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Alla fiera dell'Hype
02 apr 2016
Cosa ci ha raccontato l’ultimo McDonald’s All-American, lo showcase dei futuri fenomeni del basket USA.
(articolo)
10 min
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Incastonato tra le ultime partite della March Madness e gli strascichi della regular season NBA, allo United Center di Chicago è andato in scena uno dei classici riti di passaggio per le superstars in the making. Se solo pochi giorni prima proprio in quel luogo si erano sfidate Syracuse e Virginia per un posto nelle Final Four di Houston, oggi il palcoscenico è tutto per i 24 senior più talentuosi, chiamati dalle varie high school d’America per offrire a tutti una prima visione delle loro potenzialità.

Dal 1979 (quasi) tutti i futuri dominatori NBA hanno indossato per un giorno la mitica canotta con il simbolo di Ronald McDonald, il distintivo che immediatamente ti proietta sotto la luce accecante delle aspettative da mantenere, in quattro lettere hype. È la prima tappa di un lungo viaggio che se percorso nella sua interezza porta fino al professionismo al più alto livello. Attenzione però a non commettere passi falsi perché, come si ripete ossessivamente in occasioni come questa, “È tutto un processo”.

In realtà il McDonald’s All-American è essenzialmente uno showcase, simile ai vari All-Star Game così cari alla cultura sportiva statunitense. I selezionati vivono per qualche giorno pedinati dal circo mediatico in una rutilante sequela di interviste, allenamenti e shooting fotografici, un antipasto di quello che li potrebbe aspettare al piano di sopra qualche anno dopo. Il tutto si conclude con la partita d’esibizione, un modo per farsi conoscere anche ad un pubblico generalista (si va in onda su ESPN3), quindi a maggior ragione le indicazioni che emergono da tale competizione non dovrebbero esser prese troppo sul serio. Però una partita del genere, proprio come il fast food sul petto dei ragazzi, è un peccato di gola che non si può non commettere, quindi ecco cosa c’è piaciuto e cosa no di questo McDonald’s All American 2016.

Up

Partiamo da chi ha ricevuto il premio di MVP della manifestazione, assegnato ad ex-aequo ai due Jackson della formazione dell’Ovest, Josh e Frank.

Il primo è il giocatore, almeno tra quelli visti allo United Center, che potrà avere maggiore impatto in NBA quando ci arriverà, tra meno di due anni. È il prototipo dell’ala piccola moderna: un fisico già pronto per i pro (201 cm, quasi 90 kg) dotato di un atletismo fuori dal comune e da straordinari istinti per il gioco. Se per apprezzare i suoi voli sopra il ferro bastano i mixtape su YouTube, per scoprire l’intelligenza con la quale lavora sui due lati del campo il McDonalds ci è di grande aiuto.

Esplosività ne abbiamo?

Nato come difensore d’impatto, il suo gioco si è modellato secondo le direttive NBA: è estremamente capace di guadagnarsi tiri liberi grazie alla combinazione di rapidità e potenza e sta cominciando a costruirsi un discreto range di tiro. Ritrovandosi con tanto talento attorno, è uscita fuori anche la sua sottovalutata capacità di passatore, a sottolineare come oltre al corpo anche il suo cervello funzioni molto bene sul parquet. Il difetto è che è ancora limitato a creare dal palleggio, forzando isolamenti che non lo vedono ancora in controllo, ma ha tutte le qualità per inserirsi nella stirpe dei grandi-difensori-divenuti-dominanti-two-way players, alla Kawhi Leonard o alla Paul George per intenderci. Sempre se finirà nell’ambiente giusto.

Il suo è stato anche il nome più chiaccherato della kermesse perché rimane il miglior prospetto ancora undeclared (ovvero non si è promesso ad alcuna università) e i giornalisti facevano a gara per estorcergli lo scoop. Lui dice di aver già deciso dove andare e che lo rivelerà presto: i tifosi di Kansas, Arizona e Michigan State aspettano alla finestra.

Frank Jackson ricorderà sempre con nostalgia questi giorni a Chicago, dove ha prima vinto la gara delle schiacciate e poi è andato a conquistarsi un meritato premio di MVP dopo aver messo a segno cinque triple in 19 minuti. Una prestazione che sarà stata apprezzata molto a Duke, dove l’anno prossimo andrà a giocare alla corte di Coach K., visto che è il perfetto sostituto di Grayson Allen, se quest’ultimo si dichiarerà eleggibile al Draft. Guardia tiratrice massiccia, che può operare sia come principale portatore di palla sia lontano dalla palla grazie al mortifero tiro piedi per terra, sa finire nel pitturato e arriva al ferro a volontà.

