entrambe le metà campo, prendendo il controllo delle operazioni nella cabina di regia dei Celtics e portandoli senza scossoni al secondo posto nella Eastern Conference.

In questi playoff, poi, ha fatto un ulteriore salto di qualità e, per quanto sia bello e divertente riempirsi gli occhi con il lavoro di piedi di Jayson Tatum, la voglia di vincere di Jaylen Brown, l’intensità di Marcus Smart e le accelerazioni di Terry Rozier, non dovrebbe passare sotto silenzio il fatto che il miglior giocatore dei Boston Celtics è stato senza ombra di dubbio il lungo dominicano, che a suon di prestazioni eccezionali è uno dei principali motivi per cui i biancoverdi sono tornati alle finali di conference pur avendo rivoluzionato il roster da un anno all’anno.

La versatilità invisibile di Al Horford

Anche i tifosi dei Boston Celtics, quelli più di “bocca buona” e avvezzi a giudicare un giocatore al di là di quello che dice il contratto e il tabellino, ci hanno messo un po’ per capire la grandezza di Al Horford. Quando ha firmato nell’estate del 2016 l’ex Atlanta Hawks è diventato immediatamente il free agent più importante ad aver scelto di calcare il parquet incrociato del Garden, ma è pacifico pensare che da un giocatore “da massimo salariale” si aspettassero un impatto più visibile, tanto a livello di status quanto di riconoscimento. Pagare 113 milioni di dollari in quattro anni per uno che non supera i 14 punti di media a partita sembrava uno spreco.

Per apprezzare davvero Al Horford, invece, serve qualcosa di diverso che non aspettarsi 25 punti e 10 rimbalzi tutte le sere. La sua influenza su moltissimi aspetti del gioco è silenziosa e invisibile, senza palesarsi in quello che fa lui in prima persona ma in quello che fa fare o non fa fare a compagni e avversari. Il genio di Horford e il suo valore per una squadra sta nelle piccole cose: negli angoli aggiustati per dare tempo e spazio spazio al compagno; nei blocchi portati con tempi e modi più giusti; nei passaggi che piegano le difese da una parte o dall’altra, lasciando poi a un compagno l’onere e l’onore di un assist o un canestro; nei palloni toccati, nei raddoppi e negli aiuti con tempi perfetti che mandano all’aria gli schemi avversari, costringendoli a rifare tutto da capo o a prendersi un tiro affrettato.

Soprattutto, la presenza di Al Horford in campo regala ai suoi allenatori una versatilità unica anche in una lega ultra-competitiva e ultra-talentuosa come la NBA. Non c’è una situazione di gioco, offensiva o difensiva, che Horford non sappia eseguire alla perfezione: può interpretare il pick and roll con o senza il pallone, rollando al ferro oppure allargandosi sul perimetro per una tripla; può spaziare il campo o giocarsi un possesso in post basso anche nella stessa azione, può agire come playmaker aggiunto o come da finalizzatore del lavoro dei compagni. Vi siete mai chiesti perché le guardie di Boston (Isaiah Thomas, Terry Rozier) o di Atlanta (Jeff Teague, Dennis Schröder) sono andate così bene con lui e invece non hanno toccato lo stesso livello senza? Perché giocare con un lungo con tale versatilità farebbe sembrare competenti buona parte delle point guard di riserva che girano in NBA, figuriamoci quelle forti come Kyrie Irving.

Quanti lunghi in NBA sono capaci di fare quel passaggio con quei tempi e quella precisione?

Se Horford è l’ingranaggio che fa girare tutti gli altri in attacco, è in difesa però che la sua influenza sul gioco diventa determinante. Nella serie contro Philadelphia lo si è visto marcare indistintamente Ben Simmons e Joel Embiid anche nella stessa azione, frapponendosi come un ostacolo insormontabile fra loro e il canestro ad ogni occasione possibile. Ci sono state azioni in cui, dopo aver fermato l’assalto al ferro di Simmons in transizione togliendogli la sua soluzione di gioco preferita, Horford è passato in post basso stoppando Embiid (a cui rende svariati chili e centimetri) senza neanche bisogno di saltare, semplicemente leggendo e anticipando quanto avrebbe fatto l’All-Star avversario.

Ancora: quanti lunghi in NBA sono in grado di fare due giocate difensive del genere?

