«Il piacere. Questo è il mio unico obiettivo. La vita è molto breve, e se sono parte di una lotta o di un processo politico, allora sì che provo piacere. Il giorno in cui smetterò di provarlo, sarà tutto finito».
- Sócrates Brasileiro
Incontro K. di mattina presto, nell’ennesima giornata di fuoco qui a Ribeirão Preto. L’appuntamento è al cinema Cauím, dove già alle otto un migliaio di adolescenti ha invaso la sala per l’incontro finale di un programma educativo.
«Nel nostro cinema ti pare che non ci facevamo un bar!» mi dice K. soddisfatto.
«Vedi questo bancone?» mi chiede subito dopo. «È stato costruito per arrivare giusto giusto all’altezza del gomito del Magrão» aggiunge, riferendosi ovviamente a Sócrates, «perché a lui piaceva bere così, in piedi, per poter parlare con la gente».
Il bancone del bar dà praticamente sulla strada, rua São Sebastião. K. mi dice che l’angolo in cui siamo noi ora era il «loro angolo». Da quando Sócrates ha smesso di giocare a calcio, nel 1989, questo cinema e questo bar sono diventati parte del suo quotidiano.
«Stavamo sempre qui a parlare, con gli amici, o da soli io e lui. Ma con me non parlava mai di calcio. E per due motivi. Primo, il Magrão non parlava mai di calcio. Di tutto il resto sì, ma parlare di calcio lo annoiava. Secondo, diceva che io ero stato il giocatore più scarso della storia del Brasile.» Ci mettiamo a ridere, K. per primo. Cita un articolo scritto da Sócrates su CartaCapital, in cui descrive le doti da regista cinematografico dell’amico K. Doti brillanti, a differenze di quelle mostrate in campo visto che, statistiche alla mano, K. è l’unico centravanti del Paese a non aver segnato nemmeno un gol in carriera.
Sorseggiando birra Colorado Cauím, iniziamo a parlare del programma televisivo che facevano insieme, K. da regista e Sócrates da conduttore, poi delle battaglie politiche condivise, del film che K., da quindici anni, stava girando con Sócrates, su Sócrates. Finché poi, portando il discorso sull’imminente sessantesimo compleanno dell’amico, K. mi racconta com’erano soliti festeggiarlo. E la cosa andava più o meno così.
BREVE STORIA DI UN COMPLEANNO
Il destino ha voluto che K. e il Magrão siano nati a un solo giorno di distanza, il 19 e il 20 febbraio 1954. Sócrates il 19 e K. il 20. Ma il destino non aveva previsto che al Magrão non piacesse festeggiare il proprio compleanno o, più esattamente, non andasse matto per le feste che durano appena un giorno. «E quindi, visto che si è in periodo di carnevale,» prosegue K., «anticipavamo la festa di una settimana, al 12 o 13 febbraio, in coincidenza con l’inizio del carnevale, e andavamo avanti di giorno e di notte fino ai primi di marzo!»
«Cioè facevate festa per tre settimane?» chiedo io.
«A volte anche di più» risponde lui, divertito.
Poi riattacca. «Vedi quella foto là?» mi chiede e sì, la vedo, è una gigantografia di Sócrates proprio all’ingresso del cinema, a tre, quattro metri dal bar dove siamo noi. È ritratto a petto nudo e con un braccio alzato, gli occhi, al solito, pieni di semplicità e passione.
«È stata scattata qua davanti. Dalla foto non si vede ma lui sta sul tettuccio di una macchina e il braccio alzato è un segnale» mi spiega. «Sta sulla macchina in testa al corteo del carnevale e fino a che non abbassa il braccio, il carnevale non inizia. E neanche il nostro compleanno e la festa di tutti, qua a Ribeirão, senza il suo segnale non iniziano.» Poi, per qualche istante, non dice più niente. Allora tutti e tre ci mettiamo a sorseggiare, a guardare nella direzione che porta dal cinema al Templo da Cidadania, cioè il percorso compiuto solitamente dal corteo.