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Gesto pulitissimo anche da distanza NBA.

A Jalen Rose durante la telecronaca ha ricordato il suo collega Jay Williams per l’intensità fisica che mette in campo: a me più prosaicamente l’attuale Denver Nugget Gary Harris, passato da Michigan State un paio d’anni fa. Per spiegare che razza di classe di recruiting abbia messo su a Duke quest’anno, Frank è il terzo prospetto in ordine di ranking. Perché prima di lui ci sarebbero i primi due della lista, Harry Giles e Jaylen Tatum.

Se invece cercate davvero un giocatore unico il prossimo anno non perdetevi le partite di UCLA: bisognerà puntare la sveglia molto presto (o molto tardi, a seconda dei bioritmi) ma tale sforzo verrà ampiamente ripagato dall’IQ cestistico di Lonzo Ball. Nonostante non abbia messo a tabellone un singolo punto in uno showcase che si basa quasi esclusivamente sul fare canestro, ha impressionato dalla sua capacità di gestire ogni aspetto del gioco, di governarlo come se fosse in grado di vedere il Matrix.

Raramente si è visto un playmaker di quasi due metri avere un impatto del genere come il prodotto di Chino High School: il mix esplosivo di versatilità fisica e tecnica ricorda il giovane Westbrook o il più recente LaVine. Vedendolo però guidare la sua squadra di liceo viaggiando in tripla doppia di media (23.6 punti, 11.5 rimbalzi e 11.4 assist) mi ha ricordato un altro californiano che riempiva il foglio delle statistiche un po ovunque, un tal Jason Kidd.

Come il primo Giasone non ha ancora perfezionato l’arte del tiro in sospensione, che esce dalle mani in maniera molto strana e molto in basso nonostante gli entri molte più volte di quelle che si creda, e come Kidd ha il suo personale Flying Circus fatto in casa. Invece di Richard Jefferson e Kenyon Martin, Lonzo può contare sui fratelli LiAngelo e LaMelo (il padre LaVar non dà i nomi seguendo esattamente i santi), anche loro futuri Bruins, che innesca con passaggi che tagliano il campo seguendo bisettrici impossibili. Stesse assistenze che ha garantito anche allo United Center, facendo volare verso il ferro i suoi compagni ben 13 volte, pareggiando un vecchio record di Jacque Vaughn.

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Yes, Lonzo Can Ball!

Quando si tentano passaggi come questo, spesso la palla non arriva alla destinazione prevista: Ball ha invece perso solo un pallone nei suoi 21 minuti sul parquet, dimostrando un’innata capacità di leggere i movimenti dei compagni. A UCLA troverà un ottimo bersaglio in TJ Leaf, forse l’unico stretch-4 della sua classe, dotato di un consistente jumper e allo stesso tempo efficace nel pitturato. Alford potrà ripartire da loro due dopo una stagione da dimenticare.

Tra gli sconfitti dell’Est è piaciuto molto Bam Adebayo, prossimo one-and-done di Calipari a Kentucky. Il fisico debordante e l’esplosività sotto canestro rendono Bam uno di quei corpi fatti apposta per la pallacanestro, supportato da un motore incandescente che non smette di competere per ogni secondo che è in campo.

Bam perché ama maltrattare i ferri avversari e quelli dello United Centre non sono scappati al loro amaro destino.

Sarebbe già pronto per l’NBA come energy guy, à-la-Kenneth Faried, un ruolo che garantisce minuti ma che sta andando sempre più riducendosi. Sul parquet di Chicago ha fatto vedere che potrebbe inserire nel bagaglio qualche trick segreto, come un paio di slalom in palleggio con discreti risultati e una meccanica di tiro nei liberi sempre più rotonda. Se nell’anno a Lexington riuscisse ad aggiungere un’altra dimensione al suo gioco, il suo valore al Draft schizzerebbe verso l’alto.

Tra le guardie molti cuori per Markelle Fultz, prodotto di DeMatha HS che andrà a giocare per Lorenzo Romar a Washington. Se esistesse un premio per il “Most Improved McDonald” lo vincerebbe a mani basse: fino a due anni fa era fuori della sua squadra di liceo, ora è tra i ventiquattro migliori della nazione. Come per Lonzo Ball non bisogna leggere i numeri, che recitano un bruttino 4 su 12 dal campo, ma l’impatto che ha avuto sulla squadra quando era in campo. Che è stato notevole, specialmente quando è riuscito a cambiare il ritmo per brevi tratti di partita, distribuendo per i compagni (6 assist, 1 palla persa, 3 rubate) e mettendoci anche un paio di bombe. Questo è il Markelle buono, quello che anche dopo un errore recupera in questo modo.

