Quando ormai hai disormeggiato, anche se la terra è ancora a pochi flutti di distanza non è già più la tua terra: il futuro è la destinazione. Thérèse è incinta di otto mesi, è il 1984 ed è in fuga dall’Angola: l’exclave di Cabinda è divorata da una guerra intestina tra l’esercito regolare angolano e il Frente para a Libertação do Enclave.
Nel corridoio zairese che separa la regione dal resto del Paese l’instabilità generata dal conflitto perpetuo tra Mobutu Sese Seko e i ribelli è un vulcano sul punto di eruttare: Thérèse non ha ancora deciso come chiamare suo figlio, ma vuole che nasca a Marsiglia. È là che è diretta quando si imbarca su una nave della speranza, insieme al compagno Mafuila, detto “Ricky”.
Gli scossoni della navigazione accelerano la venuta al mondo del bambino di Thérèse. Ricky decide su due piedi di battezzarlo, con un meraviglioso esercizio d’antonimia, con il nome che hanno le cose che generalmente - in mare - muoiono: lo chiama fiume. Rio. Rio Antonio Mavuba.
In balìa delle onde
La storia di Rio comincia da un fazzoletto bianco, di quelli che si sventolano durante gli addii più dolorosi dei film in costume, quelli che non contemplano un ritorno. Mafuila “Ricky” Mavuba è stato un calciatore professionista in Zaire, anche di successo: ha vinto una Coppa dei Campioni d’Africa con l’AS Vita, nel 1973, e una Coppa d’Africa per Nazioni l’anno successivo. Ha anche fatto parte della spedizione della prima Nazionale proveniente dall’Africa nera a un Mondiale, quello di Germania: è stata un’esperienza entusiasmante e drammatica, per quanto non sia mai sceso in campo. L’anno successivo si è trasferito in Angola, dove ha conosciuto Thérèse.
Lo chiamavano “Le Sorcier”, lo stregone: come si legge su numerose fonti, era “specializzato” nel segnare gol olimpici, quelli direttamente dalla bandierina (anche se è difficile risalire al numero esatto). Prima di calciare dal corner, Ricky sventolava un fazzoletto bianco. Un rito, oppure un gesto - chissà - premonitore, un saluto preventivo.
Rio Mavuba imita il padre, mostrandolo al figlio...
Oggi Rio Mavuba ha trentatré anni: dopo quasi un decennio al Lille, squadra della quale è stato capitano e in cui ha giocato nello stesso ruolo e con lo stesso carisma del padre - in un certo senso onorandone la memoria, lui che è rimasto orfano quando aveva solo tredici anni - è stato messo fuori rosa da Bielsa. Allora ha scelto di tentare un’esperienza - un’altra, dopo Villarreal - all’estero, in Repubblica Ceca, dove ha firmato per lo Sparta Praga.
Per vent’anni Rio non ha avuto una cittadinanza. Sul passaporto aveva scritto “apolide”, anzi: “né en mer”, nato in mare. Nel 2004, quando è esploso con la maglia del Bordeaux e Blanc l’ha voluto fortemente convocare in Nazionale, la pratiche per il riconoscimento della cittadinanza hanno subito un’accelerazione. Lo aveva cercato anche la Repubblica Democratica del Congo, lo Stato nelle cui acque territoriali Rio è nato, anche se in Zaire non tornava da dieci anni.
In “Sonora”, il romanzo d’esordio di Hannah Lillith Assadi, figlia di un rifugiato palestinese emigrato negli Stati Uniti, c’è un passo in cui dice che «per quelli come me non c’è nulla di più divorante del desiderio di un posto da chiamare casa».
Le colpe dei padri
Il fardello e il fine ultimo di ogni figlio è quello di dover espiare le colpe e i peccati dei padri. Anche Marcel Muamba, come Ricky Mavuba, aveva contribuito al prestigio del cleptocratico Zaire di Mobutu: consigliere politico del dittatore negli anni dell’ascesa, era diventato un bersaglio sensibile con l’inasprimento delle rappresaglie ribelli della AFDL (Alliance des forces démocratiques pour la libération du Congo).
Nel 1994, messo alle strette, ha trasferito la famiglia nella casa del fratello Ilunga ed è scappato. «Mi è venuto a trovare una mattina e mi ha detto che se ne stava andando», ha raccontato Fabrice Muamba, suo figlio, ex calciatore con una carriera onesta in Premier League, stroncata da un attacco cardiaco che nel 2012 lo ha ucciso per settantotto minuti. «Gli ho chiesto dove, mi ha risposto solo che doveva andare. Gli ho detto: “Ok, allora ci vediamo quando ci vediamo”. Non avevo realizzato che stesse andando all’aeroporto».
