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Cartoline da Rio
22 ago 2016
Cosa scriveremo sui libri di storia dell'atletica dopo Rio 2016.
(articolo)
22 min
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Gare organizzate a orari impossibili; Russia esclusa con una decisione che ha colpito indistintamente dopati conclamati e gente con la fedina pulita; pubblico scarso per quantità e qualità; gare di marcia con l’arrivo fuori dallo stadio; giudici in grado di cambiare l’ordine d’arrivo di una gara anche due o tre volte nel giro di poche ore. Eppure, nonostante tutte queste ombre, anche a Rio la “regina degli sport” ha raccolto momenti indimenticabili.

Il giamaicano Usain Bolt, sempre meno marziano irraggiungibile e sempre più uomo in fuga dal nuovo che avanza, ha salutato i cinque cerchi vincendo tutto quello che c’era da vincere. Tra le donne la sua connazionale Elaine Thompson ha vinto 100 e 200 metri. L’americano Ashton Eaton ha bissato l’oro del decathlon, confermando di essere il miglior atleta del mondo. La sudafricana Caster Semenya, sette anni dopo la vittoria ai Mondiali di Pechino, ha vinto anche le Olimpiadi. Un parziale risarcimento per gli insulti che ricevette nel 2009, quando aveva ancora diciott’anni e molti misero in dubbio che fosse una donna. L’ottocentista David Rudisha e il triplista Christian Taylor hanno confermato i loro titoli olimpici; il britannico Mo Farah ha bissato la doppietta 5.000-10.000 come fece, quarant’anni fa, il finlandese Lasse Viren. Ma tanti altri nomi e momenti hanno conquistato uno spazio nella storia della trentunesima Olimpiade. Eccone alcuni.

Una corona per Wayde Van Niekerk

Stavolta la gara copertina di questi Giochi Olimpici non l’ha vinta Usain Bolt. A rubargli i riflettori è stato un sudafricano di 24 anni, Wayde Van Niekerk: il primo africano nella storia a battere il record mondiale di una gara di lunghezza inferiore agli 800 metri. Van Niekerk è arrivato a Rio de Janeiro con al collo la medaglia d’oro dei Mondiali di Pechino. Quel giorno, dopo la vittoria, collassò al suolo per la stanchezza e festeggiò in ospedale.

Come un anno fa, anche stavolta i suoi avversari più pericolosi erano il grenadino Kirani James, campione olimpico di Londra 2012, e l’americano LaShawn Merritt, oro olimpico 2008. Mentre Merritt e James prendevano posto in quinta e sesta corsia, a lui è toccata l’ottava: significa correre senza vedere i propri avversari finché questi non passano in vantaggio. Ne è uscita la gara più veloce di tutti i tempi: lui ha vinto in 43’’03, battendo il record del mondo di Michael Johnson che risaliva a 17 anni fa. L’americano si è trovato a commentare l’evento in diretta sulla Bbc ed era quasi senza parole. Questo articolo di Pierre-Jean Vazel per il sito Track-Stats.com analizza nel dettaglio la gara di Van Niekerk. L’africano ha forzato oltre ogni immaginazione il passaggio ai 300 metri, che ha percorso in 31 secondi esatti. Vale a dire quattro decimi di quanto fatto l’anno scorso. E già quel 31’’4 a Pechino era sembrato esagerato: nessuno, prima di allora, aveva mai fatto qualcosa di simile. Sul rettilineo è riuscito a limitare il rallentamento, correndo l’ultimo quarto di gara in dodici secondi netti. Proprio in dirittura d’arrivo ha staccato i suoi due inseguitori, James e Merritt: scottati dall’esperienza dell’anno scorso, quando entrambi l’avevano lasciato scappare e poi non erano più riusciti a riprenderlo, stavolta hanno forzato i passaggi per non dargli spazio. Merritt, addirittura, è passato a metà gara un decimo più veloce di Van Niekerk: 20’’4, mai nessuno così forte a quanto si sappia. Ma ne hanno pagato dazio, visto che già ai 300 erano alle sue spalle e hanno continuato a perdere terreno fino all’arrivo. Non sono andati male: James è arrivato secondo in 43’’76, Merritt ha conquistato il bronzo chiudendo in 43’’85. Gli altri cinque concorrenti hanno concluso tutti sotto i 45 secondi, per la nuova gara più veloce di tutti i tempi.

