Il 23 marzo, il defensive end dei Philadelphia Eagles Michael Bennett, si è visto recapitare un mandato di arresto da parte del tribunale della Contea di Harris, in Texas, con l’accusa di aver spintonato una donna paraplegica, procurandole la lussazione di una spalla. Il fatto criminoso sarebbe accaduto al termine del LI Super Bowl, il 5 febbraio 2017. E cioè: 441 giorni prima dell’arresto di venerdì 23 marzo.
Per la legge dello Stato del Texas, se si arreca danno fisico – anche non intenzionalmente, ma a seguito di «condotta colpevolmente violenta» – a una persona con età superiore ai sessantacinque anni, si può incorrere in una condanna fino a dieci anni di carcere. La donna, quella sera in servizio all’NRG Stadium di Houston in qualità di addetta alla sicurezza, al momento del presunto incidente ne aveva già compiuti sessantasei.
Tempistiche strane, prove mancanti
La richiesta di condanna attraverso un grand jury ha tempi burocratici più lunghi di un normale procedimento penale, in media ci vogliono non meno di tre mesi per notificare un mandato di arresto. Nel caso di Michael Bennett ne sono trascorsi circa 14.
Le manette sono scattate esattamente una settimana prima dell’uscita negli Stati Uniti del suo libro Things That Make White People Uncomfortable, e solo poche ore dopo la firma di Bennett con i freschi campioni NFL di Philadelphia, definitiva consacrazione di uno dei migliori giocatori della lega nel suo ruolo.
Alla prima udienza, giovedì scorso, alla quale Bennett è stato condotto ammanettato, il Grand Jury ha chiesto all’accusa di fornire prove tangibili dell’accaduto: commenti scambiati a caldo tramite messaggi di cellulare, fotografie degli attimi immediatamente successivi, email o messaggi vocali inviati dalle persone coinvolte o dalle persone nelle vicinanze; o, ancora, immagini riprese dalle telecamere presenti all’NRG Stadium: una qualsiasi evidenza, insomma, che potesse sostenere la dinamica incriminata.
Il Super Bowl è l’evento dello sport mondiale più mediatizzato e più controllato da telecamere di sicurezza, ma al di là della testimonianza orale di un’agente di polizia, non è emersa nessuna prova video o fotografica.
O meglio, una sì.
La sorella di Michael, Ashley, che era con lui in tribuna per sostenere il fratello Martellus – tight end dei New England Patriots, laureatosi campione NFL proprio quel 5 febbraio 2017 – ha postato via twitter uno dei video da lei girati quella sera, in cui si vede il percorso che Michael (inquadrato di spalle, ma ben riconoscibile) compie dalla tribuna fino al campo: nessun contatto con nessun addetto alla sicurezza è riscontrabile nel tragitto.
Il video, visto e commentato da migliaia di utenti, non è stato accolto agli atti del processo.
Rispetto al grande ritardo della notifica di arresto, il responsabile del provvedimento, Arturo Acevedo, Capo del Dipartimento di Polizia di Houston, ha spiegato che tra le cause principali c’è stata la difficoltà di rintracciare Michael. Una strana obiezione, dato che si tratta di un famoso sportivo, che ogni domenica è reperibile negli stadi del campionato nazionale di football.
Inoltre – come è riportato da Jessica Brand, Legal Director di Injustice Today – le attenzioni di Acevedo per Bennett partirebbero da lontano, dato che il Capo della Polizia di Houston ha iniziato a indagare su Bennett dal settembre 2017, a seguito delle accuse di razzismo rivolte dall’allora giocatore dei Seattle Seahawks nei confronti della polizia di Las Vegas, rea di avergli puntato una pistola alla testa e di averlo ammanettato nel corso di un intervento in un night club, solo perché nero.
Dopo quella data, in diverse altre occasioni, Michael ha utilizzato la sua visibilità per far sentire la voce della comunità afroamericana sul tema del razzismo delle forze dell’ordine. Sembra quindi molto intuitivo, che l’improvvisa emersione di questo vecchio episodio della notte del Super Bowl – sul quale le indagini in corso dovranno fare chiarezza – sia un tentativo di metterlo a tacere o di danneggiarne la credibilità.
Ma per capire ancora meglio perché Acevedo e il tribunale del Texas stiano cercando di processare Michael Bennett, si deve andare ancora più indietro nel tempo.
Acevedo conclude la conferenza stampa del 23 marzo, etichettando Michael Bennett come individuo «morally corrupt».
