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Ci sono giocatori che ci ispirano nel silenzio
09 mar 2018
Un omaggio alla vita e alla carriera di Davide Astori.
(articolo)
8 min
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Davide in ebraico significa amato, diletto. Ed è questo il tuo nome”. Comincia così il discorso letto da Milan Badelj a nome dei compagni di squadra, con la voce traballante, in una Santa Croce piena e ammutolita.

Davide Astori muore nella notte tra il sabato e la domenica. L'incontro con la dirigenza per il rinnovo del contratto, con l'obiettivo di chiudere la carriera a Firenze, era fissato al lunedì.

In realtà doveva firmare già la settimana precedente ma l'appuntamento era stato rimandato per la neve. Il mercoledì aveva svolto il consueto controllo medico agonistico senza che fossero riscontrate anomalie.

Nei ricordi di chi l'ha incrociato ritornano sempre gli stessi elementi: la lealtà, il sorriso e l'umiltà.

“Una botta che ti spezza le gambe e ti spacca il cuore” dice Mattia Perin.“Una persona perbene” lo definisce Gigi Buffon. Lorenzo Ariaudo lascia trasparire tutta l'immedesimazione: “Ci scambiavamo spesso di persona, per la somiglianza e per l'amicizia che ci legava. Sei e sarai sempre un fratello”. E dall'altra parte del mondo, a Santiago del Cile, un altro ex compagno del Cagliari, Mauricio Pinilla segna con l'Universidad e si commuove alzando le dita per dedicargli il gol.

Riccardo Saponara ha scritto un lungo ricordo sotto forma di lettera. Chiede all'amico di tornare, di uscire da quella stanza e scendere a bere la sua solita spremuta d'arancia. In un passaggio dice: “Ora ci diranno che la vita scorre, che lo sguardo va puntato in avanti e dovremo rialzarci, ma che sapore avrà la tua assenza?”.

La sera ha giocato alla Playstation in camera di Marco Sportiello. È tornato nella sua, alle ventitré. Il compagno gli ha mandato un messaggio per dirgli che aveva scordato le scarpe. Lui gli ha risposto che le avrebbe recuperate la mattina dopo colazione. Per una beffa, la stanza dove Davide Astori alloggiava nell'hotel Là di Moret, periferia nord di Udine, è la 118, il numero dell'emergenza. A colazione non si presenta.

Il turno di campionato viene interrotto. L'autopsia stabilisce la morte per arresto cardiaco. La Fiorentina e il Cagliari annunciano il ritiro della maglia numero 13, che lui portava in omaggio al suo riferimento Alessandro Nesta. L'intero mondo del calcio si lista a lutto, la società civile partecipa con commozione. Nel paese originario di Astori, viene fermata anche la tradizionale processione di mezza quaresima.

Con Bonucci e Sirigu a Rio de Janeiro, per la Confederation Cup 2013, dove la medaglia di bronzo sarà l'unico trofeo della sua carriera (foto di Claudio Villa / Stringer).

Se ogni morte proietta ombra sulla nostra vita, la natura del rapporto decide quanto l'ombra sia estesa e l'immedesimazione quanto l'ombra tenda al nero.

La notizia ha avuto un rilievo mediatico piuttosto incredibile, a prima vista, considerato che era il weekend delle elezioni politiche, che il nome di Davide Astori non era molto conosciuto tra chi non segue il calcio, e che la morte non è avvenuta sul campo, davanti a tutti, clamorosamente.

Una spiegazione la dà il compagno delle giovanili Davide Di Gennaro: “Se tutti sono così colpiti, è per la persona che è stato”.

Poi c'è l'immedesimazione. Astori era un ragazzo di trentun anni, padre di una bambina di due. Nella percezione era un atleta molto più che un calciatore moderno: buon difensore, serio fuori dal campo, corretto in campo. Veniva dalla provincia, era arrivato a giocare in piazze importanti, a vestire la maglia della Nazionale.

Era quello che stava nel campetto con noi ed era stato preso nel settore giovanile del Milan. Quello che avevamo visto arrivare in A ma che ancora si faceva sentire. Uno che amava molto il suo lavoro, diceva di amarlo più adesso che a diciott'anni. E al tempo stesso era un calciatore poco calciatore, come ripete in questi giorni chi l'ha conosciuto (per esempio il suo allenatore nei Giovanissimi del Milan, Roberto Bertuzzo: “Troppo normale, mi verrebbe da dire, in un mondo dove la normalità sembra un difetto”).

Ancora: era un ragazzo che giocava a pallone ai massimi livelli ed è morto, all'improvviso, come uno qualunque di noi che non dispone di medici sportivi, controlli sull'alimentazione e sullo stile di vita, centri d'allenamento all'avanguardia. È morto da solo, di notte, in una camera d'albergo di una città che non era sua.

La sua morte ha interrotto la giornata di serie A più pesante della stagione, il weekend in cui si affrontavano le prime otto della classe. La Fiorentina non era tra queste, e in generale Astori ha vissuto anni non particolarmente brillanti per il club. Senza che questo, d'altronde, ostacolasse il rapporto tra lui e l'ambiente.

Nelle interviste ribadiva il bisogno di riportare entusiasmo, aveva le idee chiare: “Servirà una filosofia di calcio pratica e decisa”. Non solo sapeva parlare da capitano ma dimostrava di guardare a questo mondo con consapevolezza.

“È stato il primo a credere nella ripartenza. Era un punto di riferimento per la squadra, sembrava lui l'allenatore, il direttore” ha detto Andrea Della Valle. Due stagioni e mezza in viola. Quel troncamento è definitivo.

