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Capitan America
29 nov 2013
Peyton Manning: forse il migliore di sempre, quasi certamente uno dei tre migliori quarterback della storia del football, sicuramente l'atleta che meglio incarna "lo spirito americano".
(articolo)
17 min
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Peyton Manning senza il braccio destro è come Picasso senza pittura, una Ferrari senza benzina. Peyton Manning senza il braccio destro è come Sinatra col raffreddore.

Il 23 maggio 2011 Peyton Manning ha scoperto di non avere più il braccio destro. O meglio, era ancora lì, ben saldo alla spalla, ma non era più lo stesso. Non era più lo stesso braccio che aveva distribuito 399 touchdown in quattordici stagioni NFL, tutte con gli Indianapolis Colts. Non era più lo stesso braccio che aveva lanciato per più di 4,000 yard in dodici di quelle stagioni. Non era più lo stesso braccio con cui aveva vinto quattro volte il titolo di MVP della stagione regolare (un record). Non era più, quello, il braccio destro del quarterback più forte di tutti e probabilmente di tutti i tempi.

Quel giorno, al termine di un intervento per sistemare un’ernia cervicale, Peyton Manning si è svegliato dall’anestesia e quando ha cercato di alzarsi dal letto poggiando il peso dei suoi 104 chili sul suo braccio destro molto semplicemente si è ritrovato col sedere sul materasso. «Era come... era come se il muscolo del tricipite fosse sparito», ha ricordato di recente.

I dottori gli spiegarono che l’ernia aveva causato l’irritazione di un nervo le cui terminazioni finivano nel tricipite brachiale e ci sarebbe voluto del tempo—quanto non lo potevano prevedere con esattezza—prima che il muscolo tornasse a lavorare a dovere.

Manning aveva 35 anni, centinaia di milioni di dollari e una coppia di gemelli in arrivo, i suoi primi figli.

Nessuno lo avrebbe potuto biasimare se si fosse ritirato in quel momento, un giorno qualunque di quelle settimane in cui riusciva a stento a impugnare una palla ovale. La sua carriera restava colossale e indiscutibile anche a dispetto dell’unico Super Bowl vinto nel 2007. La sola cosa su cui, volendo lambiccare, si poteva discutere era la posizione da assegnargli nella lista dei cinque migliori quarterback di sempre.

Peyton Manning ovviamente ha deciso di non ritirarsi e di provare invece a rieducare l’arto da zero. E non perché volesse dimostrare qualcosa agli altri o a se stesso, tentare a tutti i costi di vincere un altro titolo o fugare ogni dubbio sul fatto che fosse il più forte mai esistito.Ha deciso di non ritirarsi semplicemente perché il football è la sua principale ragione di essere da quando suo padre Archie, anch’egli un buon quarterback negli anni ’70, gli ha insegnato a ricevere uno snap. Peyton aveva tre anni e una palla da football era grande quasi quanto il suo busto.

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Nell’estate 2011, Manning, che in quattordici stagioni letteralmente non aveva saltato una singola partita per infortunio, si è ritrovato a doversi allenare in un grosso garage di Denver per nascondere il suo problema da sguardi indiscreti. Il garage in questione era quello interrato sotto lo stadio dei Colorado Rockies, la squadra di baseball per cui Todd Helton—un amico fin dai tempi della Tennessee University—ha giocato prima base fino a pochi mesi fa.

Per giorni, mentre il resto della NFL era alle prese con il lockout, i due si sono dati appuntamento lì dentro. Il programma di quelle giornate era semplice: Peyton lanciava, lanciava e lanciava. Il primo tentativo è stato quasi tragicomico: Helton si è portato a 10 yard da Manning, in posizione per ricevere l’ovale che invece si è afflosciato a mezz’aria dopo nemmeno cinque passi. Non riuscendo a credere ai suoi occhi Todd disse all’amico: «Dai basta scherzare». Peyton replicò laconicamente: «Magari fosse uno scherzo».

In quello stesso periodo Manning è volato più volte in Europa per consultare esperti in materia, ha sperimentato terapie alternative di ogni genere, sollevato pesi sei ore al giorno; le ha provate tutte per ridare tono al tricipite e tornare subito a guidare l’attacco dei Colts che intanto avevano prolungato il suo contratto di altri cinque anni. Ad agosto 2011 era però ormai chiaro che non solo non ce l’avrebbe fatta in tempo per la gara d’esordio contro gli Houston Texans ma che l’intera annata era a rischio. Sono stati ancora una volta i medici a dargli la cattiva notizia comunicandogli la necessità di un’altra operazione, questa volta alla schiena, per risolvere del tutto i problemi di cervicale. Si trattava di un intervento delicato che comportava la fusione di due vertebre in una con tempi di recupero molto lunghi.