La capacità di giocare sia da 4 che da 5 e di marcare ogni tipo di avversario usando la sua intelligenza è ciò che rende speciale la difesa dei Celtics e in passato quella degli Hawks: non è un caso se, dopo il suo anno da rookie, le sue squadre hanno sempre finito nella metà alta della lega per rating difensivo, tra cui il primo posto di quest’anno. Anche perché oltre a quello che fa lui non bisogna sottovalutare il modo in cui riesce a guidare i compagni grazie alle sue doti di comunicazione difensiva, riuscendo a far diventare competente e convinto anche un difensore riluttante come Kyrie Irving (102.8 di rating difensivo con Horford, 105.2 senza) o innalzando il talento dei vari Tatum e Brown, controllati come con un joystick dal numero 42 alle loro spalle.

Foto di Jesse D. Garrabrant/Getty Images.

I limiti di Horford

Ovvio, ci sono degli aspetti del gioco in cui Horford non è mai stato — e probabilmente non sarà mai — straordinario, altrimenti staremmo parlando di Tim Duncan e non di un giocatore che non ha mai disputato una Finale NBA in carriera. Horford ha dei chiari limiti a livello di realizzazione pura: non è un lungo a cui dare il pallone e dirgli “pensaci tu”, per quanto nella serie contro Philly ci siano stati dei momenti in cui lo ha fatto, specie se accoppiato favorevolmente in post contro un esterno. Ad Atlanta poi pativano il fatto che mettesse poca pressione al ferro avversario, preferendo di gran lunga “poppare” invece di “rollare” verso il canestro nei giochi a due, difetto acuito dal fatto che il suo compagno Paul Millsap avesse la stessa tendenza. In difesa, invece, le sue squadre hanno sempre sofferto la sua mancanza di forza fisica a rimbalzo difensivo, risultando sempre un po’ troppo “leggero” per reggere l’urto dei migliori rimbalzisti d’attacco nella NBA (la serie di Tristan Thompson nelle finali di conference 2015 ne sono l’epitome).

Questo per dire che Horford non è un giocatore in grado di creare il contesto in cui gioca, perché se messo in una squadra di giocatori di uno-contro-uno con cui non può creare connessioni o se accoppiato con un lungo ugualmente deficitario a rimbalzo risulterebbe inevitabilmente molto meno determinante di quello che è ora nelle mani di Brad Stevens, dove invece è nell’ambiente ideale. Il suo terribile record ai playoff contro le squadre di LeBron James (15 sconfitte a fronte di una sola vittoria, lo scorso anno in gara-3) dice molto dei suoi problemi nel superare l’ostacolo anche mentale rappresentato dal Re — ma a sua discolpa bisogna dire che negli ultimi otto anni non è che il resto della Eastern Conference abbia fatto molto meglio.

Clutch

Una delle principali critiche che gli sono state mosse in carriera era che non fosse “clutch”, che nei momenti decisivi delle partite sparisse invece di lasciare un segno. Ebbene, nelle prime due serie di playoff è stato semplicemente splendido, lasciando le sue impronte su tutte le giocate più importanti nei momenti cruciali contro Milwaukee e Philadelphia. Nel momento del bisogno Horford ha “fatto l’All-Star”, tirando fuori prestazioni da 26 punti in gara-7 contro i Bucks e le giocate difensive e offensive determinanti per andare 3-0 contro i Sixers.

I pick and pop di Horford hanno fatto malissimo ai Sixers per tutta la serie: qui segna il canestro della staffa in gara-2 partendo da lontano e battendo un Embiid pigro e stanco.

In gara-3 invece ha lasciato il segno realizzando il canestro del sorpasso nel supplementare e la giocata difensiva per chiudere la partita e, di fatto, la serie.

Se oltre a tutta la mole di lavoro silenziosa aggiungiamo anche i canestri “in the clutch”, diventa davvero difficile non considerare Horford uno dei candidati MVP — al netto del mostro di Cleveland che fa corsa a parte — di questi playoff finora. E se Tatum, Rozier e Brown sono in grado di fare quello che fanno in attacco, il merito è anche della regia occulta del numero 42, che li telecomanda e li mette nelle condizioni migliori per fare quello che fanno difendendo e attaccando per tutti, sacrificando il proprio ego e le proprie cifre personali per il bene dei compagni e della squadra. Di fatto, Al Horford è l’incarnazione dello spirito vincente dei Celtics.

E se anche la stagione di Boston si infrangerà contro James e i Cleveland Cavaliers, questo non toglierà nulla ai playoff giocati da Al Horford. Perché non serve mettersi un anello al dito per essere considerati dei giocatori Vincenti con la V maiuscola, quale il domenicano certamente è sempre stato al di là di quello che dicono tabellini, palmares e record di qualsiasi tipo.

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