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Chiedi chi era Moses
16 set 2015
La carriera, i silenzi, l’incredibile mole di lavoro della superstar più dimenticata del basket NBA, che ci ha lasciati a soli 60 anni.
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Fino a quattro anni fa, io di Moses Malone non sapevo assolutamente nulla. L’unica cosa che sapevo è che quando mi capitava di dover fare ricerche su basketball-reference.com, il suo nome continuava a spuntare nella top-10 delle classifiche di ogni epoca. Punti segnati? C’è, al settimo posto, a quota 29.580. Rimbalzi? È dietro solo a Bill Russell e Wilt Chamberlain con 17.834. E quelli offensivi? Primo in assoluto a 7.382. Partite giocate? Quinto, 1.455. Minuti? Sesto, appena sotto quota 50.000. Eppure, mentre tutti gli altri nomi mi erano palesi fin da subito—bastano anche solo quelli di battesimo: Kareem, Karl, Kobe, Michael, Wilt, Julius, Shaq, Dirk, solo per rimanere con quelli che condividono con lui la top-10 dei realizzatori ABA/NBA—il suo continuava a rimanermi nebuloso. Dove giocava? Quanto ha vinto? Come segnava i suoi punti? In che cosa era davvero forte? Come è possibile che io—nato nel dicembre del 1989—sappia vita-morte-e-miracoli di altri eroi degli 80’s come Bird e Magic, Kareem e Erving, McHale e Worthy pur non avendoli vissuti, mentre di questo “Moses Malone” mi è stato raccontato così poco? Perché la NBA non ha mai spinto il ricordo delle sue gesta come ha fatto con quella di altri all-time great della sua storia? Ha anche un nome così figo, diamine.

In seguito, quando mi sono immerso in The Book of Basketball di Bill Simmons, ho iniziato a saperne di più e a capire come è riuscito a vincere tre titoli di MVP—alla pari di Bird e Magic e dietro solo a Jordan, Kareem, Russell, Chamberlain e LeBron—e di come i suoi Philadelphia 76ers siano stati l’unica squadra in grado di spezzare il duopolio Lakers-Celtics, che nel periodo dal 1980 al 1988 si sono spartiti tutti i titoli NBA. Poi, quando domenica il mondo è venuto a conoscenza della sua morte a soli 60 anni in una stanza d’albergo di Norfolk, Virginia, dove si trovava per partecipare a un torneo di golf, ho iniziato a leggere i numerosi pezzi che sono usciti su di lui e a guardare i vecchi video sgranati delle sue partite. E forse ho capito.

Il paradosso di Moses

I grandi giocatori vengono ricordati non solo per quello che hanno vinto, ma per il modo in cui lo hanno fatto, in particolare se facilmente associabili a un singolo movimento. Gli americani le chiamano signature moves, e basta ricordarsi lo sky hook di Kareem Abdul-Jabbar per capire di cosa stiamo parlando. La condicio sine qua non per realizzare tutto questo, però, è avere il pallone in mano: difficilmente ci si ricorda uno bravissimo a fare un taglio backdoor; molto più facilmente rimangono impresse le immagini dei passaggi no-look di Magic Johnson o gli uno contro uno artistici di Michael Jordan. È quello che stimola la nostra fantasia, dopotutto: vedere cose che nessun altro è in grado di fare. Ma tutto questo viene fatto con il pallone, non senza.

Moses Malone invece è una delle pochissime superstar che non aveva bisogno del pallone in mano per dominare una partita. Anzi, quando non lo aveva e si piazzava sotto canestro per prendere posizione, o quando il pallone veniva tirato dai suoi compagni verso il ferro, era ancora più forte. Malone era al suo meglio quando faceva cose brutte, frugando e dominando nella spazzatura della partita. Il suo habitat era nel metro e mezzo di campo attorno al canestro, e raramente si avventurava più lontano dell’area pitturata, pur avendo una discreta mano (76% ai liberi in carriera).

Riceveva il pallone, si girava attaccando il ferro grazie all’incredibile lavoro di piedi e poi o segnava, o subiva il fallo (dimenticavo: 11.864 liberi tentati in carriera, secondo solo a Karl Malone), o sbagliava e riprendeva il suo stesso errore, anche due o tre o quattro volte nella stessa azione, finendo inevitabilmente per fare canestro. Avanti così per vent’anni di carriera. Come ha detto lui stesso: «Chiunque può segnare un tiro in sospensione… I just goes to the rack»—dove rack sta per canestro (con molto slang) e quel goes tradisce la sua educazione lacunosa (su cui torneremo poi).

