Júlio César
Sulla verticalizzazione di Schweinsteiger, Lucio è stato attirato fuori posizione dal movimento incontro alla palla di Olić e Maicon non ha seguito Altintop, che serve Müller in corsa verso il centro dell’area. Sono passati sedici secondi dall’inizio del secondo tempo, l'Inter sta vincendo 1-0. Júlio César rimane in piedi, all’ultimo momento sposta tutto il peso del corpo alla sua sinistra e devia la conclusione con la gamba destra.
«Subito dopo ho pensato a Mourinho», che gli ricordava che non gli fosse richiesto molto, 1/2 parate a partita, ma doveva farsi trovare pronto. Così come al Camp Nou, poco dopo l’espulsione di Thiago Motta, quando Messi disegna una traiettoria sublime ma Júlio copre tutto lo specchio con stacco da lunghista, spingendo la palla in angolo e l’Inter in finale.
Da quel 22 maggio una sequenza di infortuni e lacrime: dopo un’uscita franata su Felipe Melo e la sconfitta contro l’Olanda nel 2010, dopo due errori contro il Bayern negli ottavi di Champions del 2011, e nel giorno dell’addio. Dopo aver rifiutato il ruolo di secondo di Handanović, Júlio César si ritrova nel giro di un anno secondo di Robert Green in Championship. Adesso è al Benfica, che ha vinto il campionato, e pare andare meglio, ma vale la pena ricordare che al Mondiale brasiliano, prima dei sette gol e di altre lacrime, si era fatto trovare pronto.
Maicon
Al minuto undici riceve palla da Sneijder, la porta in avanti con due tocchi e carica il tiro alla sua maniera, la testa bassa, la schiena curva e le spalle in avanti rispetto al busto. Esito neanche degno di replay, palla lontana dal palo, ma era il suo modo di stare in partita, concedere ai centrocampisti di alzare la testa e trovarlo sempre, e arrivare al tiro con due tocchi.
È la valvola di sfogo perfettamente brasiliana in quell’Inter ossessionata dal governo degli spazi, quando restringe il campo e punta il secondo palo. Così aveva segnato il suo primo gol a San Siro con l’Inter, così segnerà l’ultimo, meraviglioso. Il 2010 è un anno in cui gli riuscivano con una certa naturalezza cose così ma soprattutto così, quella magia in palleggio qualche giorno dopo il sorpasso della Roma, qualche giorno prima il 3-1 al Barça (segnerà anche qui).
Quel resto qui a favor di telecamera aveva restituito l’entusiasmo per la volata finale, ma ha poi aumentato i rimpianti, perché pochi mesi dopo lo si vede consumato da Gareth Bale e nei restanti due anni entrare e uscire dalle cliniche per controlli al menisco. Copione ribadito anche a Manchester e poi a Roma, dove ha dimostrato di essere determinante ma si è nuovamente arreso alla cartilagine del ginocchio che non sembra potersi rigenerare.
Lucio
Da romanzo popolare, l’Inter chiese Van Buyten ma Van Gaal preferì liberarsi di Lucio. Dopo un decennio da attore non protagonista della più iconica delle reti, si presenta in finale con discrete motivazioni. Era il difensore chiesto da Mourinho per alzare la difesa di 20 metri, poi l’Inter con la difesa alta non ci ha mai giocato. Fedele allo stereotipo brasiliano, è l’uomo delle delizie e delle croci che impennavano il cardiogramma dei tifosi con le sue improvvisazione palla al piede.
La sintesi del suo calcio al minuto 23: Müller lo supera con un elegante controllo, Lucio recupera e sporca la palla sospesa in aria sollevando la gamba destra sopra la testa, lontano da qualunque considerazione della grazia, sistemando una mano in faccia al tedesco per sicurezza.
Male negli anni a seguire, in balia degli esperimenti di Gasperini e di dimostrazioni di instabilità. Così viene accolta passivamente la firma con la Juventus, dove dura il tempo di stimolare domande idiote che quasi riescono a turbare Zanetti, e poi scompare.
Samuel
Walter Samuel è stato Muro nella più letterale delle accezioni. Succede un attimo prima che Milito sigilli il raddoppio, al minuto 70. Robben completa l’ennesimo dribbling sulla destra e arriva al cross, Klose svetta su Maicon, la sponda termina nella zona di Olić, che in un attimo trova la coordinazione.