Tutto è iniziato da un uomo in ginocchio
Ricordate Colin Kaepernick? La protesta silenziosa durante il rituale inno americano a inizio gara? Era l’estate del 2016, ancora in “Era Obama”. L’allora quarterback dei San Francisco 49ers diede il via a una presa di coscienza – e alla conseguente esposizione mediatica – da parte degli sportivi americani, soprattutto afrodiscendenti, che andava a saldarsi con le rivendicazioni e le proteste del movimento Black Lives Matter, nato spontaneamente nel 2014 a seguito dell’omicidio di Michael Brown, a Ferguson, in Missouri.
I fratelli Bennett si sono da subito schierati al fianco di «Kaep». Michael, in particolare, è diventato una figura di riferimento e uno dei portavoce delle proteste contro le violenze della polizia sugli afroamericani. Proprio per questo, sostiene Dave Zirin – che oltre a essere il coautore dello libro “scomodo” appena pubblicato da Haymarket Books, è caporedattore per lo sport del The Nation Magazine – che Bennett è attaccato:
«Non si tratta affatto di qualcuno che è stato spinto a terra (nel tardo pomeriggio di ieri – 28 marzo – proprio Acevedo, in mancanza dell’emersione di prove, ha cambiato la versione della «spinta a terra» proponendo invece «una forte manata di Bennett sulla spalla della donna»; nda). Questa vicenda riguarda i sindacati di polizia, i trumpisti e i loro scagnozzi razzisti che tentano di attaccare un onesto e sincero uomo nero, e di distruggerne l’immagine».
Il giornalista Zirin nel suo podcast ha dichiarato che «è una storia che già conosciamo, è il solito copione ben noto: da Jack Johnson a Muhammad Ali, da Tommie Smith e John Carlos, gli atleti neri politicizzati sono costretti a soffrire la repressione dovuta al coraggio che dimostrano nell’usare la grande visibilità che il loro ruolo di sportivi gli offre, rifiutando di stare zitti e giocare. Oggi, a partire dal blackballing di Colin Kaepernick fino a queste ultime accuse, la nefasta tradizione prosegue.
«Quindi non c’entra nulla il Super Bowl», prosegue Zirin. «Ma c’entra Charleena Lyles, uccisa in casa sua dalla polizia di Seattle, e c’entra il movimento che ne è conseguito, organizzato da Micheal Bennett per ottenere giustizia e verità per la sua famiglia. C’entra Stephon Clark, disarmato, a cui hanno sparato venti colpi a Sacramento. C’entra Danny Ray Thomas, un altro uomo nero disarmato ucciso proprio dalla polizia di Houston lo scorso 20 marzo».
Cosa rischia Bennett?
Se da un punto di vista penale le conseguenze sulla vita di Michael sono ancora tutte da capire, le possibili ricadute sulla sua carriera potrebbero essere immediate. Sulla base dell’Accordo Collettivo dei giocatori NFL – soprattutto rispetto all’articolo 46 che ne norma la condotta etica – Bennett potrebbe essere sospeso e multato dal commisisoner Roger Godell.
Gli stessi Philadelphia Eagels hanno diramato nel pomeriggio di ieri (28 marzo) una nota in cui dicono di «attendere lo sviluppo del processo prima di poter prendere un qualsiasi provvedimento».
Secondo Michael McCann, Legal analyst per Sports Illustrated – che si spinge molto in profondità nei meandri normativi della vicenda – gli scenari sono sostanzialmente tre: 1) Se il Grand Jury trovasse le tante agognate prove del reato, Bennett può ricevere dai 2 ai 10 anni, secondo quanto prescritto dalla legge del Texas. 2) Se le prove continuassero a non emergere, si potrebbe arrivare a un cosiddetto «no contest» una forma di patteggiamento secondo la quale non si dà luogo a procedere, l’imputato non viene riconosciuto colpevole ma neanche innocente, dato che accusa e accusato hanno deciso di non andare a giudizio: subirebbe una multa pecuniaria e l’obbligo di svolgere lavori socialmente utili. Ma eviterebbe il carcere.
Infine, nello scenario 3), Bennett e i suoi avvocati non si accontenterebbero di un «no contest», ma punterebbero a difendere il nome di Michael e la sua reputazione andando a processo, rischiando quindi una condanna, ma tentando di ottenere una vittoria completa.
Intanto, il Grand Jury ha rinviato a giudizio Bennett, tenendolo in condizione di libertà vigilata. Al momento non potrà fare ritorno in Ohio. Per lui è stata confermata la richiesta di pena fino a 10 anni di detenzione.
Staremo a vedere quale dei tre scenari si realizzerà, in questo che – è davvero molto evidente – oltre a essere un processo penale e mediatico, appare come uno strumentale processo politico.