Difficilmente troverete una top-10 della carriera così poco spettacolare per un Hall of Fame (anche se la n. 1 è una chicca avvenuta nella sua ultima partita in NBA).

Marcare Moses Malone era un paradosso quasi filosofico: dato che il suo tiro partiva da mezzo metro di distanza dal canestro, difficilmente sarebbe finito molto lontano dallo stesso, perciò era sempre a sua disposizione per rimediare all’errore—e dato che era più agile e sveglio degli altri, il risultato è che non si poteva fare nulla per impedirgli di prendere quella dannata palla. Ed è proprio qui usciva che la qualità migliore di Moses, il suo solo e unico “superpotere”—prendere il rimbalzo d’attacco e appoggiare a canestro, spesso utilizzando le sue “ottime chiappe”, come le definirebbe Niki Lauda in Rush, per prendere posizione. Se l’obiettivo di una difesa è quello di far sbagliare l’attacco, come si ferma un giocatore che è al suo meglio proprio quando sbaglia? Su questo semplice, ma irrisolvibile paradosso, Moses Malone ha costruito una carriera di oltre vent’anni al più alto livello del mondo.

Un personaggio enorme quanto invendibile

Tornando al motivo per cui io non sapevo nulla del giocatore che era, dopo aver fatto un po’ di ricerca su di lui ho capito il punto di vista della NBA: come si fa a “vendere” il ricordo di un giocatore di questo tipo, la cui signature move è fondamentalmente rimediare a un errore? Per la verità, la NBA faceva fatica a venderlo anche quando era il miglior centro della Lega: Sports Illustratedin questo lungo profilo su di lui scriveva che «la progressiva ascesa di Malone come la figura più dominante nella pallacanestro si è svolta senza che la maggior parte delle persone sappia come è fatto, o anche solo dove giochi».

Di lui si sanno anche poche cose: è nato a Petersburg, città di 30.000 abitanti in Virginia, da una madre alta 1.57 e un padre di dieci centimetri più alto (e sbattuto fuori di casa per abuso di alcool quando Moses aveva 2 anni). Per qualche strano motivo genetico il figlio dei due cresce fino a diventare 2.08 (almeno ufficialmente, anche se qualche centimetro pare regalato), ma dai genitori eredita le braccia corte e le mani sproporzionatamente piccole rispetto al corpo, particolare che rende ancora più incredibile quello che ha fatto nella sua carriera. Ciò nonostante, fin da subito si capisce che si è di fronte un giocatore mai visto prima, tanto da portare a vincere la sua squadra di high school due titoli statali senza nessuna sconfitta nelle ultime due stagioni passate a Petersburg.

È a questo punto che la carriera di Moses ha la prima svolta: invece di andare al college a Maryland, per la quale aveva già firmato la lettera di intenti, fa il salto direttamente nei professionisti e firma un contratto da 535.000 dollari in quattro anni con gli Utah Stars della ABA. Se Kevin Garnett ha fatto scalpore nel 1995 quando da Farragut Academy è passato direttamente alla NBA, pensate a cosa doveva rappresentare la firma di Malone nel 1974, quando la conta dei liceali-diventati-pro si poteva tenere con le dita di una mano. Il fatto è che un po’ tutti avevano notato in lui le stigmate del giocatore speciale già a 19 anni: Larry Brown, dopo una partita di esibizione prima ancora del suo esordio in ABA, disse al leggendario giornalista Bob Ryan che «Moses Malone è il più grande rimbalzista offensivo che io abbia visto in vita mia».

Opinione confermata anni dopo anche da Red Auerbach, che dice «il rimbalzo d’attacco è la singola fase più difficile del gioco del basket. E Moses Malone, secondo me, è il più grande rimbalzista d’attacco di sempre».

Una volta passato alla NBA nel 1976 a seguito della fusione con la ABA, Malone diventa una delle principali stelle della Lega e per 12 anni consecutivi verrà convocato per l’All-Star Game, ma la sua personalità fatica a emergere. Il motivo è che Moses odia parlare con la stampa e la sua balbuzie lo rende di difficile comprensione per gli altri, risultando quasi “ottuso”, come viene scritto anche su Sports Illustrated. Per dire, il suo soprannome nei circoli NBA è “Mumbles”, borbottio, e più o meno tutti fanno capire che avere un rapporto normale con lui è quasi impossibile.

