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Raggi l'imbucato
24 set 2015
Arrivato nel principato quasi per caso, Andrea Raggi è ora un punto fermo della difesa del Monaco.
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7 min
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Questa che è appena iniziata è la sua quarta stagione nel Principato. È nato il 24 giugno, come Leo Messi e Juan Román Riquelme. Gli hanno sempre detto che somiglia a Zidane, ma intendono esteticamente. Quando diceva di voler prendere il porto d'armi per iniziare a cacciare, aggiungeva: «Sparerò anch'io, come Baggio e Peruzzi». Negli ultimi anni ha giocato insieme a Falcao e Abidal, Berbatov e James Rodríguez.

Lui è Andrea Raggi, non un fuoriclasse. Nello sfavillante circo monegasco, anzi, è forse l'unico ragazzo in cui chiunque può immedesimarsi. Perché non ha particolare talento, non ha piedi magici, non ha caratteristiche fisiche eccezionali. Eppure sta lì.

Qui è quando Raggi segna al volo (con la complicità del portiere) e Falcao va ad abbracciarlo e lui fa la linguaccia a James Rodríguez. È l'estate 2013, un'amichevole con il Tottenham.

Anni di dignitosa provincia, diversi prestiti senza che venisse esercitato il diritto di riscatto. Titolare a Empoli e Bologna, riserva alla Sampdoria e al Bari, comparsa a Palermo. A metà carriera, sembrava vedesse già il resto: qualcosa come la soddisfazione di un posto in massima serie e la delusione di non aver fatto il salto di qualità.

Molto tempo dopo averlo incrociato, il presidente Zamparini lo racconterà così: «Da noi era un bidone e non a caso, per due anni, l'ho regalato in giro pagandogli addirittura lo stipendio. Poi il calcio è strano». Sì, è strano. Perché quando si ritrova svincolato, nell'estate 2012, Raggi riceve la chiamata del Monaco.

Contratto quadriennale, 1,2 milioni all'anno. Al suo arrivo nel Principato, Raggi ha ventotto anni e praticamente nessuna esperienza internazionale: due gare in Coppa UEFA (una con l'Empoli, l'altra con la Sampdoria), tre presenze nell'Under-21 azzurra. Montecarlo era stato finora un posto dove andava in vacanza con la moglie, spezzina anche lei, Elisabeth.

Nel Principato ci arriva per volere del nuovo tecnico, Claudio Ranieri, e lui è il primo acquisto della nuova proprietà. La quota di maggioranza del club, infatti, è passata da pochi mesi nelle mani del magnate russo Dmitrij Rybolovlev. L'obiettivo è raggiungere grandi palcoscenici in poco tempo. Tornare al grande Monaco che nel 2004 aveva raggiunto la finale di Champions League. Chi guardava quell'operazione all'epoca poteva pensare all'Anzhi di Kerimov o al Málaga degli emiri. Nuove, improvvise potenze. Oggi l'Anzhi e il Málaga sono stati smantellati, mentre il Monaco sembra ben solido.

A partire da quell'estate 2012, Ranieri ha il compito di risollevare le sorti del club, che nel 2010/11 è retrocesso in Ligue 2 e nella stagione seguente ci è rimasto intrappolato.

Verrà il ritorno nella massima serie e poi un secondo posto dietro il PSG. Verrà l'esonero di Ranieri, verrà Leonardo Jardim. Verranno un terzo posto, nella scorsa stagione, e un'avventura in Champions League che si interrompe solo ai quarti. Verrà tutto questo, e Andrea Raggi è ancora lì.

Sembrava il rincalzo buono per la seconda divisione francese, destinato poi a tornare nella sua dignitosa provincia. Sembrava impossibile potesse trovare posto in una squadra con le ambizioni del Monaco. Al massimo si prospettava il ruolo di mascotte per compattare lo spogliatoio, sembrava.

Lui stesso si racconta come un uomo di spogliatoio, come uno che rasserena il clima. È il tipo che dice: «Meglio prendere tutto col sorriso». Mazzarri a Genova lo chiamava “il matto”. Al tempo stesso è percepito unanimemente come una figura carismatica, tosta. Lo ha spiegato Valère Germain: «Non so se è la mentalità italiana, ma lui è uno che vuole sempre di più». E ancora meglio lo ha detto un altro ex compagno, Gary Coulibaly: «I combattenti come lui danno un po' di vita agli spogliatoi».

Nei video ufficiali del Monaco, non c'è una volta che Raggi faccia il serio. Anche nei test fisici d'inizio stagione, anche col fiato mozzo riesce a fare le smorfie e le battute. Quando tocca agli altri compagni, poi, si aggira con degli occhiali con le lenti rosse.

