A volte rinascere significa, semplicemente, nascere come uomo – cioè smettere di essere bambino. Succede quando l'adolescenza non ha marcato il passaggio che deve. È difficile recuperare in tempo quella discontinuità. Spesso i calciatori esplosi presto e grazie a un dono fisico e/o tecnico, non hanno compiuto quel passaggio. Se non trovano il modo di diventare uomini, li si riconoscerà poi da come sprecano il potenziale, dalla tendenza auto-distruttiva che annulla il dono di partenza. Uno di loro è Mario Balotelli. Un altro avrebbe potuto essere il suo compagno di stanza all'Inter, quello che Balotelli definiva “la persona più folle che abbia mai conosciuto”. Il suo amico, come notava preoccupato Mourinho all'Inter. Sono nati a pochi mesi di distanza, c'è una lettera di differenza nei loro nomi, ma soprattutto c'è una rinascita a separarli.
In serbo-croato il termine Arnaut indica i biechi e gli assassini, e per estensione razzista i non-jugoslavi dei Balcani. Portare addosso quel nome col patronimico significa avere sangue misto e antenati malvisti. Marko Arnautovic è viennese di Florisdorf; la madre è austriaca, il padre vive in Austria dagli anni Settanta ma è serbo; quel cognome non può avere, quindi, un suono meramente esotico.
Oggi si ritrova a essere un punto fermo dell'Austria agli Europei 2016.
La “futura stella”, come lo indicavano sicuri in Olanda. Dove in tre stagioni era passato dal settore giovanile del Twente al posto di titolare in prima squadra, con dodici gol nell'Eredivisie 2008/09 e prestazioni straordinarie per la sua età. Al Twente, a diciannove anni, ha vissuto quelli che sarebbero potuti diventare, nel ricordo, i migliori mesi della sua carriera. Ma c'erano anche dei segnali allarmanti. Arnautovic aveva dato del nigger a Ibrahim Kargbo del Willem II. E poi in Olanda si stavano convincendo che, più che d'infantilismo, Arnautovic avesse una dose di follia. Il suo tecnico dell'epoca, Steve McClaren, lo considerava il giocatore più pazzo che avesse allenato. E ancora nel 2011, l'opinionista ed ex calciatore René van der Gijp sosteneva che fosse “matto come le aringhe”.
A Enschede, ci era arrivato a diciassette anni, mandato all'estero un po' per fini educativi, un po' per la terra bruciata che si era già fatto in Austria. Dalla società del suo quartiere, il Florisdorfer, dove il padre lavorava nella mensa e lui giocava “fin quando c'era luce”, Marko ragazzino aveva errato fra i settori giovanili delle principali squadre cittadine (Rapid, Austria Wien e First Vienna). Il copione era sempre lo stesso: veniva preso, restava alcuni mesi, poi veniva mandato via – perché nessun tecnico riusciva a lavorare con lui. Così a sedici anni era di nuovo al Florisdorfer, dal vecchio allenatore Larish, che dirà poi: “Non aveva rispetto, ma era il più talentuoso”.
Il suo modo di ribellarsi è presuntuoso e soprattutto infantile. Mourinho nel 2010 dirà: “Ha la mentalità di un bambino”. I problemi con gli allenatori sono i problemi con qualsiasi autorità esercitata. Non a caso passa dei guai, a Vienna, per aver gridato contro un poliziotto: “Sta' zitto. Guadagno così tanto che posso comprare la tua vita”.
Gli anni in Olanda, con la maglia dei Tukkers. Una parola dall'etimologia incerta – l'unica cosa sicura è che viene usata per indicare i “bifolchi”, come appunto gli abitanti di Enschede sono considerati nel Paese.
Il calcio è un mestiere circoscritto in un tempo breve, ma le sliding doors sono quelle che toccano a chiunque nella vita – nella vita, più che nella carriera. In un ventennio si affrontano i bivi che di solito si distribuiscono nel doppio del tempo.
Nell'estate 2009 su Marko Arnautovic ci sono gli occhi di mezza Europa. In prima fila, lo Schalke e il Feyenoord. E il Chelsea. Proprio i Blues strappano l'accordo, quell'estate, per circa 12 milioni. Ma i controlli medici fermano tutto: il ragazzo ha un piede rotto. Per pochi centimetri, quelli che segnano la frattura da stress del quinto metatarso, Arnautovic non andrà a giocare con Terry e Lampard. È allora che si inserisce l'Inter di Mourinho.
“Le vacche, le galline, i mulini”, con cui racconta il suo ambiente in Olanda, spariscono per lasciar posto a Milano. In quell'Inter si comporta da pigro, capriccioso, arrogante. Un disastro per sé e per gli altri. Il caso più clamoroso è quando Eto'o gli presta la Bentley, lui ci va in giro, poi scende e si dimentica di chiuderla, e al ritorno la Bentley è sparita.
Naturalmente il rapporto con Mourinho è complesso. La prima volta che Arnautovic fa tardi all'allenamento il tecnico lo striglia, e il giorno dopo Marko arriva con diverse ore d'anticipo. Allora Mou gli regala il suo orologio.
Andrà tutto male. Rientra dall'infortunio al piede solo a gennaio, poi gioca 53 minuti in totale. Il suo flop ha un risalto disturbante, perché quella è l'Inter del Triplete. Nella bacheca di Arnautovic quei trofei ci sono, ma lui è un orgoglioso: “Non li sento miei”.
Come se avesse dimenticato di guardare il pallone.
Stordito, forse, prima ancora che arrabbiato, Marko cerca di rilanciarsi in Germania. Ma sarà peggio. Nei tre anni al Werder Brema si farà notare molto più per le bufere con l'ambiente che per i risultati in campo.