Come racconta il decano dei giornalisti NBA Jack McCallum: «La caratterizzazione del suo personaggio ai tempi poteva sembrare vagamente razzista—cioè quella di un ragazzo stupido che non sapeva parlare bene. Però effettivamente balbettava, era difficile capirlo, e non era particolarmente interessato a esprimersi. La predisposizione di Moses a essere incomprensibile però non era razzismo. Era semplicemente la realtà delle cose».

A sentirlo parlare in effetti non appare esattamente come uno scienziato, infarcendo spesso le sue frasi di errori grammaticali («I just goes to the rack», ricordate?) e anche i suoi compagni lo descrivevano come un uomo di poche parole, cosa che lo rendeva sostanzialmente “invendibile” come personaggio per la NBA. Moses lasciava che fosse il campo a parlare, e anche quando apriva bocca era per esprimere concetti semplici, a livello “uomo delle caverne”, ma che raccontavano tutto di lui: «Non ci sono segreti nel gioco del basket. Chi vuole di più la palla? Chi vuole tirare? Chi vuole il rimbalzo? Vai e prendilo. [A vincere] è l’uomo che è più forte, quello che non molla mai, quello che lavora di più».

Un tentativo non esattamente riuscito di renderlo “vendibile”. Ah, Moses è stato uno dei primi atleti Nike di sempre, prima ancora di Michael Jordan.

Un lavoratore mai visto

E Moses è sempre stato l’uomo che lavorava più di chiunque altro. I compagni raccontano che, anche quando era infortunato, faceva cyclette con un’intensità tale da costringere gli inservienti a tappezzare il pavimento di asciugamani per evitare che si creasse una pozza di sudore lì attorno. La sua totale e incondizionata dedizione al lavoro era il suo vero segreto: lui stesso, dopo aver saputo dell’introduzione nella Hall of Fame, ha dichiarato di non essersi «mai considerato un grande giocatore, ma un grande lavoratore».

Quando gli avversari iniziavano a stancarsi dopo due o tre quarti, Malone continuava ad andare fortissimo a canestro senza sosta, logorandoli fisicamente con la sua incredibile resistenza, anche senza essere un colosso. Oltre agli esagerati 208 centimetri che gli venivano accreditati, anche a livello di chili si attestava attorno a dei “normali” 115, e ai tempi del liceo era magrissimo—segno che aveva fatto un lavoro profondo sul suo corpo.

Soprattutto, Moses Malone era un agonista senza eguali. Rich Kelley, ai tempi il terzo centro NBA per rimbalzi offensivi, diceva che Malone aveva «tutte le qualità che ti potevi aspettare, come la rapidità e il tempismo, ma la cosa principale è la sua tenacia. L’ottanta percento del suo gioco è sui rimbalzi offensivi, e questo cambia ogni cosa. Nella tua testa non puoi pensare a nient’altro se non fare tagliafuori ogni singola dannata volta che la palla va per aria. E questo ti logora, tanto nella mente quanto nel corpo. Gli altri centri forti imparano presto a costeggiare le partite, almeno per un quarto a partita, a scegliersi i loro spazi per far male. Moses no. Quando finisci una partita contro di lui, sei a pezzi».

A tutto questa enorme mole di lavoro Malone aggiungeva una mente tattica sottovalutatissima—«Non è un uomo di molte parole, ma dietro quegli occhi grandi nasconde una mente brillante» ha detto Julius Erving introducendolo nella Hall of Fame—e anche una certa dose di furbizia, dato che ogni tanto sembrava sbagliare un tiro apposta per poter prendere un rimbalzo offensivo in più e poi segnare. Malone era però anche un attentissimo osservatore del gioco, tanto da studiare le parabole di tiro di tutti i suoi compagni per poter prevedere dove sarebbero finiti i loro errori. Il risultato di tutto questo è che nella sua carriera Malone ha preso più rimbalzi offensivi (7.382) di Tim Duncan (3.744) e Karl Malone (3.562) insieme—due che in NBA hanno giocato oltre 2.800 partite. E anche se i ritmi e i punteggi alti degli anni ‘80 hanno influito almeno in parte su quelle cifre, per percentuale di rimbalzi offensivi in carriera Malone è secondo solo a Dennis Rodman—che però non ha mai neanche lontanamente potuto pensare di portare una squadra in Finale NBA da solo, cosa che Moses ha fatto nel 1981 con gli Houston Rockets, battendo anche i Lakers campioni in carica al primo turno, prima di perdere all’atto conclusivo contro Bird e i Celtics in sei partite.