Il muro dei 43 secondi potrebbe avere le ore contate: Van Niekerk sembra avere ancora margini di miglioramento e pare in grado di poter far compiere alla specialità quel salto in avanti che i 100 metri hanno fatto sulla spinta di Bolt. Ma con il giro della morte bisogna essere cauti: dopo il 1968, il primato mondiale dei 400 maschili è stato ritoccato soltanto tre volte. Van Niekerk ha un’allenatrice, Ans Botha, e già questo non è frequente. Il fatto che abbia 74 anni e che sia una bisnonna ha aumentato la curiosità intorno a lei. I risultati sono dalla sua parte: da qualche anno il Sudafrica presenta diversi atleti interessanti sui 200 e sui 400. Van Niekerk è sceso per la prima volta sotto i 45 secondi due anni fa, per la prima volta sotto i 44 l’anno scorso e quest’anno si è fermato alle soglie dei 43 secondi. Per ora. È anche l’unico uomo della storia a essere sceso sotto i 10 secondi nei 100, sotto i 20 nei 200 e sotto i 44 nei 400. Resta da chiedersi cosa può fare sul mezzo giro se deciderà di affrontarlo seriamente: forse, se corresse i 200 ai Mondiali dell’anno prossimo, potrebbe essere l’ultimo avversario di Bolt.

Van Niekerk che comincia a riscrivere la storia.

Le fondiste volano

La prima medaglia assegnata, in uno stadio vuoto anche grazie alla scelta della Iaaf di organizzare la finale la mattina, è andata all’etiope Almaz Ayana, di cui avevamo già scritto qui in occasione dei Mondiali di Pechino. L’anno scorso partecipò ai 5.000 metri e vinse contro la favoritissima Genzebe Dibaba: era più debole in volata e decise di attaccarla partendo da lontano, correndo gli ultimi 3.000 metri in 8’20’’, uno dei tempi migliori mai cronometrati sulla distanza.

Quest’anno ha riscritto la storia dei 10.000 metri. Un’atleta kenyana, Alice Aprot, ha deciso di forzare i primi cinque chilometri: il passaggio a metà gara, 14’46’’81, era in linea per tentare il record del mondo. Ayana si è lanciata in una lunghissima volata e nessuna ha provato a tenere il suo passo: ha percorso il sesto chilometro in 2’50’’, il settimo in 2’53’’, l’ottavo in 2’55’’, il nono in 2’57’’, l’ultimo in 2’55’’. Un ritmo infernale, che le ha permesso di sbriciolare il record: 29’17’’45, 14 secondi in meno di un tempo che resisteva da 23 anni ed era considerato inavvicinabile. A siglarlo era stata, nel 1993, la cinese Junxia Wang, l’atleta di punta del gruppo di mezzofondiste che passò alla storia come “l’esercito di Ma”, dal nome dell’allenatore Ma Junren.

Quel crono era considerato imbattibile anche perché era espressione di un gruppo di allenamento da sempre considerato in forte odore di doping. Per le stesse ragioni, l’anno scorso il record del mondo sui 1.500 metri di Genzebe Dibaba sembrò un evento epocale. Un anno dopo, Dibaba è l’ombra dell’atleta ammirata nel 2015. Mentre Ayana, che era considerata la numero due, ha fatto qualcosa di ancora più incredibile. Ma non era sola in questo assalto: il miglioramento è stato generalizzato ed enorme per molte atlete in pista a Rio. Alle spalle di Ayana è arrivata la kenyana Vivian Cheruiyot, che ha chiuso a pochi decimi dal vecchio record del mondo. Terza è arrivata Tirunesh Dibaba, la sorella maggiore di Genzebe e vincitrice di due titoli olimpici su questa distanza, che a Rio ha preso 25 secondi di distacco dalla vincitrice. Un abisso, soprattutto se si considera che Dibaba è stata probabilmente la più forte interprete della distanza. Eppure, il suo 29’42’’56 migliora di 12 secondi il personale che aveva quando era lei la dominatrice dei 25 giri. Ha corso forte come non mai, ma non è nemmeno bastato a sfiorare la vittoria.