Lo chiamano “Arrogantovic”. Fa a botte col compagno Papastathopoulos. Il club lo sospende dopo che una notte viene fermato per eccesso di velocità. Il club sospende anche il compagno che era in macchina con lui, Eljero Elia. Un altro talento grezzo che sembra essere uscito dalle fiamme, nel 2015/16, giusto prima di bruciarsi per sempre. Dopo una sconfitta per 6-0 contro lo Stuttgart, Arnautovic dice alle telecamere: “Il Werder è una discarica”. Francamente è insopportabile, e nessuno pensa che possa cambiare.
I suoi tre anni al Werder in una foto. Strafottente, solo, in panchina.
In qualsiasi ruolo lo si metta, centravanti o esterno d'attacco, Marko è atipico. A seconda della prospettiva, è un irregolare di cui si può dire che è completo e moderno oppure un equivoco tattico, né carne né pesce. Dipende da come si guarda il bicchiere.
Le sue caratteristiche fisiche sono quelle dove il giudizio si polarizza. Alto 192 centimetri, tecnico, agile. Una combinazione rara, eccentrica, impegnativa. I piedi preziosi su una struttura imponente, le origini balcaniche, l'esplosione in Olanda e il carattere difficile, lo hanno sempre messo a confronto con Ibrahimović. Un paragone quasi insostenibile, che lo ha tormentato a lungo.
In realtà Arnautovic non è un accentratore. Nonostante le sue doti fisiche richiamino l'attenzione, funziona meglio se può partire dalle fasce, perfino nascondersi. Questa consapevolezza gli ha dato la possibilità tecnica di rinascere. E ritrovare il senso del gol, che sembrava aver perso tanto tempo fa. Tutto si è ribaltato, rispetto agli anni bui: le lunghe leve sono un valore aggiunto invece che un ingombro, tecnica e fisico – invece di neutralizzarsi a vicenda – si combinano in modo da confondere gli avversari. Invece di cercare di attirare meramente l'attenzione, il suo carattere dirompente trascina i tifosi.
Le cose che ha fatto negli ultimi mesi.
La rinascita ha la forma liscia delle famose ceramiche di Stoke-on-Trent. Una di quelle città che in Inghilterra godono di speciale autonomia e vengono definite Unitary Authority – non farò forzature sulla parola “autorità” in rapporto ad Arnautovic. Quando ci arriva, i media lo chiamano “the new Balotelli”. D'altra parte, viene dai picchi autodistruttivi di Brema.
Oltre a essere una società piccola e seria, lo Stoke City ha scommesso sistematicamente su profili come il suo: Shaqiri, Bojan, Afellay, sono stati celebrati crack, caratteri poco solidi, calciatori incompiuti. Oggi sembrano più sereni e risolti.
Oggi lo stesso Arnautovic ha normalizzato la sua immagine pubblica e mostrato il proprio valore. Questa è stata la sua terza stagione nelle Midlands occidentali, e la prima in cui è tornato a segnare come nell'anno dorato al Twente – in doppia cifra non ci andava da allora. È significativo però che nelle due stagioni precedenti ha dovuto ritrovare, o addirittura scoprire, il senso collettivo del gioco (12 e 8 assist nei primi due anni). Da quando è arrivato a Stoke-on-Trent, comunque, Marko ha spazio e fiducia. Ed è così che ha imparato a guidare la nazionale. Dove pure è stato sempre presente, nei saliscendi della sua carriera, ma non quanto negli ultimi mesi.
C'è un gol che rappresenta quasi con didascalia la forma esatta della rivincita. Nel novembre scorso, Arnautovic segna la rete decisiva contro il Chelsea. E mette un grosso peso sull'esonero del suo allenatore, José Mourinho. Sì, il Chelsea e Mourinho. Un gol in acrobazia, goffo e commovente come sono le acrobazie dei giganti. L'altalena della sua esultanza dice molto: un sorriso aperto, poi un urlo rabbioso, poi la faccia di nuovo seria, e infine un abbraccio stretto a Bojan.
La rivincita, sul Chelsea e Mourinho e tutti gli anni sprecati da solo. Forse la cosa più notevole è che la bellezza di questo gol sta nella costruzione collettiva.
Ci ha messo anni a trovare la sua dimensione, ma l'ha trovata. Era solo una croce e delizia, un giovane dai mezzi tanto fragili quanto straordinari. Poi ha accettato di essere un ottimo giocatore, senza impazzire per lo scarto con quello che gli dicevano a diciott'anni. Pochi mesi fa scansava con un'umiltà sorprendente i paragoni con Ibra: “È sempre stato importante per me. Da lui copio molte cose, ma non potete fare confronti. È capace di cose che io posso solo immaginare”.
Ha accettato i propri limiti, Marko, e non si è perso. È scampato al destino patetico dei campioni mancati, quelli che tentano le magie senza che il trucco riesca.
In questa pubblicità della catena Media Markt, uscita da poche settimane, l'immagine di Arnautovic spaccone pieno di donne si rovescia, tanta è l'incertezza con cui chiede: Voulez-vous coucher avec moi?
E soprattutto ha capito l'importanza dell'autocontrollo. Da qui è passata, per lui, la conquista della maturità. La rinascita, appunto. Arnautovic non è più il bambino di quasi due metri che dice: “Faccio le cose senza pensare”. Adesso ha una bambina, lui. Adesso dice: “Devo tenere me stesso sotto controllo”. Oggi ha ventisette anni, che è il giro di boa di una carriera. Non giovane, non vecchio. Dipende da come si guarda il bicchiere.