Per cinque anni Fabrice Muamba ha vissuto in Zaire praticamente da orfano: giocava a calcio in strada finché non faceva buio e le pallottole iniziavano a sibilare nel buio. Quando Ilunga è stato assassinato per aver coperto il fratello, Fabrice e sua madre Gertrude hanno ottenuto il permesso di raggiungere Marcel a Londra (che aveva vissuto in un centro di detenzione fino a quando aveva ottenuto lo stato di rifugiato politico). Ci avrebbero impiegato due anni.
Fabrice allora parlava soltanto francese e Lingala. Non conosceva una parola di inglese e non aveva mai visto in vita sua la neve. Quella che copriva le piste di atterraggio di Heathrow il 6 dicembre del ‘99, quando è arrivato a Londra.
Nella scuola di Waltham Forest, sobborgo a nord di Londra, Fabrice ha trascorso un’adolescenza fatta di ore intere senza parlare con nessuno. «Parlavano tutti così velocemente, era tremendo. Però il calcio mi ha garantito il rispetto. Quando compariva la palla, ero io a guidare lo spettacolo. Da quando ho iniziato a giocare, non ho più avuto problemi a scuola».
Dopo il ritiro, Muamba si è guadagnato un dottorato in sports media.
Fabrice è entrato a far parte dell’Academy dell’Arsenal quando aveva quattordici anni: tre stagioni più tardi ha esordito con la prima squadra in un incontro di Carling Cup. Solo quando Wenger gli ha chiuso le porte del futuro in faccia ha deciso di abbandonare Londra e accasarsi al Birmingham City prima, al Bolton poi.
Anche Muamba, nel pieno della sua carriera, ha ricevuto la proposta di tornare nella Repubblica Democratica del Congo, indossare la maglia delle origini. I calciatori sono una categoria speciale tra i rifugiati: le loro fughe non sono per sempre, e gli inviti a tornare al luogo di partenza li trovano combattuti tra rifiuto di un passato doloroso e orgoglio della rivincita.
Fabrice ha declinato l’offerta: troppo pericoloso tornare, perché anche se Mobutu è decaduto da quasi un ventennio, l’instabilità politica si è trascinata fino a oggi. I suoi parenti vivono ancora sotto copertura. «Mi avrebbero visto come un bersaglio semplice. Mi avrebbero schernito». Come se ambire a un percorso di crescita lontano dal rischio e dalle brutalità dei conflitti fosse una colpa.
Muamba ha preferito l’Inghilterra: con l’Under-21 ha disputato da titolare la finale dell’Europeo di categoria nel 2009, persa con la Germania, e sembrava stessero per spalancarsi le porte della Nazionale maggiore. Uno dei motivi per i quali ha rifiutato la convocazione della RD Congo, ha spiegato, tutt’altro che retorico, è anche la riconoscenza che nutre verso il suo Paese adottivo. «Quando sento l’inno prima di un match penso sempre da quanto lontano vengo. Ma l’Inghilterra mi ha aiutato, e mi sento parte di loro».
Più o meno a casa
Giocare a calcio è una via preferenziale che porta all’accettazione ecumenica: uno strumento per farsi accettare, forse, o per dimostrare di non essere figli di un dio minore. La palla, per i rifugiati, è il passaporto di una Nazione eterea, equidistante dal paese di origine tanto quanto da quello in cui contingentemente ti trovi a esistere.
Anche Liban Abdi, come Rio Mavuba o Fabrice Muamba ha trovato, nel calcio una sorta di scala mobile verso la redenzione. È vissuto per quindici anni in un campo profughi in Norvegia: finché i genitori hanno acconsentito a che si trasferisse da una zia in Inghilterra, per cercare una strada lontano dalla strada e dai pericoli connaturati. Liban Abdi è due volte esule.
La sua vita da teenager consisteva nello studiare inglese in classi miste di 50 persone, tutte più grandi di lui: pakistani, indiani, somali, eritrei. Il pomeriggio: allenarsi, e cercare lavori coi quali sbarcare il lunario. Un giorno si presenta a un colloquio con due borse: all’interno di esse c’era tutta la sua vita. Gli abiti civili, in una. Le divise da calcio, nell’altra. La responsabile delle risorse umane gli chiede: «Conoscevi già l’azienda?», oppure: «Dove ti vedi tra dieci anni?».
Le risponde che non conosceva niente, e poi come si fa a immaginarsi tra dieci anni se non sai neppure cosa ti aspetta domani?