«È una bella festa, ogni anno ci inventiamo una canzone da dedicare a uno di noi del gruppo. Nel 2004, quando il Magrão ha fatto cinquant’anni, è toccato a lui» aggiunge K., ma i suoi occhi sono ancora lontani, rimasti in direzione di un luogo a me invisibile, incastrato tra i suoi ricordi e l’illusione di vedere il suo amico ancora lì, su quel tettuccio, in testa al corteo di una festa che non finisce più. «E io sono molto incazzato con lui,» dice dopo un po’ «perché m’ha lasciato qua da solo, e quest’anno, alla nostra festa, nemmeno ci sarà».
K. mi racconta di quanto Sócrates fosse legato alla sua attività di medico che fino all’ultimo anno di vita—cioè prima che l’ultima moglie, ancor più che la malattia, lo rapisse agli occhi e alle attenzioni di amici e parenti—ha sempre esercitato. Era il medico personale di molti dei suoi amici, aveva avviato qui a Ribeirão il Medicine Sócrates Center, ma soprattutto era il medico di chi ne aveva bisogno. Tutte le persone che ho incontrato in questo viaggio brasiliano, la coda travolgente di un pedinamento durato più di un anno, mi hanno regalato almeno un aneddoto in cui Sócrates viene fermato per strada da qualcuno, abbandona quel che sta facendo e si dedica al fratello, allo zio, al nonno malato di quella persona. E in particolare ai giovani e ai bambini. Quando gli si diceva che un ragazzino aveva un problema, cercava sempre di trovare il tempo di andarlo a visitare, di parlarci, di essergli utile.
Aveva frequentato con grande dedizione la facoltà di medicina della USP, l’Università di San Paolo, qui a Ribeirão, la più rinomata dello Stato e forse dell’intero Paese. «Studiava come un pazzo» mi racconta M., suo amico intimo nonché compagno di squadra ai tempi del Botafogo di Ribeirão Preto. «La notte non dormiva, per studiare» prosegue, e a me tornano in mente le parole dello stesso Sócrates che, descrivendo quel periodo, diceva: «Alla facoltà di Medicina mi si è aperto un mondo e ho finalmente capito a cosa mi dedicherò nella vita».
Gli studi durano dal 1971 al 1976 e oltre a regalargli un soprannome—O Doutor da bola, "il Dottore del pallone"—che lo accompagnò per il resto della vita, allargò gli orizzonti della sua mente in maniera definitiva. In quel periodo Sócrates era passato dalle giovanili alla prima squadra del Botafogo, risultando nel 1974 il miglior giovane del campionato paulista, il massimo campionato dello Stato di San Paolo. Come poteva sostenere studi così difficili e giocare in serie A allo stesso tempo? E per tutti quegli anni. Semplice: facendo un patto.
BREVE STORIA DI UN HOBBY
«“Vengo solo alle partite” aveva detto alla società» mi racconta Paulo César Camassutti, altro suo ex compagno nel Botafogo «e la società aveva acconsentito».
«Cioè, lui non si allenava?» chiedo io.
«Lo vedevamo il giorno prima della partita. E poi in campo la domenica» risponde lui.
«E voi giocatori, come potevate accettare un caso del genere?»
«Come?» mi chiede ironicamente. «In maniera molto semplice: se vincevamo guadagnavamo il premio partita. E con Sócrates vincevamo, ecco come!»
Per quattro anni, mentre è già uno dei migliori giocatori di calcio dello Stato, alle persone che gli chiedono «cosa fai?» risponde: «Sono uno studente di Medicina». Anche a carriera finita, ricordando quegli anni, dice spesso che per lui il calcio era quello: un hobby.