Dietro di loro, altre 15 atlete hanno migliorato i loro primati. Complessivamente, questi 10.000 hanno visto infrangere 18 record personali, otto record nazionali, due record continentali e – ovviamente – il record mondiale. Pochi giorni dopo, Ayana è partita per la finale dei 5.000 metri. Come un anno fa è scappata via a tre chilometri dalla fine, ma stavolta le è andata male: due avversarie l’hanno raggiunta ed è arrivata terza. Probabilmente l’ha tradita la stanchezza: ha corso gli ultimi tre chilometri 13 secondi più lenta di quanto avesse fatto a Pechino e le altre, che l’altra volta erano scomparse, hanno tenuto un ritmo intermedio tra questi due estremi. Ha vinto Vivian Cheruiyot, che pochi giorni dopo aver fatto la terza prestazione mondiale di sempre sui 10.000 ha corso un 5.000 in 14’26’’ (con una semifinale in mezzo) con una fortissima progressione nell’ultimo chilometro.

Insomma, nell’ultimo biennio tre atlete si sono espresse allo stesso livello delle tanto chiacchierate cinesi. Un fatto esaltante, perché lo spettacolo è di altissimo livello, ma in uno scenario inquietante: negli ultimi anni Kenya ed Etiopia sono stati protagonisti di alcuni scandali legati al doping, al punto che il Kenya ha rischiato di essere escluso dalle Olimpiadi come accaduto alla Russia. Qualche settimana fa il somalo Jama Aden, allenatore di Genzebe Dibaba, è stato arrestato in Catalogna perché in possesso di epo, steroidi e siringhe. Ayana per ora replica ai sospetti sostenendo che il suo doping è Gesù, corre sul mondo e si gode il suo oro, oltre al fatto di aver raggiunto una fama superiore a quella della rivale Dibaba. Alle sue spalle Cheruiyot, sedici anni dopo l’esordio a Sydney 2000, ha ottenuto il suo primo titolo olimpico.

Anita Wlodarczyk, un record ignorato

Il terzo record mondiale l’ha siglato un’atleta polacca, Anita Wlodarczyk. La sua gara è il lancio del martello e in questa disciplina è ai vertici da diversi anni: ha vinto i Mondiali del 2009 e del 2015 ed è la quinta volta che batte il primato del mondo. Il lancio del martello femminile esiste alle Olimpiadi solo da Sidney 2000 e Wlodarczyk è sicuramente la migliore atleta della sua breve storia. È l’unica donna mai salita sopra gli 80 metri, impresa che le è riuscita in quattro gare diverse. Le prime otto misure nelle liste all time sono tutte sue: ma ci sono molti altri lanci non segnati nella graduatoria, dato che questa tiene presente solo la miglior prestazione di ogni gara. L’oro olimpico però le mancava: a Londra aveva vinto la russa Tat'jana Lysenko, che qualche anno prima era stata squalificata due anni per utilizzo di sostanze dopanti. Stavolta, per mettersi al sicuro da eventuali scherzi, Wlodarczyk ha messo le cose in chiaro fin da subito: è passata in vantaggio al primo lancio, al secondo è salita sopra gli 80 metri (80,40) e al terzo ha scagliato il martello a 82,29, nuova miglior prestazione mondiale. Prima della fine della gara, si è tolta la soddisfazione di salire un’altra volta sopra il vecchio limite mondiale. Un dominio totale, una prestazione che però è stata quasi completamente ignorata dalla maggior parte degli osservatori.

Il lancio record.

I lanci, insieme al salto in alto e al salto con l’asta, sono tra le discipline più bistrattate dell’atletica: poche riprese televisive in diretta (per i lanci) e decisioni assurde per quanto riguarda la progressione delle misure (per i salti) limitano fortemente le potenzialità di questi settori. A rimetterci sono gli atleti, che pagano in visibilità e quindi nella possibilità di monetizzare le loro prestazioni (se non passano mai in televisione, come fanno a diventare riconoscibili?) e gli spettatori, che ignorano completamente l’esistenza di fuoriclasse come Wlodarczyk.