Liban Abdi è stato il primo calciatore somalo professionista a essere tesserato da una società inglese, lo Sheffield United. Lo hanno notato mentre giocava per una selezione di immigrati connazionali in tornei amatoriali, in cui se vincevi ti portavi a casa le venti sterline dell’avversario. Quando ha sostenuto il provino si è trovato in campo con altri cinquanta ragazzi tra i dodici e i diciotto anni: credeva fosse un trial concepito esclusivamente per lui, invece era la parte conclusiva di un progetto contro il razzismo nel calcio. «Ho lasciato la mia vita per questo?», ricorda di essersi chiesto. Per far colpo si era presentato con un paio di scarpe da calcio fake e con la maglia dell’Inter. Nello spogliatoio nessuno gli aveva rivolto parola.
Senza aver disputato neppure una partita in prima squadra a Sheffield, Liban è stato risucchiato da un vortice di prestiti assurdi: Ungheria, Portogallo, Bulgaria e Turchia prima di firmare, dopo sei mesi da svincolato, un contratto con l’Haugesund, in Norvegia. In un certo senso, come si trattasse di un ritorno a casa.
C’è un aspetto, però, che abbiamo imparato a conoscere molto bene, negli ultimi tempi, sulle modalità brutali con cui chi ospita si trova a relazionarsi con chiè ospitato, quando si parla di rifugiati: il disprezzo. Neanche i calciatori ne sono immuni. Meno abituale, invece, è imbattersi in quella che potrebbe essere considerata come una sorta di invidia. Saido Berahino, ad esempio, ha abbandonato il Burundi, per la mia generazione la forma più sinonimica del concetto di Guerra Etnica, quando è rimasto orfano.
«Non sono l’unico ad aver perso il padre nella guerra civile. Migliaia di ragazzini ci sono passati. Fa male. Penso a quello che ha fatto per me, e allora mi dico che devo per forza pensare a un futuro più brillante. Mi ha lasciato solo, e ora devo vivere per lui, riempire il vuoto che ha lasciato nella famiglia. Con la sua assenza devo farmi carico io di tutta la famiglia».
Il suo punto di vista sull’intero spettro della questione rifugiati nel calcio è molto lucido e onesto: «Mi scoccia ammetterlo, ma capisco la polemica della controparte: i calciatori nati in Inghilterra possono pensare che abbia avuto una chance in più di loro per vestire la maglia della Nazionale solo in virtù della storia da cui provengo». È una tesi, quella di Berahino, che non trova riscontro - ovviamente - in nessuna dichiarazione apertamente rilasciata dai suoi colleghi. Ma forse è l’esplicitazione di una percezione, di una sensazione che da insider può aver avvertito, più o meno paranoicamente, in maniera vivida.
Si può invidiare un rifugiato? Le (poche, anche se ci fossero davvero) facilitazioni che ha incontrato sul suo percorso?
Un gol con l’U-21 inglese.
«Davvero, io la capisco la loro frustrazione. Ma nella mia vita ho imparato a non perdere nessun treno, ho dovuto abbandonare la mia terra e la mia famiglia. Però non si sceglie di essere rifugiati».
Se c’è qualcosa che si sceglie, quello sì, è la maniera di porsi. Che inevitabilmente influenza la maniera in cui si viene percepiti.
Nell’immaginario collettivo dei tifosi inglesi, il Berahino giocatore-fuori-dal-campo è essenzialmente arrogante. È stato sospeso, ai tempi dello Stoke, per aver assunto droghe. Una volta ha guidato per 120 miglia dopo aver inalato gas esilarante, filmandosi. Due anni fa, quando il West Brom ha rifiutato il suo trasferimento al Tottenham, ha ingaggiato una guerra legale con la proprietà del WBA. Ha abbandonato il ritiro della squadra a bordo di un jet privato, e i media gli si sono scagliati contro condannando il comportamento stridente con la crisi dei rifugiati in corso, come se la scintillanza della sua vita attuale e il passato non potessero convivere. Come sottolinea in maniera efficace Marina Hyde in un pezzo sul The Guardian ai tempi della querelle, «non si può chiedere ai rifugiati una riconoscenza ai limiti del servilismo - un tipo performativo di ricordo. Sarebbe, dichiaratamente, la negazione del diritto di essere come chiunque altro».
Saido Berahino, al pari di molti calciatori cresciuti come rifugiati, non è mai tornato nel luogo che gli ha dato i natali. «Mi dicono tutti che non è ancora il momento giusto, per me, per tornare in Burundi. Hanno tutti paura del mio desiderio di tornare. Non vogliono che mi succeda niente».