Le cose cambiano negli ultimi due anni di studi, quando si mette a fare sul serio entrambe le cose. O meglio, quando inizia ad allenarsi e capisce che, tutto sommato, il calcio gli riesce con una certa facilità. Se la cosa dovesse funzionare, potrebbe fare il medico più in là, quando la carriera giungerà inesorabilmente al termine o quando si annoierà del campo. Ma nonostante la fatica dei due impegni, e una certa svogliatezza durante gli allenamenti, come ogni mito sportivo che si rispetti arriva il giorno in cui la sua consacrazione si manifesta attraverso un’epica personale. E la sua, è l’epica di un genio.
BREVE STORIA DI UN COLPO DI TACCO
Pelé salta per aria dal suo posto d’onore nella tribuna dello stadio Urbano Caldeira, dove il Santos sta ospitando il Botafogo. «Quell’uomo è un genio!» sentono esclamare da O Rey i vicini di posto, e la voce circola velocemente, attraversa orecchie e taccuini di giornalisti, e già alla sera di quella rocambolesca sconfitta casalinga del Santos, le parole di Pelé si sono intrecciate con il tessuto solenne che ricopre la leggenda.
«Eravamo sotto 2 a 0» mi racconta Paulo César, da sotto i suoi riccioletti scuri e con negli occhi già la prima luce del lampo che sta per regalarmi. «Ma nel secondo tempo prima accorciamo sul 2 a 1 e poi Sócrates, di testa, fa 2 a 2, e non ci sembra vero, figurati! Contro il Santos fuori casa. Ma non è finita qui». Ed eccolo, il lampo: «Manca poco alla fine, e il Magrão se ne va palla al piede, con un difensore appiccicato alle costole, appena entra in area il portiere esce ma lui lo scavalca con un tocco sotto. La palla finisce sul palo e gli ritorna tra i piedi. I difensori provano a intervenire, ma lui gliela nasconde con la suola e di tacco la butta dentro». Sócrates ha appena compiuto ventitré anni, e questo è il suo gol numero 53 in carriera. «Quell’uomo è un genio!» ha detto Pelé, senza sapere che quindici anni dopo quel 23 marzo 1977, il genio di cui parla diventerà il suo critico più duro.
Il legame tra Sócrates, Pelé e il Santos non inizia né finisce qui. Come migliaia di altri bambini della sua generazione, Sócrates s’innamora del calcio proprio ammirando il drible de vaca di Pelé e le magie che quell’uomo regala al pubblico con un pallone tra i piedi. Da piccolo, Sócrates, quasi costringe suo padre, Seu Raimundo—che al calcio non era minimamente interessato—, a portarlo allo stadio della città quando il Santos è ospite del Comercial o del Botafogo. Chiede al padre di comprargli la maglietta della sua squadra del cuore, il Santos appunto, e la promuove a sua divisa prediletta.
«Sono contento di essere qua, ma sono un tifoso del Santos» dirà addirittura nella sua prima conferenza stampa da giocatore del Corinthians quando, dopo il campionato stellare del ’77, la società non può far altro che lasciarlo partire per un club più grande. Sulle sue tracce in realtà era in vantaggio il San Paolo, ma grazie a una astuta manovra del presidente Matheus il Corinthians riesce ad aggiudicarselo, facendo cadere in trappola i dirigenti são-paulinhi, convocati in città per un’altra trattativa tra le due squadre, mentre lo stesso Matheus era andato di persona a prendere Sócrates a Ribeirão, per portarselo via. «Ho comprato il genio» dice Matheus. Ma neanche lui, come Pelé, sospetta di aver appena acquistato l’uomo che da lì a qualche anno gli darà battaglia.
Prima di arrivare al Corinthians, però, soffermiamoci un attimo su Seu Raimundo, il padre di Sócrates. L’uomo che, il 19 febbraio di sessant’anni fa, scelse quel nome.