L’ultima sfida di Kemboi

Tra tanti nuovi re, c’è un monarca che cede il passo. Si tratta del trentaquattrenne kenyano Ezekiel Kemboi, protagonista assoluto dei 3.000 siepi dal 2003 a oggi. La sua prima medaglia risale all’argento dei Mondiali di Parigi di tredici anni fa. Era l’antipasto dell’oro olimpico di Atene 2004, a cui hanno fatto seguito altri due argenti mondiali nel 2005 e nel 2007. Poi c’è stato il passo falso alle Olimpiadi di Pechino 2008, quando arrivò settimo. Da lì, non si è più fatto sfuggire niente: ha vinto quattro campionati mondiali di seguito, da Berlino 2009 a Pechino 2015. Ha dominato la finale olimpica di Londra 2012. Ha fatto a pezzi qualunque ipotesi di concorrenza interna, vale a dire qualunque concorrenza in generale, visto che i 3.000 siepi sono un feudo del Kenya.

È un sostenitore acceso del presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, accusato di crimini contro l’umanità. Spesso, dopo le vittorie, gli ha mandato messaggi di affetto e stima in mondovisione. Si allena in Italia, a Siena, città da cui sono passati molti dei più grandi mezzofondisti degli ultimi decenni. Più che per le influenze italiane o il sostegno a un politico controverso, è conosciuto per l’atteggiamento esuberante. Il kenyano trasforma le esultanze post gara in uno show a parte: quando sta vincendo, nell’ultimo rettilineo inizia ad allargarsi tagliando il traguardo lontanissimo dalla prima corsia.

Quest’anno si è dovuto inchinare a Conseslus Kipruto, che anche se deve ancora compiere 22 anni già da diverse stagioni preparava l’imboscata a Kemboi. Ai Mondiali 2013, quando era maggiorenne da pochi mesi, arrivò alle sue spalle. E l’anno scorso, a Pechino, stava per riuscire a batterlo: Kemboi era partito come al solito per staccare tutti nell’ultimo giro, ma lui gli era rimasto attaccato e sull’ultimo rettilineo aveva provato ad avvicinarlo. L’ha condannato all’argento l’ultima siepe, dove lui si è bloccato e Kemboi scappava via per l’ultima volta.

Stavolta, all’ingresso dell’ultimo giro erano in tre: i due kenyani e l’americano Evan Jager, che già l’anno scorso aveva tentato il colpaccio (finendo quinto e primo dei non kenyani) e che stavolta ha lavorato per tenere il ritmo alto tutta la gara sgretolando il resto del gruppo. Kipruto è scappato via, Kemboi non è riuscito a rispondere e nel finale ha ceduto il passo a Jager. Poco dopo il traguardo ha annunciato il ritiro: a 34 anni, il bronzo olimpico doveva essere l’ultima medaglia della sua carriera. Non è andata così: la Francia, che in pista aveva il quarto classificato Mahiedine Mekhissi, ha fatto ricorso perché dopo il salto di una riviera (l’ostacolo con l’acqua) Kemboi ha appoggiato un piede fuori dal cordolo interno. Un errore inutile, che non comporta vantaggi per l’atleta, ma a termini di regolamento passibile di squalifica. Dopo alcune ore, la Iaaf ha deciso di squalificarlo. Dopo aver saputo della decisione della Iaaf, Kemboi ha cambiato idea: «Mi sento come se dovessi riprendere questa medaglia non protestando ancora ma in pista. Verrò a Londra 2017 per reclamare la mia medaglia dalla Francia». L’anno prossimo avrà 35 anni e lotterà contro un mondo che cerca di scalzare il Kenya dal dominio della specialità: lui opporrà i suoi quattro ori iridati consecutivi, che gli valgono già il biglietto per Londra.

La maledizione del più forte

Renaud Lavillenie è il più forte saltatore con l’asta che si sia mai visto dopo il ritiro di Serhij Bubka. Gli ha anche rubato il record del mondo, saltando a 6,16 (indoor). Campione olimpico di Londra 2012, è un atleta capace di dare spettacolo in pedana e di coinvolgere il pubblico, come si è visto ai Mondiali indoor di Portland. Eppure non ha un grande rapporto con le vittorie che contano: non ha mai vinto un Mondiale all’aperto e spesso ha perso in maniera rocambolesca.

