La squadra arriva in città nel 1985, da Kansas City. Il giocatore di riferimento, all’epoca, è Reggie Theus, nato a Inglewood, casa dei Lakers dello Showtime. «Contento di tornare in California, Reggie?». «Sacramento ain’t California» (sei anni dopo sarà Spud Webb ad accogliere in città Mitch Richmond con le seguenti parole: «Welcome to hell»). I Kings debuttano in casa il 25 ottobre, contro i Clippers, in un «magazzino infestato dai topi» convertito in arena (provvisoria), comunque esaurita in ogni singolo posto: «Diecimila contadini in smoking», scrive Don Greenberg sull’Orange County Register. Tre anni più tardi apre la “vera” ARCO Arena, che deve il suo nome alla sponsorizzazione da parte della Atlantic Richfield Company, compagnia petrolifera con oltre 1.300 distributori di benzina nell’Ovest americano. Il più famoso diventa proprio la casa dei Kings, subito ribattezzata infatti “the Gas Station”.
Anno di grazia 1989
Corre l’anno di grazia 1989, a inizio marzo sono in città i Philadelphia 76ers. La gara non passa alla storia per la tripla doppia di Charles Barkley (30+15+11) ma per la pioggia incessante fuori e… dentro l’ARCO Arena. Una falla sul soffitto, infatti, crea vere e proprie pozzanghere in campo: fanno 43 minuti di ritardo sulla palla a due, finché un uomo non parte in missione e si arrampica sul tetto—senza protezione, a oltre 25 metri dal campo—per riparare con le proprie mani la falla. Trattasi di Gregg Lukenbill, il proprietario della squadra… A giugno i Kings hanno la chance (rimasta unica, da quando sono a Sacramento) di poter scegliere con la prima chiamata assoluta al Draft NBA. Fanno il nome di Pervis Ellison, da Louisville, famoso per il suo soprannome ufficiale (“Never Nervous”) e per quello prontamente affibbiatogli da Zander Hollander (“How about ‘Never Healthy’?”). Un disastro. Fortuna che Mr. Lukenbill non si ferma davanti a nulla. Ha una grande idea per sfruttare al meglio l’ARCO Arena anche durante la off-season: «Perché non ne facciamo il drive-thru più grande al mondo?».
Cheeseburger
Lo han fatto. Un sabato. Migliaia di auto in coda per un cheeseburger. Neppure il più indimenticabile della storia dei Kings. Quello infatti viene consumato una domenica sera, ben 13 anni più tardi. Lo ordina Kobe Bryant col room service dell’Hyatt Regency, la notte prima di gara-2 della finale di conference 2002. Uno dei 1.700 pasti forniti dall’hotel, quel giorno—ma l’unico passato alla storia. Intossicazione alimentare, fanno sapere i Lakers (i Lakers di coach Phil Jackson—che aveva definito Sacramento «una città di vacche» e i suoi abitanti «dei contadinotti semi-civilizzati»—e di Shaquille O’Neal, pronto a ribattezzare gli avversari “Sacramento Queens”).
Tant’è: i Kings vincono gara-2 e pareggiano una serie che viene ricordata però per il suo sesto episodio, con Sacto sopra 3-2 e due match point per chiuderla. Il rumore dei campanacci per vacche orgogliosamente esibiti dal pubblico è assordante (anche se il record arriverà il 15/11/2013, contro i Pistons: registrati 122.6 decibel), ma non basta a coprire i fischi degli arbitri. Contati tutti i 27 liberi tirati dai gialloviola nel solo quarto quarto, perfino il paladino dei consumatori USA Ralph Nader si sente in dovere di spedire una lettera alla NBA, adducendo una presunta «crisi di fiducia del pubblico nell’integrità dello sport». Leggendaria a dire il vero è anche la successiva gara-7. Non tanto per la vittoria dei Lakers, ma perché Kobe, Shaq & Co.—finita in gloria la loro missione a Sacramento—salgono sul pullman che li riporta in aeroporto e si dispongono in fila lungo il finestrino posteriore. Oggi si chiama mooning, colpo già noto a John Belushi e compagni ai tempi di Animal House: giù i pantaloni e culo di fuori, per salutare un’ultima volta con le dovute maniere. Un’ennesima scampanellata li accompagna fuori città.
Jason Williams – The Elbow Pass
Rookie Challenge 2000, Oakland, CA
Elbows are for bending, for launching jump shots, for swinging at the heads of opposing rebound hunters or for celebrating on the sidelines. Using them as methods for the directional bouncing of basketballs is not a recommended use.