BREVE STORIA DI UN NOME
Il libro ha la copertina marrone, rigida e lucida. Lo sfoglio come se fosse la copia originale della Bibbia e io un devoto o un collezionista, che poi sono due concetti molto simili. Le parole «República» e «Platão» sono dorate e in bassorilievo. Chiedo ad A. se lo posso sfogliare, e lei con un sorriso dolce mi dice di sì. Scorro le pagine e i miei occhi si soffermano ogni volta che trovo scritto Sócrates o semplicemente Sóc., com’è indicato nei dialoghi.
«Aspetta.» A. mi si avvicina e riporta il libro alla prima pagina. «Guarda» mi dice. E quel che vedo sono una dedica e una data. La data è quella del 19 febbraio 1984, ovvero il giorno in cui Sócrates compiva trent’anni. E nella dedica c’è scritto che quel libro da cui proveniva il suo nome,—la copia originale di quel libro!—ora è sua.
Seu Raimundo è stato la figura più importante della vita di Sócrates. Oltre all’amore di un figlio per il padre—Sócrates era il primo di sei fratelli maschi, di cui due chiamati Sófòcles e Sóstenes e uno che rischiò di chiamarsi addirittura Xenóphontes—il Doutor gli riconobbe sempre il merito di avergli trasmesso la passione per la lettura. E quindi per la conoscenza e per l’importanza del sapere.
Cresciuto nello stato del Cearà, Raimundo aveva frequentato appena la seconda elementare, ma tanto era bastato per individuare nella lettura la chiave di svolta della sua vita. Attraverso un percorso da autodidatta, divenne un impiegato del settore pubblico e quando il primogenito aveva sette anni, si trasferì insieme alla famiglia a Ribeirão Preto, 450 chilometri circa da San Paolo, dove grazie a una promozione ricevette un nuovo incarico.
Ed è lì, al cimitero Bom Pastor di Ribeirão, che i due oggi riposano, uno accanto all’altro.
Nonostante nel 1979 il Corinthians avesse vinto il campionato paulista e Sócrates disputato una buona annata, quel giocatore dallo stile così insolito, molto attento all’estetica del gesto, che preferisce colpire la palla di tacco invece che di piatto, non entra nel cuore della Fiel, la curva dei tifosi bianconeri.
Sarà stato per quella dichiarazione sul Santos ancor prima di vestire la maglia alvinegra, o per la richiesta implicita dei tifosi di sposare le caratteristiche tipiche dei giocatori corinthiani: la grinta, la tenacia, la durezza della lotta fino all’ultimo sangue. Ma quei tifosi non sanno che il nuovo acquisto è un appassionato dei Beatles, amante dei pittori fiamminghi, del Rinascimento italiano, delle parole rivoluzionarie di Daniel Cohn-Bendit e soprattutto un uomo che ritiene il calcio un’espressione artistica, in cui la vittoria è un dato secondario.
Sócrates soffre l’enormità di San Paolo e la pressione martellante di pubblico e stampa. «Il mio telefono squilla tutto il giorno» dice nel settembre del 1979 al giornalista di Palcar Magazine che lo va a intervistare a casa. «Se voglio andare a cena fuori devo aspettare mezzanotte, e non riesco neanche a godermi un po’ di pace con i miei figli perché ci stanno sempre tutti addosso.»
Addirittura dice che se la vita del calciatore professionista è questa, preferisce lasciar stare. Ma c’è qualcos’altro che lo disturba e non lo fa respirare, e al di là della pressione, ed è proprio l’atteggiamento di certi tifosi, che alla fine di quell’anno lo attaccano apertamente, costringendolo più di una volta a rimanere chiuso nello spogliatoio al termine di una gara. C’è chi lo ribattezza O Infermero da bola, "l’infermiere del pallone", declassandolo dalla qualifica di dottore. Ma questa è solo una tappa di un’escalation che volge al peggio, e quando il peggio arriva si materializza in un’aggressione, in un tentativo di linciaggio che, giunto a questo punto, è davvero troppo. L’annuncio del suo addio al Corinthians arriva nei primi mesi del 1980. Poi, inaspettatamente, qualcosa cambia.