La stagione 2011 di Manning è finita senza neppure cominciare e così quella dei Colts che, guidati da una serie di controfigure imbarazzanti, hanno chiuso il 2011 con un record di 2 vittorie e 14 sconfitte, il peggiore degli ultimi venti anni. La “buona” notizia per i Colts era che, proprio grazie a quel disastro, Indianapolis si ritrovava tra le mani la prima scelta del draft nell’anno in cui Andrew Luck aveva deciso di passare tra i pro. Il giudizio su Luck era unanime: il quarterback di college più promettente da quando, nel 1998, un certo Peyton Manning aveva messo piede nella NFL.

A quel punto Indianapolis doveva scegliere tra un trentaseienne reduce da un anno di stop e un ventitreenne sano e potenzialmente fortissimo. Per quanto sofferta la decisione è stata inevitabile e il 26 aprile 2012 i Colts hanno usato la loro prima scelta per chiamare la promessa di Stanford. Un mese prima, il 7 marzo, avevano tagliato Manning dalla loro rosa, facendo di lui—come ha scritto Judy Battista: «il più grande e surreale free agent della storia del football».

Seppure nel frattempo il braccio aveva recuperato gran parte della sua forza, le leggende che circolavano sul suo conto avevano ormai attraversato tutti i corridoi della NFL e nessuno era disposto a sobbarcarsi a scatola chiusa gli oneri del contratto di Manning. E così, al pari di un debuttante, Peyton ha organizzato un giro di provini presso alcune squadre—tra cui San Francisco 49ers, Denver Broncos, Tennesse Titans e alcune altre in cui gli sarebbe piaciuto giocare—per dimostrare di essere tornato sano. Non durò molto, il giro.

Il primo test, il 15 marzo 2012, è stato con i 49ers che però non se la sono sentita di scaricare Alex Smith, reduce dalla prima stagione convincente in carriera. Il secondo si è svolto il 20 marzo a Denver, non lontano dal “famoso” garage dove l’estate prima erano volati i cosiddetti “piccioni morti”. In una conferenza stampa organizzata già quello stesso pomeriggio, Peyton Manning sedeva al fianco di John Elway—il quarterback più importante della storia dei Broncos e attuale dirigente di Denver—il quale a un certo punto ha silenziato in questo modo i dubbi dei giornalisti presenti: «Non so quale fosse il 100% di Peyton prima delle operazioni ma posso garantirvi che, per quello che ho visto, questo Peyton Manning può tornare campione del mondo».

Per 96 milioni di ragioni spalmate su cinque anni, Manning ha finito quindi col portare il suo talento tra le montagne rocciose. Ma questa, per il momento, è ancora un’altra storia.

Il primo anno di Peyton Manning ai Broncos.

Peyton Williams Manning—figlio di Elisha Archibald, fratello maggiore di Elisha Nelson e minore di Cooper Archibald—è nato a New Orleans il 24 marzo 1976. Secondo alcuni il cognome Manning discende dal norvegese antico “manningi” che significa uomini valorosi, secondo altri da una dinastia nobile sassone, secondo altri ancora dalla città di Mannheim nell’attuale Baden-Württemberg. Il cognome O’Mannin tuttavia si ritrova anche all’interno di cronache medievali irlandesi e dal 1700 compare pure nell’anagrafe inglese. Da qualunque parte dell’Europa siano arrivati, quello che si sa per certo è che questi particolari Manning a un certo punto dell’800 si sono accasati nel Missisippi e da lì hanno prodotto una dinastia che nel tempo ha abbracciato due fedi, la Chiesa Presbiteriana e il football, e un partito, quello Repubblicano, a cui versano un obolo ogni anno.

Il primo Manning a mettere piede nella NFL, periodo 1971-1984, è stato papà Archie—numero 8 dei New Orleans Saints, due Pro-Bowl, Hall of Fame dal 2001—anche talvolta noto come «the finest quarterback never to play a Playoff game». Il secondo avrebbe dovuto essere Cooper, un talento da ricevitore esplosivo fermato da problemi alla spina dorsale già alla University of Missisipi. Accantonato il football, Cooper ha ora un impiego di alto livello nel settore dell’energia e 15 milioni di motivi per non prendersela troppo quando sui giornali ancora lo definiscono «the “lost” Manning». Saltato Cooper, il secondo Manning tra i professionisti è stato quindi appunto Peyton a cui è seguito Eli, il fratellino dell’81 che gioca quarterback nei New York Giants. Per un’ironia della sorte, Eli ha vinto due Super Bowl negli ultimi cinque anni, entrambi battendo i Patriots di Tom Brady, l’arcirivale del fratellone e l’unico a poter mettere in discussione il diritto acquisito da Peyton a essere considerato il miglior quarterback dei ’00 (1).