This was an act of pure art, and not just because it was utterly and entirely superfluous. Creativity for the sake of creativity, art at its most basic level.
Le nocche tatuate, la creatività di un grande artista e l’atteggiamento strafottente di chi non ha paura di nulla. Non stiamo parlando di un writer o di un rapper di Brooklyn, ma di Jason Williams: la scarica di adrenalina che ha risvegliato i Sacramento Kings dal torpore di troppi anni mediocri. Nato e cresciuto in Virginia, ha catturato l’attenzione dei media nazionali al liceo, insieme al suo compagno di squadra Randy Moss, anche lui matto come un cavallo. Randy è diventato uno dei migliori ricevitori della NFL e ha giocato con grandi quarterback, ma nessuno gli hai mai alzato una palla come J-Will con i suoi alley-oop. I ragazzi se ne sono sempre fregati del colore della pelle, si considerano «brother from another mother» e con la stessa mentalità hanno affrontato sia il college che i pro. Chi è nato negli anni '80 si sarà ritrovato sicuramente al campetto a provare il passaggio di gomito di Jason, diventato simbolo della sua creatività in campo. I suoi Kings hanno iniziato a vincere grazie all’asse Divac-Webber e alla bravura di Rick Adelman nell’allenare una squadra ben costruita. Ma J-Will era l’idea romantica di basket che ha risvegliato la passione per questo sport in città, rimettendo in relazione le parole “gioco”, “spettacolo” e “divertimento”.
La distanza tra la realtà e lo spettacolo ha un nome: Mike Bibby, uno che dalla prima liceo si allenava già come un professionista. Il playmaker da Arizona, dopo tre stagioni sotto le aspettative a Vancouver, ha raccolto il testimone di Williams e portato i Kings su un altro livello, quello successivo. Potete rivedere tutti gli assist di Bibby in carriera: non ne troverete uno geniale come Williams. Potete contare gli schemi rotti da Williams in una stagione ai Kings: sono almeno il triplo di quelli di Bibby in un’intera carriera. Due mondi opposti alla guida della stessa squadra. Bibby era la prima nota di una sinfonia perfetta—in cui l’ultimo passaggio spesso era nelle mani di Divac o Webber—e le sue esecuzioni erano semplicemente impeccabili per tempi e spaziature. I suoi Kings sono andati a un air ball di Peja Stojakovic dalle finali, ma in città si parla ancora di quella scintilla innescata da un ragazzo della Virginia con Whit eBoy tatuato sulle nocche.
«Non è americano, non segue le stesse regole e le stesse norme che seguiamo noi e non ha la stessa chiusura mentale che abbiamo noi. Non vede le cose in bianco e nero. Non ragiona in termini di vecchio e giovane, ricco e povero. Semplicemente vede le persone come persone». Chiedete un parere su Vlade Divac a chiunque abbia avuto la fortuna di giocare con lui e molto probabilmente vi darà una risposta simile a quella data da Chris Webber ad Ahmad Rashad. L’intervista fa parte di un mini-documentario realizzato dal giornalista della NBC all'inizio della stagione 2001-02, cioè nel bel mezzo della mutazione che all’inizio degli anni duemila portò «la squadra più anonima di tutta la NBA» (parole di una rivista sportiva dell'epoca) a diventare «the greatest show on court», il più grande spettacolo mai visto in campo, secondo una copertina di Sports Illustrated del febbraio 2001.
Il video racconta una per una le storie dei componenti di quella squadra speciale, tutta fisico, personalità e intelligenza tattica. Si parla di Doug Christie, fisico da atleta olimpionico e difensore strepitoso, uno dei migliori che abbia mai visto. Si parla di Peja Stojakovic, che a Sacramento ha messo le basi per una carriera da tiratore leggendario. Si parla di Chris Webber, un ragazzo di Detroit che non ne voleva sapere di andare a vivere a Sacramento, ma che in California ha ritrovato il filo di una vita e di una carriera complicate. Indubbiamente il giocatore più forte della squadra—ma non il leader. Il leader era Vlade.