Lavillenie ha sempre fatto capire che l’unico oro che gli interessava era quello delle Olimpiadi, quindi è arrivato in Brasile per vincere e, per gran parte della gara, è stato inavvicinabile. Entrato in gara a 5,75, ha fatto quattro salti perfetti fino a 5,98. Più che alla gara, si pensava al tentativo di record del mondo. Ma a quel punto è entrata in campo la variabile impazzita, sotto forma di un ventitreenne brasiliano di nome Thiago Braz Da Silva. Un buon atleta, ma non un candidato credibile per la vittoria. Fino alla sera della finale aveva un primato personale di 5,93 metri, ottenuto al chiuso. L’ha eguagliato al secondo tentativo, mentre Lavillenie ce l’ha fatta al primo. Quando il francese ha saltato 5,98 alla prima misura, lui ha preso una decisione folle: passare immediatamente a 6,03. Saltare quella misura in meno tentativi di Lavillenie era l’unica maniera a sua disposizione per riuscire a passare in vantaggio. Lavillenie ha sbagliato due volte quella misura, passando altissimo ma sfiorando l’asticella cadendo in entrambi i tentativi. Braz, invece, è riuscito a fare il miracolo al secondo tentativo.

L’incredibile salto di Braz visto dalla tribuna.

Un’impresa clamorosa, ottenuta davanti al proprio pubblico che è letteralmente esploso. In quel momento, Lavillenie ha perso la gara. Non avrebbe più saltato nemmeno 5,90, probabilmente: dopo aver dominato in lungo e in largo si è trovato dietro a uno sconosciuto, con un solo salto a disposizione per ribaltare la situazione. Ha deciso di fare alzare l’asticella a 6,08 e giocarsi il tutto per tutto. Prima di partire, è stato fischiato da tutto lo stadio, una scena rarissima nell’atletica. Lui ha risposto col pollice verso, è partito e ha sbagliato. La gara è finita lì, le polemiche no: Lavillenie si è scagliato contro i tifosi: «Alle Olimpiadi una cosa del genere era successa solo a Jessie Owens a Berlino nel 1936. Questo non è il calcio, certi eccessi non fanno parte dei Giochi e dello spirito olimpico». Poche ore dopo, si è scusato per il paragone con l’atleta americano. La sera della premiazione, quando lo speaker ha annunciato il suo nome, è stato nuovamente sepolto dai fischi. È dovuto intervenire Braz per placare gli spettatori. Durante l’inno, Lavillenie è scoppiato in lacrime. Probabilmente, la cerimonia del podio è stato il momento più rappresentativo di quanto inadeguato fosse il pubblico a queste Olimpiadi. La sera in cui Braz ha conquistato l’unica medaglia d’oro brasiliana nell’atletica, cioè nello sport che può essere considerato il più rappresentativo delle Olimpiadi, lo stadio era mezzo vuoto. È sempre stato mezzo vuoto tutte le sere in cui non c’era Bolt. Questo in ossequio a una tendenza che si sta notando sempre più negli ultimi anni: lo stadio si riempie solo se c’è lo one man show e si svuota appena il giamaicano scompare, soprattutto se la gara si svolge in un Paese con scarsa tradizione nell’atletica. Ai Mondiali di Daegu, in Corea del Sud, il pubblico abbandonò le tribune non appena Bolt venne squalificato nei 100, senza nemmeno rimanere a vedere la finale. In occasione delle Olimpiadi però la cosa fa ancora più impressione.

Bartoletta, campionessa silenziosa

La 4x100 donne Usa ha vinto la medaglia d’oro in maniera rocambolesca: nelle batterie ha rischiato l’eliminazione, per colpa di un contatto fortuito tra Allyson Felix e un’atleta brasiliana; poi ha fatto ricorso e, dato che non c’erano corsie disponibili per ammetterla d’ufficio, le è stata data la possibilità di correre da sola per provare a fare un tempo migliore di quello della Cina, ultima delle ripescate.

Le americane si sono qualificate alla finale col miglior tempo, ma sono finite in prima corsia: la peggiore per le staffette. Hanno vinto con un tempo eccezionale: 41’’01, appena venti centesimi dal record mondiale.

Un record che appartiene agli Usa da quattro anni, dalla finale di Londra 2012. Due staffettiste di Rio erano presenti anche quattro anni fa a Londra: una è Allyson Felix, l’altra Tianna Madison. O meglio: a Londra si chiamava Madison, a Rio Bartoletta. In mezzo, un matrimonio che le ha fatto cambiare cognome. Bartoletta non è un’atleta che fa rumore, eppure è tra le più duttili e complete del panorama femminile: ha vinto due volte i campionati del mondo nel salto in lungo a dieci anni di distanza (2005 e 2015), ma è forte anche sui 100 metri. Non è solo una componente della staffetta, gareggia anche da sola: a Londra 2012 arrivò quarta.