BREVE STORIA DI UN'ESULTANZA
«Un nuovo Sócrates è nato» titola lo stesso Placar Magazine, per mano del suo direttore Juca Kfouri, che da questo momento in poi diventerà un caro amico del Doutor. Sócrates si è presentato alla ripresa del campionato nazionale con la barba lunga, che fino a quel momento non ha mai avuto, nonostante a volte abbia provato a farsi crescere folte basette per coprire i segni vistosi dell’acne sul viso. Il suo addio era praticamente ufficiale, ma qualcosa nella sua testa ha fatto clic, e improvvisamente tra mollare e combattere ha scelto la seconda opzione. Forse ha pensato che quella potesse essere la sfida giusta—migliorare il suo modo di giocare diventando un giocatore più duro—ed ecco che si mette sotto a lavorare sul piano atletico, ma soprattutto trova una ragione più grande per rimanere nel Corinthians, la squadra che assieme al Flamengo ha il maggior numero di tifosi, la squadra del popolo per eccellenza, la squadra che sta per diventare l’unico laboratorio di gestione partecipata nel calcio mondiale. E la motivazione si esprime nel suo nuovo gesto di esultanza dopo un gol: il pugno chiuso al cielo.
«Ecco, è il nuovo Alfonsinho» dice qualcuno, paragonandolo a chi, prima di lui, aveva festeggiato i gol in quella maniera. Ma al di là di Alfonsinho, quel che dà a Sócrates la forza di reagire si ritrova più verosimilmente in contesti che lui segue con grande interesse e assiduità, come l’esperienza della vicina Cuba o dei Tupamaros, o anche delle Black Panthers omaggiate da John Carlos e Tommie Smith sul podio olimpico di Mexico City. Insomma, quel che c’è di nuovo nella sua testa, e al centro infuocato delle sue ambizioni, è qualcosa di rivoluzionario.
Il regime militare prende il potere in Brasile nel marzo del 1964, e se inizialmente appare come un tentativo di ritorno all’ordine minacciato dalle proteste che stanno dilagando nel paese, poco più tardi assume i contorni di una vera e propria dittatura. Il triennio più sanguinoso è quello che va dal 1968 al 1970, anni in cui nel Paese si sperimentano quelle pratiche—torture, rapimenti, infiltrazioni—che cancelleranno due generazioni in America Latina. Il tutto nascosto dietro la maschera demagogica del trionfo mondiale di Messico ’70. «Se la Nazionale di Pelé avesse parlato, si fosse schierata,» avrebbe dichiarato Sócrates anni dopo «forse le cose sarebbero andate diversamente».
Nel corso degli anni Settanta l’economia brasiliana subisce un lento ma inesorabile declino—che si accompagna, peraltro, a insuccessi anche in campo calcistico—, tanto che la repressione e la censura sono costrette ad allentare la presa. Poi, all’inizio degli anni ottanta, qualcosa che supera (e di tanto!) ogni esperienza simile che l’abbia preceduta, irrompe in campo, si arrampica sugli spalti degli stadi Pacaembu e Morumbi, trasforma uno spogliatoio in un laboratorio politico, il cerchio di centrocampo nell’unico luogo del Paese in cui si vota, si fa opposizione, si trascorrono mezze giornate a decidere democraticamente il destino di un ristretto numero di cittadini brasiliani: i giocatori e i lavoratori del Sport Club Corinthians Paulista.
E questo qualcosa prenderà il nome di Democrazia corinthiana.
BREVE STORIA DI UNA RIVOLUZIONE
Waldemar Pires, eletto presidente del Corinthians nel marzo dell’81, annuncia di voler assecondare quei cambiamenti che si stanno verificando nella squadra, che vengono discussi nello spogliatoio, e per dar credito a questo intento sostituisce il direttore sportivo in carica con il sociologo Adílson Monteiro Alves, un ragazzo senza alcuna esperienza nel calcio, figlio di un dirigente del club, fervente oppositore della dittatura. Il feeling tra il nuovo arrivato e Sócrates non tarda a scattare, e le conseguenze sono dirompenti.