Samuel respinge quel tiro con quello stile che non è associabile a nessun altro, facendo perno sulla gamba sinistra e rimanendo sospeso a mezz’aria, parallelo al terreno, impattando con la schiena. Quando la traiettoria disegnata da questo geniale scudo umano si spegne 30 metri più avanti, sette giocatori del Bayern sono sopra la linea della palla, e il resto è storia.
È impossibile non menzionare Inter-Siena. Sembra l’avatar di Mourinho, uno in campo coi muscoli tesi, l’altro in panchina in impermeabile scuro, esultano in simultanea con la stessa gestualità. Poi salta la stagione successiva per i legamenti del ginocchio, ma quando torna decide un derby.
È finito a Basilea, dove titolano "Mio Dio, Walter", gli rinfacciano lo stipendio ancora alto e le apparizioni rare e inadeguate in quello che dovrebbe essere il suo ultimo, malinconico, anno di carriera.
Chivu
La prima apparizione pubblica del secondo Christian Chivu si registra sulla Gazzetta dello Sport del 6 febbraio 2010. Ha il cranio rasato e una cicatrice a forma di ferro di cavallo, postumi dell’intervento che ha consentito la rimozione dei frammenti ossei scivolati verso la parete cerebrale.
Ritorna in campo il 24 marzo. «Negli ultimi giorni il mister mi aveva chiesto se avevo paura. Ero più emozionato del solito, ma non ho avuto paura». Come poteva averne di Robben, che lo punta per la prima volta al minuto 9 e continua a farlo fino alla sua sostituzione.
Il punto di congiunzione con il primo Christian Chivu è il gol bellissimo che chiude la pratica Atalanta, nel giorno del sorpasso sulla Roma poi definitivo. Calcia di sinistro dalla distanza, solleva il caschetto al cielo, raccoglie gli abbracci.
Ha lo stesso sorriso che gli si legge quando saluta il Bernabéu, ma nei quattro anni che seguono patisce l'impiego da terzino e una serie di infortuni da record, come accenna nella sua lettera d’addio al calcio.
Zanetti
C’è un motivo per cui Javier Zanetti è l’uomo delle larghe intese, per cui muovendosi trasversalmente tra gli addetti ai lavori, le tifoserie, i gradi di cultura sportiva, è impossibile trovarci un argomento contro. Un motivo che trascende il suo essere bandiera, la sua ossessiva etica del lavoro, la sua correttezza e il suo impegno per il sociale, e che più strettamente riguarda una tensione irrisolta nella cultura occidentale: osservandolo si ha l’impressione che il tempo non passi mai.
Il dribbling di Zanetti è rassicurante, è una processione laica. Nella notte della finale, lo si vede pattinare tra le linee del centrocampo tedesco ed è subito 1995, non un filo di barba in più, non un capello in meno. Piace come piacciono i supereroi Marvel, con la serenità che da qualunque contrasto uscirà vincitore, con la curiosità di capire come.
Ha sollevato otto coppe in tre anni, si è rotto il tendine d’achille a quasi 40 anni ed è tornato sette mesi dopo in una notte milanese, nell’ultima di Moratti da presidente, portando palla per 40 metri nell’azione del raddoppio.
Cambiasso
La sua stagione in quel gol che mette l’Inter davanti al Chelsea e proietta le aspettative stagionali in una nuova dimensione: di prima, di sinistro, di forza. Un cross respinto dalla difesa, un pallone che non doveva arrivargli, calciato con tutta la grinta che serve, una, anzi due volte, e se ritorna esattamente nello stesso punto quel pallone è lì per un motivo.
Così la sua finale, giocata a un tocco, verticalizzando a testa alta oppure toccando alle spalle, giocando ad attrarre la difesa bavarese. Tutti palloni che non dovevano arrivargli, perché se hai quella comprensione del gioco arrivi a manipolarlo a un livello così sottile che dall’esterno sembrerà tu abbia il joystick (o la paletta).
Rimane all’Inter altri quattro anni, lottando per rispondere alle insinuazioni sul suo peso nello spogliatoio, sul suo peso e sul peso del suo stipendio, anacronistico retaggio dei tempi che furono. Rispondendo così, all’occorrenza.
Le trattative per il rinnovo realisticamente non iniziano neanche, altrettanto realisticamente l’idea del ritiro non lo sfiora, così si sposta con contratto annuale a Leicester, conducendo le Volpi a un’insperata salvezza. È l’essenza, e l’intima condanna, del sentirsi Esteban Cambiasso: non smettere mai di sentirsi utile, non smettere mai di esserlo.