A Rio è entrata nello stadio per tre gare: sui 100 è arrivata fino alla semifinale; nel salto in lungo ha vinto una gara emozionante fino all’ultimo. È passata in vantaggio al terzo salto, quando con 6,95 ha pareggiato la misura della serba Ivana Spanovic ma aveva una misura “di riserva” più alta. Al quinto giro di salti, l’americana Brittney Reese ha tentato il tutto per tutto. Reese, che meriterebbe una medaglia automaticamente solo per la sua espressività facciale in pedana, è la campionessa olimpica di Londra 2012 e ha vinto tre Mondiali consecutivi (2009, 2011 e 2013). L’anno scorso il titolo iridato le è stato sottratto proprio da Bartoletta: stavolta, per riprendersi il trono, ha saltato fino a 7,09 metri. Dopo di lei è stato il turno di Spanovic: la serba si è fermata a 7,08, mentre Bartoletta si è trovata improvvisamente in terza posizione. Ma quando è arrivato il suo turno, è riuscita a portarsi fino a 7,17 metri. Reese non si è data per vinta: è tornata in pedana per l’ultimo tentativo, ha preso la rincorsa ed è atterrata lontanissimo. Ma non abbastanza, visto che il risultato – 7,15 metri – l’ha condannata al secondo posto per due centimetri. Dopo di lei, anche Spanovic e Bartoletta sono tornate ancora sopra i sette metri. Ma ormai le posizioni erano acquisite. Bartoletta è rientrata per l’ultima volta allo stadio olimpico la notte delle staffette. E con una partenza perfetta ha dato il suo contributo all’unico oro Usa nelle gare di velocità pura. Il suo quinto oro tra Olimpiadi e Mondiali, un palmares di tutto rispetto per un’atleta mai sulla cresta dell’onda.

Marcia drammatica

Orfana di Alex Schwazer e degli atleti russi, la 50 km marcia ha offerto una gara emozionante e tesa fino all’ultimo metro. L’ha spuntata il campione mondiale in carica Matej Toth: lo slovacco è andato a recuperare negli ultimi chilometri l’australiano Jared Tallent, che era stato l’ultimo a tentare la fuga. Un attacco durato qualche chilometro, ma non abbastanza per mettersi fuori dalla portata di Toth. Tallent era arrivato secondo anche ai Mondiali dell’anno scorso ed era il campione olimpico in carica, anche se pure a Londra arrivò secondo: la medaglia gli è stata recapitata a marzo, dopo la squalifica del russo Sergey Kirdyapkin per doping.

Poche settimane dopo essersi riscoperto campione olimpico, Tallent è finito alle spalle di Schwazer ai Mondiali a squadre di Roma: un’altra vittoria in retroattiva per l’australiano, che in quell’occasione attaccò pesantemente l’altoatesino al rientro dalla squalifica per doping. Da notare, fra l’altro, che alle spalle di Schwazer a Pechino c’era sempre lui, Tallent. Quest’anno sperava di essere sul gradino più alto durante la premiazione ufficiale, ma non è andata così. Terzo e quarto sono arrivati il giapponese Hirooki Arai e il canadese Evan Dunfee, che hanno duellato fino alla fine per il bronzo. Poco dopo la fine della gara la giuria ha squalificato Arai per un contatto fortuito. Poi, gli stessi giudici sono tornati sui loro passi. Così Dunfee si è dovuto accontentare della medaglia di legno, nonostante per una parte di gara fosse stato lui a tentare la fuga. Ma a catalizzare l’attenzione è stata soprattutto la giornata drammatica di Yohann Diniz: il francese ha 38 anni ed è il primatista mondiale. Ha vinto tre volte i campionati europei, ma non ha mai finito in testa ai Mondiali o alle Olimpiadi. Stavolta è partito da lontanissimo, tentando la fuga. Ha guadagnato un notevole vantaggio, ma poi è entrato in crisi. Prima ha avuto un attacco di dissenteria, poi si è sentito male e si è fermato. È ripartito a fianco di Evan Dunfee, quando l’ha visto passare, ma è stato raggiunto dagli avversari e, mentre marciava con loro, al trentottesimo chilometro è crollato a terra semisvenuto.