Tutto, in quei Sacramento Kings, dipendeva da lui. Nello spogliatoio era la fiamma che alimentava l’entusiasmo di una squadra inesperta, il mentore che spiegava ai compagni più giovani che le sconfitte andavano prese con filosofia perché in fin dei conti è solo un gioco, il buffone serbo che teneva alto il morale raccontando barzellette e prendendo tutti in giro («l’Eddie Murphy bianco», ha detto una volta Chris Webber). In campo la sua visione di gioco da playmaker e la sua abilità in post basso erano il perno intorno a cui girava l'attacco di Rick Adelman. In teoria le cose non dovevano andare così. Quando arrivò ai Kings dopo qualche partita in Europa per via del lockout, Divac aveva già giocato i suoi anni migliori. Invece rivitalizzò una squadra che sembrava condannata alla mediocrità, fino al capolavoro della stagione 2001-02, quando i Kings arrivarono ai playoff con il miglior record della Lega. Come molti altri in quegli anni, Vlade si scontrò contro il muro gialloviola. La squadra che 13 anni prima l'aveva accolto quando era un timido ragazzino jugoslavo e gli aveva dato la fama internazionale, gli ha anche tolto le ultime speranze di coronare una carriera strepitosa. La finale di conference del 2002, vinta dai Lakers grazie a un tiro da tre sulla sirena in gara-4 [citofonare Horry] e a un arbitraggio scandaloso in gara-6, avrebbe distrutto chiunque. Ma non Vlade. Vlade continuò a essere un giocatore illuminante e un compagno speciale. Perché per lui alla fine è sempre stato solo un gioco.
[Vlade Divac, dopo 10 anni lontano dalla NBA, è tornato ai Kings ed è ora uno dei membri più importanti della dirigenza. Così, da un giorno all’altro.]
Essere il giocatore che ha vestito la maglia di una franchigia NBA più volte nella sua storia è un riconoscimento importante. Michael Jordan è l’all-time leader per partite disputate nella storia dei Chicago Bulls, come è giusto che sia. Dirk lo è a Dallas, Reggie Miller a Indiana, Olajuwon a Houston, Stockton & Malone dominano in coppia ai Jazz, e così via. Giocatori iconici e leggendari, che si associano immediatamente a una maglia che probabilmente è anche già appesa sul soffitto del palazzo, a imperitura memoria dei tempi gloriosi che furono.
Poi ci sono i Sacramento Kings, il cui leader per partite giocate è Jason Thompson. JASON THOMPSON?!? Sì, più di Peja Stojakovic, più di Mitch Richmond, più di Chris Webber. Lui, “Mr. 519 presenze”. Peccato che non ci sia alcun passato glorioso da associare al suo nome. Anzi.
Quando è arrivato nel 2008, scelto con la 12.esima da Rider, si pensava potesse diventare “il lungo del futuro” accanto a Spencer Hawes (sic). Invece, ogni singolo anno (dal 2010 in poi) i Kings hanno cercato di scambiarlo, di relegarlo in panchina o forse tutte e due le cose. Jason Thompson ha vissuto un “Giorno della Marmotta” perenne, per sette lunghi anni.
Un nuovo allenatore, che cercava uno più forte nel suo ruolo. Nuovi compagni, arrivati per metterlo in panchina. Mille voci su mille scambi, perché la dirigenza non lo voleva più (anzi, più di una dirigenza, visto che di quelli che lo hanno scelto nel 2008 non è rimasto nessuno, nemmeno i proprietari).
Al suo posto—“starting at power forward for the Sacramento Kings”—si sono succeduti giocatori come Mikki Moore, J.J. Hickson, Chuck Hayes, Thomas Robinson, Patrick Patterson, Carl Landry (due volte), Derrick Williams, addirittura Reggie Evans e Ryan Hollins. In sette anni di NBA ha avuto sette allenatori e più di 100 compagni diversi (101 per l’esattezza).
È sopravvissuto a tutto e tutti. Non è mai stato scambiato. È sempre tornato in quintetto dopo poche partite. Per mancanza di alternative. Non per scelta. E non ha mai vinto più di 30 partite in un anno.
Come si affronta tutto questo? Lo ha spiegato lui circa un anno fa. «Cerco di fare il professionista. Mentirei se dicessi che non mi sono sentito frustrato in passato, o che non lo sono ancora. Ma quando si tratta di trovare squadre interessate a te, la NBA è una lega piccola. A volte quando sono in campo coi Kings è come se stessi facendo un provino per qualcun altro»—prima di aggiungere, a scanso di equivoci: «Non sto dicendo che non voglio essere qui, eh». Quando ha superato Stojakovic per presenze ha dichiarato: «Penso che sia un grande riconoscimento, ma non so se c’è molto da festeggiare. Per un ragazzino uscito da Rider, è una bella cosa raggiungere un traguardo del genere con un’organizzazione». Una organizzazione. Non questa organizzazione.
Nelle parole del Sacramento Bee, il quotidiano locale: «Nessuno ha giocato più partite coi Kings di Jason Thompson. Il che equivale a dire che nessuno ha subìto una tortura maggiore».