Qui Moses Malone mangia in testa a Robert Parish e ai Boston Celtics segnandone 31, in casa loro, in gara-2 delle Finali NBA del 1981.

L’indimenticabile titolo del 1983

Quando Malone lascia gli Houston Rockets da free agent per approdare ai Philadelphia 76ers nel 1982, è l’MVP in carica della Lega ma non ha ancora vinto il titolo, e proprio per inseguire questo obiettivo riesce ad andare ai Sixers, nonostante i Rockets potessero pareggiare l’offerta da 13.2 milioni di dollari in sei anni (record per l’epoca). Philadelphia ha già una grande squadra e con Julius Erving, Maurice Cheeks, Andrew Toney e Bobby Jones era andata in finale NBA nel 1977, nel 1980 e nel 1982, uscendone sempre perdente, in particolare nell’ultima con i Lakers che ebbero vita piuttosto semplice nel batterli 4-2, grazie ad un Kareem Abdul-Jabbar in netto vantaggio su Darryl Dawkins (tristemente morto anche lui solo tre settimane fa). Una volta firmato Malone, però, tutti hanno la netta impressione che in quella stagione non si sarebbe neanche iniziato a giocare—ed effettivamente va così. Malone ha l’accortezza di mettere subito in chiaro che quella è «la squadra di Doctor J»—ma solo nominalmente, dato che in campo il giocatore più forte e determinante è palesemente lui, e in quanto tale viene nominato miglior giocatore della Lega per la terza volta, unico nella storia professionistica americana a riuscirci in anni consecutivi con due squadre diverse (impresa poi riuscita anche a Barry Bonds nella MLB). Quella squadra chiude con 65 vittorie e 17 sconfitte, ma avrebbe potuto puntare a vincerne anche 70 se coach Cunningham non avesse deciso di alzare il piede dal pedale dall’acceleratore a fine anno (8-8 nelle ultime 16) in vista dei playoff.

Proprio questa consapevolezza porta il taciturno Moses alla dichiarazione che lo ha reso immortale per la città di Philadelphia—e anche per il basket NBA in generale. A fine stagione i giornalisti gli chiedono come sarebbero andati i Sixers nei playoff e lui risponde solo «Fo’, fo’, fo’», come a dire «Quattro, quattro, quattro, le vinciamo tutte senza perderne nessuna» (ai tempi le squadre col miglior record di conference giocavano solo dal secondo turno in poi). In realtà recentemente si è scoperto che quel giorno, quando gli è stato chiesto di elaborare quella risposta, lui ha anche dichiarato: «Non sto dicendo che elimineremo tutti in quattro partite, ma solo che se abbiamo questa idea di vincere un titolo, la cosa migliore è di farlo il più velocemente possibile». In pratica lui voleva rispondere alla domanda con la logica spiccia che lo ha sempre contraddistinto, ovvero con un banale «vinciamole tutte il più in fretta possibile», senza però riuscire a spiegarsi (come sempre) e dando involontariamente vita alla frase che meglio caratterizza non solo quella stagione irripetibile, ma anche la sua incomunicabilità—consegnandola alla leggenda.

Già, perché poi in campo quei Sixers sono andati a una sola sconfitta dal rendere realtà la “previsione” di Moses. Al secondo turno spazzano via i New York Knicks; in finale di conference perdono gara-4 con Milwaukee prima di chiudere in casa; e nella rivincita della Finale NBA dell’anno prima schiantano i Lakers con un perentorio 4-0. E anche se non è stato «Fo’, fo’, fo’», ci si può accontentare di “Fo’, fi’, fo’", lo slogan che viene poi inciso sugli anelli della squadra. Medie nei playoff per Malone: 26 punti, quasi 16 rimbalzi, 1.5 assist, 1.5 recuperi, 1.9 stoppate col 54% dal campo in 40.3 minuti. Parziali nella finale contro Kareem (che aveva già distrutto due anni prima a Houston): 103-94 nei punti, 72-30 (!) nei rimbalzi. Su chi avesse vinto lo scontro, la serie, e anche il titolo di MVP delle Finali, pochi dubbi: «Non diciamoci fesserie, la differenza rispetto all’anno scorso è Moses», per parola di coach Billy Cunningham.