Pur pendendo a favore di Eli, il bilancino dei trofei di squadra non è comunque sufficiente a mettere in dubbio chi sia il Manning alpha. Come ha scritto recentemente Harvey Araton sul NyTimes: «Denver sprofonderà sotto il livello del mare prima che un critico sano di mente riesca a sostenere con argomenti convincenti che Eli sia nella stessa “conversazione” di Peyton. [...] Peyton è sempre stato quello con più talento, più presenza, quello che richiede la tua attenzione non appena mette piede sul campo».

La cosa più americana mai filmata.

La “predominante Peyton” è però riconosciuta più all’esterno che all’interno del Clan Manning. Essendo fondamentalmente della gente del sud di molta pratica e poca speculazione, i Manning non sembrano dare particolare peso alle gerarchie dei media e ostentano mutuo rispetto e pari considerazione reciproca, tanto che, ogni estate, tutti insieme (Cooper compreso) organizzano un workshop della palla ovale per spiegare a giovani del liceo e del college come si “legge” tra le righe di un playbook. Si chiama “Manning Passing Academy”, dura quattro giorni, si tiene a Thibodaux in Louisiana e, oltre ai Manning, la lista dei coach include numerose stelle passate e presenti della NFL. I partecipanti dormono in campeggio, le torte alle mele sono disposte sotto i gazebo e vengono supervisionate personalmente da Ashley Manning, la moglie di Peyton, figlia di ex vicini di casa conosciuta pochi giorni prima della partenza del giovane quarterback per il college e sposata a Memphis il giorno di San Patrizio 2001.

Esiste un’evidente contraddizione tra il modo in cui Manning conduce la sua esistenza fuori da un campo di football e il modo in cui si comporta e viene percepito al suo interno. L’aneddotica sulla sua vita privata è costipata di storie che lo presentano come un “average Joe”, ancora più average della media. A quanto pare le poche canzoni che conosce sono quelle di Beach Boys, Elvis e Céline Dion perché le ascoltava il padre nel wagon di famiglia nonché le stesse che in seguito—primi 2000, quando l’iPod era già in giro da un po’—lui avrebbe continuato ad ascoltare su un walkman grazie a dei cd “compilati” dalla futura moglie. Fino ai 25 anni—raccontava nel 1999 un pezzo di Sports Illustrated—infilate in una busta di plastica nel suo armadio teneva delle Polaroid su cui erano riprodotti degli abbinamenti di vestiti preparati per lui dalla madre. Era il promemoria visivo che aveva escogitato per evitare accostamenti troppo imbarazzanti. Su inettitudini come queste e grazie a una buona dose di autoironia e a un discreto talento comico, Manning ha anche costruito la sua fortuna come testimonial pubblicitario, uno dei più ricercati nel mercato americano proprio perché questi aspetti della sua personalità lo rendono perfetto per intercettare il target dei maschi (bianchi) medi. La pubblicità-tipo con Peyton Manning di solito fa leva su uno o più cortocircuiti tra gli impacci dell’uomo e le abilità dell’atleta come nel caso della serie di spot che ha girato per Mastercard.

Peyton l’autoironico.

Nell’attacco di un bellissimo pezzo che gli ha dedicato su Grantland, Brian Phillips ha colto appieno il paradosso tra la straordinarietà del Manning giocatore e la straordinaria ordinarietà del Manning persona. Phillips scrive: «Osservi le sue statistiche e non puoi fare a meno di utilizzare un vocabolario minaccioso. Peyton Manning fa a pezzi i Philadelphia Eagles con 327 yard e quattro touchdown in tre quarti. Peyton Manning stritola l’NFL con 1,470 yard e il 75% di passaggi completati nel mese di settembre. Peyton Manning estingue i Ravens con 7 touchdown in una partita. Peyton Manning schianta. Peyton Manning brucia. Peyton Manning annichilisce. Ed eppure... avete mai visto un giocatore di football meno credibile a schiantare, bruciare, annichilire? [...] Dubito abbia mai fatto a pezzi qualcosa in vita sua (eccetto forse una cartaccia). Sul campo Manning è un Gengis Khan portato in scena da un professore di trigonometria di terza liceo. Il linguaggio che meglio descrive i risultati che ha raggiunto è anche quello che meno rappresenta il suo stile».