Contro la Fiorentina aveva segnato il primo gol in serie A, nel gennaio 2010, e contro la Fiorentina aveva esordito con la maglia della Roma. “Sarà il viola che porta bene” diceva lui, un paio d'anni fa.

Foto di Filippo Monteforte / Getty Images

È cresciuto in Val Brembana, tra San Giovanni Bianco e San Pellegrino Terme, provincia di Bergamo, il 7 gennaio 1987. Il più piccolo di tre figli maschi. Domenica scorsa c'erano entrambi i fratelli, con i genitori, nell'automobile che ha bruciato quattrocento chilometri da San Pellegrino a Udine.

Nel bergamasco, Davide ha tirato i primi calci, per poi entrare nel vivaio del Milan. Degli anni da ragazzino al Pontisola avrebbe continuato a ricordare anche la bontà del tè che preparava il magazziniere.

La sua carriera è stata piuttosto lineare: la gavetta in prestito nelle serie inferiori (Pizzighettone, Cremonese), l'approdo in serie A col Cagliari che acquista il cartellino. Poi la paziente attesa per la sua occasione, finalmente il posto da titolare, un brutto infortunio, il ritorno, e una serie di prestazioni che attirano società più grandi. Quando ha ricevuto la notizia della sua morte, l'ex compagno e poi tecnico Diego López ha avuto un malore.

Non sarà l'unico. A Santa Croce durante il funerale sarà un continuo di svenimenti e andirivieni di barelle. Anche l'ex compagno Carlos Sánchez, ora in prestito all'Espanyol, interrompe l'allenamento, ascolta la notizia e si accascia a terra.

Proprio l'Espanyol aveva perso nel 2009 il suo capitano, Daniel Jarque, morto per un infarto mentre era in ritiro a Coverciano.

Di calciatori scomparsi giovani e in attività, la storia del calcio ha riempito le sue pagine: da Renato Curi a Marc Vivien Foé, da Antonio Puerta a Piermario Morosini. Sono rimasti gli stadi intitolati, l'eco degli applausi dopo i minuti di silenzio, i disegni dei bambini e le sciarpe sulle recinzioni dei centri sportivi.

Alla morte di Morosini nel 2012, proprio Astori scrisse un tweet che diceva: “Il rinvio delle partite adesso non conta nulla. Ora stringiamoci in silenzio e ricordiamo Mario”.

2010/11, con Nainggolan a Cagliari (foto di Enrico Locci / Stringer).

Mentre è in rossoblu arriva la chiamata dell'Italia di Prandelli. E l'esordio, e il primo gol. L'ultimo giocatore del Cagliari che aveva segnato in nazionale era stato Gigi Riva, esattamente quarant'anni prima.

In maglia azzurra Astori collezionerà 14 presenze, dal 2011 a oggi, con molta irregolarità e l'esclusione dall'Europeo. Anni poco brillanti, anche questi. Il rispetto e l'affetto dei compagni, anche qui.

Dopo sei stagioni in Sardegna, a ventisette anni, in quello che d'abitudine è il giro di boa della carriera di un calciatore, lui fa il salto e va alla Roma in prestito. Una stagione in chiaroscuro, che si conclude senza il riscatto dei giallorossi. L'unica volta da professionista senza il numero 13 sulle spalle. È doloroso pensare che il giro di boa si sia rivelato tutt'altro.

Anche alla Fiorentina ci finisce in prestito ma l'esperienza sarà completamente diversa.

Non solo trova una nuova casa, dopo la Val Brembana e la Sardegna (“Firenze è la mia dimensione”), non solo viene riscattato dalla società, ma nell'estate 2017 viene nominato capitano. “Non so se sono un leader, di sicuro quando serve dico quello che penso” sono le sue parole, che ben riassumono la sua personalità modesta ma ferma.

L'assegnazione era stata benedetta dallo storico capitano della Viola, Manuel Pasqual, che di Astori era molto amico: “Sono stato orgoglioso che quella fascia andasse sul tuo braccio”.

L'ultima volta in campo, 25 febbraio 2018 (foto di Claudio Giovannini / Getty Images).

Ci sono calciatori più visibili, che il mondo esterno percepisce come carismatici e non lo sono necessariamente. Poi ci sono calciatori capaci di confortare, strigliare, guidare i compagni senza darlo a vedere, leader silenziosi. Astori la fascia di capitano se l'era conquistata attraverso questo modo rigoroso (Allegri a Cagliari lo chiamava “il Tedesco”) e sobrio di fare il proprio lavoro.

Come sempre in questi casi, qualcuno ha relativizzato. Un calciatore ha la fortuna di stare sotto i riflettori ma di tragedie così ne capitano di continuo. Stavolta è stato Dani Alves a voler ricordare che, sì, il dispiacere, d'accordo, ma muoiono anche tanti bambini di cui non si parla. Come sempre in questi casi, qualcuno avrà apprezzato il pensiero, in nome della lotta all'ipocrisia, la retorica del dire quello che si pensa.

Il feretro ha attraversato Firenze, nel giorno del lutto cittadino, tra due ali di folla che applaudiva e accarezzava il carro funebre. Il messaggio della squadra letto da Badelj, nella basilica di Santa Croce, a un certo punto diceva: “Tu sei il calcio, quello puro dei bambini”.

La sciarpata, i fumogeni e i cori incorniciavano la piazza. Sono venuti da dovunque, c'erano bandiere e accenti di tutt'Italia, migliaia di persone. C'erano i vertici del calcio italiano e dell'amministrazione comunale, c'erano Javier Zanetti e la Juventus atterrata da Londra, Emilio Butragueño e Marco Van Basten. È stato un momento di tregua da qualsiasi cosa.

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