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Un chiaro esempio di giocatore d’impatto.

Poi ci sarebbe il Markelle cattivo, quello che forza conclusioni inutili o che sbaglia letture in attacco, ma è da duri di cuore non innamorarsi perdutamente di un playmaker con 6-9 di apertura alare che per brevi momenti dà l’impressione di poter fare tutto su un campo da basket.

Per concludere, premio simpatia va per acclamazione a Udoka Azabuike, un tank nigeriano da 120 chili che definire grezzo è eufemistico (anche se i piedi non sono niente male, giocava a calcio), ma che passerà degli anni prima di trovare qualcuno in grado di spostarlo da sotto canestro. Per ora gli rimbalzano addosso. Andrà a Kansas al posto di Perry Ellis ed è l’unico McDonald di questa classe diretto a Lawrence. Per ora.

Down

È sempre uno sporco lavoro dover giudicare negativamente ragazzi appena maggiorenni che giocano 20 minuti in diretta nazionale per la prima volta nella loro vita, ma qualcuno dovrà pur farlo.

Ha deluso il futuro backcourt di Kentucky formato da Malik Monk e De’Aaron Fox, che sembravano rincorrere la partita senza mai trovar il ritmo giusto. Il talento non si discute, specialmente quello atletico, ma per prendere il posto di Tyler Ulis serve anche la testa, e quella si allena con difficoltà. Monk è un atleta come non ne passano molti, ma il paragone con il Derrick Rose di Memphis si avvicina all’eresia. Fox ha tutte le qualità per essere un eccellente difensore sulla palla, ma deve assolutamente migliorare le letture offensive perché commette molti errori banali.

Non ha impressionato neanche il miglior prospetto secondo i rankings ESPN arrivato qui a Chicago, visto che Harry Giles sta ancora recuperando dalla rottura del crociato occorsa a novembre (la seconda in due anni) e non si è presentato. Il palcoscenico era tutto per Tatum, ma forse la pressione ha stropicciato il suo gioco di velluto, o forse la sua delicatezza mal si accorda con uno spettacolo patinato come il McDonald’s. Fatto sta che non ha offerto una prestazione degli standard a cui ci aveva abituato con il suo Chaminade College Prep, forzando spesso la soluzione individuale e intestardendosi in conclusioni dall’alto tasso acrobatico. Rimane il suo meraviglioso gioco dalla media distanza, avanzatissimo per un ragazzo di 19 anni, che inserito in quel corpo da 4 lo rende super appetibile per le squadre NBA. Rimandato ma con la speranza di rivederlo presto sui suoi livelli.

La stessa impressione l’ha destata l’altra ala forte del Team East, Miles Bridges. Il nativo di Flint, che a breve tenterà di ripercorrere le gesta dei suoi predecessori a Michigan State, era più alla ricerca dello spettacolo fine a se stesso rispetto ad una concretezza che includesse anche un minimo di gioco di squadra. Ha preferito usare il parquet di Chicago come un campetto su cui provare le sue migliori schiacciate e questo alla lunga non ha messo in risalto le altre sue doti cestistiche.

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Però questa ammettiamo che gli è venuta bene.

Forse Miles era più interessato a convincere il suo migliore amico, Josh Jackson, ad andare con lui a Michigan State piuttosto che impegnarsi a fondo nella partita. Se Jackson infatti scegliesse gli Spartans, Izzo avrebbe la miglior recruiting class della nazione e probabilmente la sua migliore di sempre, superando persino quella del 2000 con Zach Randolph e Jason Richardson.

Stiamo però continuando a cadere nell’errore di definire questi ragazzi secondo le regole marmoree del professionismo, senza contare che l’intero McDonald’s non è che un modo continuare le gite del liceo con altri mezzi, sfidando gli amici di sempre, incontrandone di nuovi, provando le mosse più pazze come se si fosse al campetto sotto casa nonostante si sia in diretta nazionale (senza contare i sempre benedetti streaming). Bisognerebbe giudicarli con la leggerezza con la quale si alzano dal parquet per incontrare il ferro, con l’incoscienza con cui tentano un alley-oop da centrocampo a difesa schierata. Forse l’intera manifestazione non è che un modo subliminare di Ronald McDonald per ricordare a tutti noi che, almeno una volta nella vita, abbiamo comprato un Happy Meal e che sì, ognuno a suo modo e al suo tempo, siamo stati tutti giovani.

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Anche James Harden.

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