Se l’istinto di protezione, e di autoconservazione, è il primo movente per la fuga tempestiva, l’immagine di un ragazzo che gioca a pallone al sicuro è la prima evocativa affermazione di una nuova, raggiunta serenità. Il trionfo che segue le costrizioni. Alphonso Davies ha ricevuto la cittadinanza canadese lo scorso giugno. Insieme al passaporto, la prima convocazione con la Nazionale maggiore, con la quale - più giovane esordiente della storia della Nazionale - ha partecipato alla Gold Cup negli Stati Uniti.
Alphonso è nato nel novembre del 2000 nel campo rifugiati di Buduburam, a ovest di Accra, in Ghana, dove ha vissuto per cinque anni: i genitori erano fuggiti da Monrovia, in Liberia, nel pieno della guerra civile. «L’unico modo per sopravvivere in quel contesto era imbracciare un’arma. Ma non era il modo in cui volevamo vivere», spiega il padre in un bel documentario realizzato dai Vancouver Whitecaps, la squadra che l’ha tesserato e per la quale Alphonso ha esordito un anno fa, a 15 anni, infrangendo il record di Freddy Adu come più giovane calciatore nella storia della MLS.
Vivere liberi
«Nessuno abbandona la propria casa, a meno che / la propria casa non siano le fauci di uno squalo», recita un verso di “Home”, una poesia di Warsan Shire. Per Nadia Nadim, quello squalo dalla pelle coriacea aveva due file acuminate di incisivi: il fondamentalismo culturale, estremamente sessista, dei talebani e il semplice fatto di essere una ragazza innamorata del calcio nell’Afghanistan dei primi anni Duemila. Due volte più complicato.
«Mio padre andava pazzo per il pallone, e ha cercato di trasmettere la sua passione alle sue cinque figlie». Nel 2000, il padre viene giustiziato dai talebani. «Siamo rimaste sole - sei donne. Non avevamo futuro. Niente scuola, niente lavoro. Non potevamo neppure scendere in strada, senza un uomo con noi. Stava andando tutto in rovina».
Hamida, la madre di Nadia, si affida a un trafficante di esseri umani: fuggono nel buio, l’unico bagaglio i vestiti che indossano. Attraversano il confine tra Afghanistan e Pakistan in un minivan. Hanno passaporti falsi e un piano lucido, quello di raggiungere l’Inghilterra, dove già vivono alcuni parenti. Si ritrovano invece in un piccolo paese della Danimarca. «Non so cosa sia successo. So solo che eravamo contente, perché sapevamo di essere salve».
Un’altra frase di Warsan Shire, che compare in “Insegnare a mia madre come nascere”, recita: «Sono il peccato della memoria, e l’assenza della stessa». Nel campo profughi Nadia gioca spesso a pallone coi suoi coetanei. «Anche se eravamo in Danimarca, dove le donne fanno tutto quello che fanno gli uomini, mi sentivo ancora come se stessi facendo qualcosa di sbagliato, nel giocare a pallone. Come se stessi infrangendo qualche legge».
All’interno del campo profughi viene notata da alcuni osservatori, che si propongono di pagarle i biglietti dell’autobus per raggiungere il centro d’allenamento. Nel cuore dello Jutland, ad Aarhus, Nadia gioca a calcio e si iscrive anche alla Facoltà di Medicina, dalla quale sta quasi per laurearsi. Il percorso attraverso il quale diventa cittadina danese, il suo personale ius culturae, passa anche per il campo. Sulla tabula rasa delle contingenze, come dopo aver passato una mano sulla sabbia, Nadia ha incontrato l’infinitamente possibile, e ha iniziato a scrivere da sola la propria storia. Negli ultimi tre anni ha giocato negli States, l’ultima stagione con uno dei club all’avanguardia per quanto riguarda il soccer femminile, i Portland Thornes.
Qualche giorno fa ha segnato, di testa, il suo fondamentale preferito e più efficace, una rete importantissima per la sua Danimarca nell’Europeo, la rete con la quale hanno pareggiato una partita poi finita in trionfo contro le più accreditate tedesche, promesse alla vittoria finale.
Le parabole di Nadia, come quelle di Rio, Liban, Fabrice e Alphonso, non raccontano soltanto la privazione della possibilità di crescere nel posto in cui si è nati. Sono una testimonianza eloquente di come attraverso il calcio ci si possa costruire un’identità del tutto nuova dopo essere stati privati di quella di origine.
Di come il calcio, nonostante tutto, possa svolgere - e in alcuni casi svolga effettivamente - ancora una funzione sociale. Di come un campo con bandierine, porte e aree di rigore, a volte possa diventare un porto sicuro, dopo una notte, o più notti, passate in balìa delle onde.