È lui stesso che da sempre coltiva questa immagine sotto le righe di sé, il primo a fare spallucce se qualcuno lo definisce un talento, preferendo che gli venga riconosciuta la dedizione piuttosto che il genio.

Sketch tratto dagli ESPYs del 2009.

A dodici anni esortava i compagni della linea offensiva, bambini come lui, a bloccare più duro in un’età in cui l’approccio al football è puramente ludico. A diciassette passava le serate a decostruire filmati NFL per imparare a muoversi come un quarterback professionista con sei anni di anticipo sulla tabella di marcia della sua carriera. A diciannove si è presentato al college un mese prima dell’inizio dell’anno per allenarsi coi senior. A ventitré, fresco di prima scelta, ha imparato a memoria l’intero playbook dei Colts in una settimana (riuscirci in un mese sarebbe considerato un risultato eccezionale). A trentuno invece—nemmeno quaranta ore dopo il Super Bowl vinto a Miami e mentre i compagni gozzovigliavano a South Beach—ha chiesto di attrezzare una sala dell’albergo dove alloggiavano i Colts con degli schermi per iniziare a studiare gli avversari della stagione successiva.

Manning è evidentemente un “nerd del football”. Non è diventato uno dei quarterback più forti di sempre solo in virtù di stratosferiche qualità innate, ma soprattutto in virtù della profonda comprensione di questo sport che si è costruito in anni e anni di studio metodico. Quando arrivò in NFL la prima cosa che tutti notarono fu che, a differenza degli altri quarterback, al primo anno da rookie sembrava non aver bisogno di alcun periodo di adattamento, sapeva già esattamente cosa fare, come comportarsi, come regolare il suo gioco alla velocità doppia a cui viaggiano le cose tra i pro. Era questo ovviamente il frutto delle serate da liceale passate a studiare i “grandi”. A un certo punto del suo secondo anno, nel 1999, il leggendario coach John Madden dichiarò in proposito: «Ho sempre pensato che un quarterback non potesse avere davvero idea di quello che stava facendo fino al quinto anno da professionista. La prima volta che ho visto giocare Manning ho capito subito che evidentemente mi sbagliavo».

Le sue impressionanti statistiche—tra cui nel 2004 la migliore stagione di sempre per un quarterback, aggregando tutti gli indicatori numerici di rendimento—non sono frutto (non soltanto, perlomeno) di un braccio chirurgico e potente. Manning non è mai stato un big arm come Brett Favre o Dan Marino prima di lui, la sua vera forza risiede nella sua capacità di leggere e conoscere prima e meglio di chiunque altro le traiettorie dei suoi ricevitori e le strategie difensive dei suoi avversari. Quello in cui Manning è imbattibile e rivaleggia col solo Joe Montana, è la velocità con cui prende le decisioni giuste prima che le difese colgano le sue intenzioni. È per l’intima conoscenza dei movimenti dei compagni, dei meccanismi delle squadre in cui gioca e degli schemi difensivi di quelle che affronta, che può permettersi di giocare la sua famosa no-huddle offense, mantenendo così sempre altissimi i ritmi dell’attacco delle sue squadre. È grazie al fatto che il suo football è fatto di competenza e non di improvvisazione, di sapere e non d’intuizione se—a 37 anni e con quattro operazioni alle spalle—Manning sta giocando quest’anno, in questa specie di seconda vita ai Broncos, una delle migliori stagioni della sua carriera ed è in questo momento, a meno di tracolli negli ultimi incontri, il più solido candidato al titolo di MVP della regular season.

Essendo in missione permanente per raggiungere l’eccellenza in ogni dettaglio del suo sport, la convivenza con Manning può ovviamente diventare un problema per chi condivide la sua ossessione solo in parte, come dimostrano queste parole di Adam Meadows, suo compagno ai Colts dal ’98 al 2003: «Peyton vive, mangia, respira, mastica football. È una macchina. È l’unica cosa che gli importa. Penso che si aspetti che tutti approccino la questione come lui, il che non è sempre una cosa positiva». Quando vuole Manning sa essere tremendamente disumano se qualcuno lo delude e lo sa bene proprio lo stesso Meadows, il quale, al termine di una sconfitta con i Patriots in cui aveva giocato male, si è sentito rivolgere queste parole dal suo quarterback: «Ti paghiamo per fare di meglio». Evidentemente il fatto che Meadows fosse reduce da una polmonite per cui aveva perso sei chili in una settimana e che si fosse sacrificato solo per mancanza di sostituti alla sua altezza, non erano attenuanti da prendere in considerazione per Manning.