«Ogni cosa che riguarda la squadra da oggi in poi deve essere votata» propone il numero 8 del Corinthians: «A ciascuno, un voto».
Votano tutti, dai giocatori più influenti, a quelli che fino a quel momento sono stati ritenuti marginali nel lavoro del club, come i magazzinieri o il massaggiatore, e tutti hanno la possibilità di esprimersi. Anche il direttore sportivo conta solo come un voto, anzi è lui a portare le decisioni prese dalla squadra al presidente e al consiglio perché le ratifichino. E questo meccanismo gradualmente inizia a riguardare anche la campagna acquisti, gli investimenti del club, la ridistribuzione delle entrate economiche, le sponsorizzazioni, gli stipendi, i premi partita e l’abolizione dei ritiri prepartita. Quando la fazione conservatrice all’interno del club tenta un golpe per affossare la Democrazia corinthiana, il popolo bianconero è già saldamente un alleato dei giocatori. La rivoluzione, infatti, è già iniziata.
Come ogni cambiamento radicale, il processo vive diverse fasi, si scontra con avversari spesso enormi, e cerca di dimenarsi tra i tentacoli viscidi della stampa asservita al potere militare. Non solo: controlli da parte dei servizi segreti, spedizioni punitive della Tropa de Elite paulista. Ma quel che sta accadendo nel Corinthians è difficilmente arginabile, perché vorrebbe dire reprimere ogni tifoso, oltre che i giocatori, censurare ogni dichiarazione, oltre che manipolare le informazioni. E vorrebbe dire non considerare un fattore cruciale di questo sport: il verdetto del campo. E il campo dice: due titoli paulisti nel 1982 e nel 1983.
«Vincendo quei campionati ci siamo garantiti un futuro» si rendeva conto Sócrates. «Se avessimo perso, ci sarebbero saltati tutti addosso e ci avrebbero annientati.»
Inoltre, la Democrazia corinthiana è la spalla—e a volte il braccio—dei movimenti di protesta, delle lotte sindacali, degli scioperi di piazza, e protagonista della cultura progressista del Paese a fianco di artisti come Chico Buarque, Fagner, Rita Lee, Toquinho, Caetano Veloso, Elís Regina (deceduta proprio nell’82), Gonaguihna e Ney Matogrosso. E ha trasformato una delle più importanti squadre di calcio del mondo in una fabbrica autogestita. Con le dimissioni di Mario Travaglini, infatti, l’allenatore che per 17 mesi ha guidato il progetto democratico, la squadra elegge un rappresentante per la panchina, il giocatore e capitano Zé Maria. E questa scelta rispetta quel che sta avvenendo in città e nel Paese, con i blocchi delle produzioni nel settore auto e la rottura voluta dai sindacati dei metallurgici.
Poi, tutta questa crescita, questo fuoco divampante, viene tradito in parlamento, dove il 25 aprile 1984 la Camera boccia la proposta di ripristinare le lezioni dirette per il presidente della Repubblica. «Se la mozione non passa,» aveva dichiarato Sócrates davanti a un milione di concittadini «io me ne vado da questo Paese!». Le parole del capitano della Nazionale brasiliana non bastano a convincere i parlamentari. Il Doutor, però, ha tracciato il suo destino.
Di questa vera e propria rivoluzione, dei motivi della sua affermazione e di quelli della sua disfatta, del seguente esilio fiorentino di Sócrates e del suo ritorno in patria, dei mondiali giocati, di quelli immaginati e di tanto altro a cui il Doutor si è dedicato, non credo sia possibile parlarne qui. Almeno non oggi.
Intanto: buon compleanno, dottor Sócrates. Che la festa abbia inizio.