È rimasto inerte sul suolo per qualche secondo, mentre i commissari lo raggiungevano. Quando si è alzato inizialmente barcollava, poi è ripartito ed è riuscito a concludere la gara in ottava posizione. L’altra impresa di giornata l’ha firmata lo spagnolo Jesus Angel Garcia, prossimo ai 47 anni, ventesimo al traguardo.

Tutti insieme per l’ultima volta

La finale della staffetta 4x100 maschile ha permesso a Usain Bolt di raggiungere il nono oro olimpico, anche se probabilmente presto diventeranno otto a causa della positività all’antidoping di Nesta Carter, suo compagno a Pechino 2008. Ma quella finale è stata storica anche per un altro motivo: in pista c’era l’intero quintetto che ha fatto la storia dei 100 metri in questo secolo. Oltre a Bolt, era alla quarta e ultima Olimpiade il suo compagno Asafa Powell. Doveva diventare campione olimpico ad Atene 2004, ma il giorno della finale si scoprì che aveva i nervi troppo fragili e perse. Ad approfittarne fu un giovane americano di 22 anni: Justin Gatlin. Quattro anni dopo Gatlin non c’era più: squalificato per doping nel 2006 mentre si contendeva il record del mondo con Powell, non lo si sarebbe rivisto fino al 2010. Nel 2008 le speranze degli americani erano tutte sulle spalle di Tyson Gay, il campione mondiale in carica dei 100 e 200. Gay sembrava in ottima forma, ma si infortunò ai Trials e a Pechino uscì in semifinale. Vinse l’uomo che era arrivato alle sue spalle l’anno prima nei 200 metri, Usain Bolt, e l’atletica non fu più la stessa. L’anno successivo Gay corse forte come non mai: scese fino a un personale di 9’’69, nella finale di Berlino chiuse in 9’’71. Ma Bolt fermò il cronometro a 9’’58, staccandolo di un metro e mezzo. Fu lì che Gay capì che non avrebbe più avuto la possibilità di batterlo, che Bolt era andato troppo avanti. Il Tyson Gay squalificato per doping nel 2013 era già la versione in calando dell’atleta di qualche anno prima. Nel frattempo era esploso Yohan Blake, che aveva vinto i Mondiali del 2011 (gli unici sfuggiti a Bolt) e aveva provato senza successo a batterlo a Londra. L’ultimo a provarci davvero è stato Justin Gatlin: vale a dire, l’ultimo campione olimpico prima del Fulmine. È stato anche quello che ci è andato più vicino di tutti, l’anno scorso, ma gli è mancato l’ultimo centesimo di secondo. A Rio de Janeiro hanno gareggiato a livello individuale solo Bolt, Gatlin e Blake, primo, secondo e quarto: Powell e Gay sono rimasti fuori nei rispettivi Trials, sconfitti più dai loro anni che dalle nuove leve. La notte della staffetta, si sono trovati nello stesso stadio per l’ultima volta in un’Olimpiade e forse in carriera, se qualcuno di loro non sarà a Londra l’anno prossimo.

Tra loro, solo Bolt non ha mai avuto squalifiche per doping. A Powell, Gay e Blake è stato risparmiato il livore che viene riversato in ogni stadio nei confronti di Gatlin: l’unico recidivo, ma anche l’unico che ha fatto tremare l’eroe che tutti volevano veder vincere. A Rio de Janeiro gli Stati Uniti sono stati squalificati e ha vinto la Giamaica, come sempre dal 2008 a oggi. L’impresa l’ha fatta il Giappone: nessun extraterrestre tra i frazionisti, nessuno in grado di scendere sotto i 10 secondi. Ma hanno preparato la gara alla perfezione e hanno ottenuto un eccellente 37’’60. Per un paese senza tradizione nella velocità, ce n’era abbastanza per impazzire di gioia. Ma l’uomo più felice in pista, quella notte, era probabilmente Asafa Powell: doveva essere il più grande e non lo è mai stato, come unico orgoglio aveva l’oro nella 4x100 conquistato a Pechino con un’ultima frazione devastante. Quell’oro che gli verrà tolto a breve. Lui ha raccolto la sua ultima possibilità e ha accettato di partire in prima frazione (non era mai successo), perché non è più quello di otto anni fa. Ha corso perfettamente la sua curva, ha consegnato il testimone a Yohan Blake e ha aspettato che Bolt venisse a consegnargli l’oro che gli spettava.

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