Un altro degli episodi più famigerati della carriera di Peyton Manning si è svolto a bordo campo in occasione di una gara interna contro i St. Louis Rams quando, al termine di un three-and-out, Peyton si è alzato dalla panchina dove siedono i quarterback per andare a litigare a muso duro con Jeff Saturday—il centro con cui ha giocato per tutte le quattordici stagioni nei Colts nonché uno dei suoi migliori amici in squadra—reo di avergli rinfacciato che sarebbe stato meglio far correre la palla invece di lanciare. Nel video che ricostruisce l’accaduto si vede Manning paonazzo con un bicchiere della Gatorade in mano andare da Saturday, un gigante che pesa almeno cinquanta chili più di lui, urlando: «Hey, I fucking call the plays! Aight?» Nel parapiglia che segue Manning compie l’azzardo di rinfacciare ai suoi compagni della offensive line il fatto di aver bloccato in modo troppo morbido, il che a dodici anni può anche passare, ma tra i professionisti rappresenta una grave violazione di una delle regole non scritte più sacre del football: il patto di reciproca fiducia e mutuo rispetto tra quarterback e uomini di linea. Più avanti nel video si vede Manning circondato da uomini enormi con le braccia del diametro di una coscia tra cui spicca Tarik Glenn, un tackle tre volte Pro Bowl di 150 chili, che afferra Manning e lo spinge via urlandogli: «Go sit down! Go sit down! Don’t tell us how to block».

La rabbia di Peyton.

Manning è uno dei pochi quarterback nella storia della NFL che si sono potuti permettere una scenata del genere in pubblico. Il 99% dei suoi colleghi dopo un momento simile avrebbe perso per sempre qualunque tipo di credito presso i suoi OL, venendo lasciato alla mercé dei blitz settimana dopo settimana (questa dinamica è una tra le poche cose del football raccontate bene in Ogni maledetta domenica). Non Manning.

L’ossessione e il perfezionismo che lo spingono oltre il limite in situazioni del genere sono proprio gli attributi che gli consentono di uscirne più rispettato di prima e non di meno. Stephen McKinney che si è “inginocchiato” davanti a Manning per tre anni, nella stessa linea che schierava Glenn, Meadows e Saturday, una volta a proposito del suo ex compagno di squadra ha dichiarato: «Adoravo il fatto che il lunedì si fermasse all’allenamento fino alle 10 di sera per studiare i video e confrontarsi con gli allenatori. Sono un padre e un marito. Non posso tornare a casa e guardare i video per due ore. E neppure voglio. Dieci ore al giorno sono abbastanza. Peyton a volte era un robot e a volte era insopportabile. Ma ero felice che ci tenesse così tanto perché, dopo essermene andato dai Colts, ho visto l’altra faccia della medaglia. Ho preso botte per quarterback che erano gli ultimi ad arrivare al mattino e i primi ad andarsene alla sera. E indovinate un po’? Perdevamo, facevamo schifo».

Qualcosa di simile l’ha detto anche Meadows, quello della polmonite, nel 2010: «Sotto di sei, un minuto e mezzo da giocare e palla sulle nostre 6 yard? L’unico con cui voglio giocare una situazione del genere è il numero 18».

(1).

Qualcuno avrà da ridire ma chi scrive non ritiene particolarmente significativa la recente sconfitta contro i Patriots, sia per le circostanze in cui è maturata sia perché una partita sbagliata ogni dieci resta comunque una media spettacolare. Chi scrive infine non ritiene così degno di nota il fatto che, aggiornato alla partita di domenica, il tabellino della sfida tra le squadre di Tom Brady e quelle di Peyton Manning reciti 10 a 4 per il quarterback dei Patriots, semplicemente perché, sempre chi scrive, ritiene che almeno nell’80% dei casi Brady avesse a disposizione la squadra e soprattutto la difesa migliore. Chi scrive infine ritiene, di sicuro faziosamente, che molto semplicemente Manning sia un quarterback migliore di Brady. E se il lettore non vorrà credere al giudizio di chi scrive, magari vorrà credere a Brady stesso, il quale una volta ha dichiarato: «Per me è il più grande di tutti i tempi, posso solo imparare dalla sua volontà di essere il migliore».

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