Qui Moses segna per quattro volte nello stesso modo per aprire la partita, prima che la difesa dei campioni in carica inizi a mandarlo in lunetta per la disperazione.

Reinventarsi mentore

Il 1983 rappresenta il punto più alto della carriera di Malone, il culmine di quattro anni nei quali è stato il miglior giocatore della Lega, ma non è la sua fine. Nelle ultime 9 stagioni, dai 31 ai 39 anni, Malone tiene una media di 16 punti e 9 rimbalzi in 561 partite per cinque franchigie (Philadelphia due volte, Washington, Atlanta, Milwaukee e San Antonio). Soprattutto, è attorno a questo periodo che si trasforma da “superstar” a “mentore/veterano saggio” per i più giovani, tra cui due ragazzi piuttosto interessanti di nome Akeem Olajuwon e Charles Barkley. Il primo inizia a frequentarlo ai tempi di Houston, quando il giovane nigeriano—ancora senza H davanti al nome—frequenta il college e i due si sfidano sul leggendario campo di Fonde durante l’estate. «Non avrei mai raggiunto i miei risultati se non avessi giocato contro Moses» ha dichiarato Hakeem prima della sua introduzione nella Hall of Fame nel 2008. «Conoscevo le regole, le basi del gioco e quello che ci si aspettava da me. Ma è stato lui che mi ha insegnato come renderle realtà in campo. Con Moses non c’era mai riposo, nessuna pausa. In ogni singolo momento in campo lui era al lavoro—segnando, andando a rimbalzo o facendoti sentire il corpo addosso. Ti rideva in faccia mentre ti dominava. Se cercavi di riprendere il fiato, ti passava attorno o direttamente sopra. Non si fermava mai. Io di solito non riuscivo a spostare Moses perché era troppo forte fisicamente. È per questo che ho dovuto imparare come usare la velocità e l’agilità per aggirarlo. È così che ho costruito il mio gioco».

Ma se per Olajuwon l’educazione è stata più che altro “tecnica”, il lavoro fatto con Barkley è prettamente fisico e mentale. Quando il prodotto di Alabama si presenta a Philadelphia è “un ragazzino grasso e pigro” di oltre 140 chili che si aspetta di giocare immediatamente, essendo stato scelto alla 5 al Draft. Quando vede che il suo minutaggio invece non cresce, chiede a Moses Malone perché non gli venga concessa un’opportunità. La risposta è un tagliente «perché sei grasso e pigro, ecco perché. Non puoi giocare a basket se non sei in forma». Da quel giorno, i due si trovano da soli un’ora prima dell’allenamento di squadra e si fermano un’ora dopo per fare lavoro individuale, con il vecchio Moses che sfida il giovane Barkley a perdere 10 libbre (4.5 kg) per volta, fino a farlo scendere a 116 nel giro di qualche mese e a forgiarlo nel giocatore che abbiamo poi ammirato negli anni successivi.

Non è un caso che dopo la sua morte il messaggio più toccante sia stato quello dell’attuale analista di TNT, che ha scritto in un comunicato: «Oggi è morto l’uomo che chiamavo "Papà". Le parole non possono esprimere la mia tristezza. Non saprò mai il motivo per cui un Hall of Famer ha preso un ragazzino grasso e lavativo da Auburn e lo ha trattato come un figlio, mettendolo in forma e rendendolo un giocatore. Ogni volta che lo vedevo lo chiamavo "Papà". Spero che sapesse quanto l’ho apprezzato e gli ho voluto bene».

Nella seconda parte di questo video, Chuck racconta il suo passato con Moses.

L’eredità di Moses

Cosa ci rimane quindi di Moses Malone? Un giocatore irripetibile nella sua unicità, per aver esplorato zone di campo fino a quel momento ignorate. E un lavoratore instancabile quanto tenace, oltre che un compagno di squadra amatissimo da tutti. Ma anche un personaggio non facile da decifrare, comprendere e soprattutto tramandare ai posteri, per i limiti del suo carattere, della sua educazione e dei suoi problemi di balbuzie.

Fatto sta che, anche se non ci ha fatto conoscere molto di lui e se ne è andato quasi nel silenzio a soli 60 anni, il nome di Moses rimarrà per sempre tra i grandissimi del basket, lasciando che sia il suo gioco a parlare per lui e a portare avanti l’eredità di un uomo che ha segnato almeno un decennio di basket NBA—una culata, un rimbalzo offensivo e un appoggio a canestro alla volta, perché a tirare in sospensione sono buoni tutti.

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