La svolta della sua carriera avviene quindi in un altro Paese, che però dista appena 250 chilometri di costa da dove, nel 1984, è nato: Arsina, nelle campagne intorno a La Spezia. Lungo i campi dei nonni in Val di Vara ha dato i primi calci al pallone, insieme ai cugini, usando due pali di legno e la rete dei fagioli come porta.

Il posto dov'è cresciuto e che considera suo, comunque, è Marina di Carrara, dove lavoravano i suoi genitori. «Mi sento carrarino al cento per cento» ha detto. Alla Carrarese ha anche esordito tra i professionisti, in prestito dall'Empoli dove ha fatto le giovanili con Simone Del Nero.

Suo padre per lavoro montava finestre. Lui da ragazzino tirava petardi contro i vetri delle case, poi ha costruito una carriera sulla chiusura degli spazi.

A lanciarlo era stato Gigi Cagni, ai tempi di Empoli. Anche lì Raggi aveva cominciato nella serie cadetta e aveva trovato la promozione alla prima stagione. Per averlo a Palermo, Zamparini aveva sborsato qualcosa come sette milioni di euro. Più avanti lo stesso Raggi dirà: «Ci penso spesso. Non so se valgo quei soldi». Alla prima giornata Colantuono venne esonerato, e il nuovo tecnico Ballardini si disinteressò completamente di Raggi. Il risultato furono tre presenze in totale e una stagione buttata.

Alla Sampdoria voleva la maglia numero 46, in onore del suo idolo Valentino Rossi, e invece dovette lasciar perdere perché ce l'aveva già, e per lo stesso motivo, Mirko Pieri. Il prestito a Genova non diventò altro.

Tornò a Palermo, di nuovo venne girato in prestito. Stavolta a Bologna, dove trovò più spazio. Eppure in campo non riusciva ancora a giustificare i sette milioni spesi per il suo cartellino.

Al Bologna, nel 2009/10. Forse esagero, ma anche fisicamente sembra comunicare delusione, cupezza. Sarà la barba, ma in confronto alle immagini di oggi si direbbe che fosse più vecchio allora.

Sta di fatto che, a oggi, in biancorosso ha totalizzato 120 presenze. Dalla Ligue 2 ai vertici del calcio europeo. Centrale di difesa, terzino destro, ma anche terzino sinistro all'occorrenza. Ben strutturato (187 centimetri per 82 kg), roccioso, attento. Duttile e onesto. Su YouTube nessuno ha montato una compilation con le sue azioni, il massimo che si può rintracciare è questa sfida con Ricardo Carvalho a chi non fa toccare terra al pallone.

Celebrato in occasione delle cento partite giocate, ha detto che il ricordo a cui è più legato è la promozione nella massima divisione francese. Era lo scorso gennaio e poco dopo il Monaco avrebbe vinto l'ottavo di finale di Champions contro l'Arsenal—verrà poi eliminato ai quarti dalla Juventus. La mia idea, forzata da un po' di romanticismo, è che non avrebbe comunque sostituito la risposta sul ricordo più caro. Perché quella promozione ha rappresentato il salto di qualità che Raggi sembrava destinato a non fare mai. La rivincita sui sette milioni di Zamparini, sul frustrante giro d'Italia in cerca di fiducia.

In questo scorcio di stagione ha anche segnato il suo primo gol internazionale. Contro il Valencia, nel tiratissimo ritorno del preliminare di Champions League, che ha visto i monegaschi sconfitti. Da quel gol era iniziato il sogno di rimonta, poi tramontato. Quest'anno il Monaco dovrà accontentarsi di partecipare all'Europa League.

L'AS Monaco è da anni una perfetta combinazione di giovani talentuosi pronti a decollare e giocatori esperti che si avviano al tramonto. Ci sono João Moutinho e Thomas Lemar, Jérémy Toulalan e Bernardo Silva. I portoghesi Ricardo Carvalho e Rony Lopes si passano quasi diciotto anni. Di francesi ce ne sono pochi, di italiani ci sono lui e Stephan El Shaarawy. Negli ultimi anni, l'unico altro italiano è stato Flavio Roma (una bandiera, 228 presenze in dieci stagioni).

In molti hanno trovato, al “Louis II”, un trampolino per altri lidi. Si pensi già solo ai giocatori che hanno lasciato il club durante l'ultima sessione di mercato: da Abdennour a Kurzawa, da Ferreira Carrasco a Kondogbia, fino al crack Martial. Andrea Raggi invece ci ha trovato un posto dove restare e sentirsi orgoglioso.

A lui non piacerebbe, forse, questo ritratto da giocatore normale che si ritrova fra i campioni. Lui guarda in alto, punta alla Nazionale: «Il pensiero c'è sempre». Se è riuscito a fare quello che ha fatto nel suo club, forse non è più una provocazione, uno scherzo dei suoi, immaginarlo agli Europei del 2016. Si giocano in Francia, poi.

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