Sneijder
Può un numero 10 fare cose da numero 10 in una squadra che chiude col 32% di possesso palla? Sì, ma deve essere il miglior giocatore al mondo. Torna utile che nel 2010 Wes lo sia certamente, servisse ricordare che dopo aver vinto qualunque cosa potesse vincere con l’Inter va in Sudafrica e segna cinque gol (due nei quarti per eliminare il Brasile), mentre la definizione «cose da numero 10» appariva sempre più riduttiva.
Del resto se arrivi a Milano il giorno prima di un derby, Mourinho ti mette subito in campo e ti dà l'ordine e l'onore di battere tutto (calci d'angolo, punizioni, eventuali rigori), il derby poi lo vinci 4-0 da protagonista e se, in più, hai la tendenza a risolvere problemi all’ultimo minuto (Udinese, Siena, Kiev, dove l’Inter era un piede e mezzo fuori dalla Champions), allora deve essere la tua stagione.
In finale tocca forse 20 palloni, tra cui l’assist per il primo gol di Milito, ma sono tutti preziosissimi. Il colpo di tacco di prima a 03:39, il controllo con cui aggira una doppia marcatura a 26:03, il tocco in verticale e taglio nello spazio a 42:15.
Firma a gennaio 2013 con il Galatasaray, dopo il rifiuto di spalmarsi lo stipendio e un’imbarazzante gestione del caso. Nei due anni e mezzo che passano, tra stiramenti e lesioni muscolari, regala ancora un paio di sere da migliore del mondo.
Pandev
La retorica del se ti avessero detto che ha sua immagine e somiglianza.
Il 23 dicembre 2009, Goran non vede il campo da 7 mesi, messo ai margini della rosa per questioni contrattuali. È il giorno in cui la Lazio è condannata a pagargli 160mila euro e il suo contratto viene risolto. «Vedremo poi chi la vincerà», sentenzia Lotito. (Ovviamente Pandev, e sono altri 10mila di spese legali).
Un mese dopo la sentenza decide un derby che in realtà aveva deciso Mourinho, nel senso di scritto e consegnato al destino. Cinque mesi dopo solleva il terzo trofeo stagionale.
È la pedina che serviva per passare al 4-2-3-1 (prima l’Inter giocava col rombo), della sua corsa a testa bassa ci si innamora facilmente, le sue palle perse si perdonano. Al 47esimo della finale impegna Butt con un tiro a rientrare, prove tecniche per il capolavoro del 2011.
Al Napoli ha reso a tratti, è partito per Istanbul perché Benítez non è adatto al calcio italiano(cit.) e l’anno prossimo sarà al Genoa, dove potrebbe rivedere l’Europa, licenza Uefa permettendo.
Eto’o
Nelle parole di Kirchmayer, professore di estetica, «la vittoria del modello Toyota». In una squadra perfettamente funzionale, geometrica, vincente, il calciatore più pagato non è il talento che rompe gli schemi, ma il più funzionale, il più geometrico, il più vincente dei suoi colleghi.
L’assenza di una heatmap che rappresenti la finale di Eto’o è desolante, è un torto all’ideale estetico perfettamente compiutosi quel 22 maggio. Lo si vede sempre sotto la linea della palla, all’occorrenza sotto Altintop, che teoricamente sarebbe l’uomo di Maicon.
Quando Sneijder gli recapita il pallone a 69:26 prospettandogli un 2 contro 3, non improvvisa, non perde di vista la catena di montaggio: palla coi tempi giusti a Milito, 2-0.
La stagione successiva firma 37 gol, record nella storia dell’Inter, poi saluta nel momento migliore, per un contratto migliore, senza neanche chiedere dove fosse Makhachkala.
L’Inter non ha poi vinto più nulla, lui neanche, ma voglia ne ha ancora tanta (che fosse il Match for Expo, dominato in mezzo a ex-calciatori, non sembrava potesse fare la differenza).
Milito
Il primo boato del Santiago Bernabéu si avverte dopo 32 secondi, quando Diego Milito si lancia in pressione su Van Buyten costringendolo alla palla persa. Alcuni finali si intuiscono dalla prima scena.
L’idea che fosse migliore di Acquafresca si era fatta strada subito, dal pallonetto in allenamento, primo accenno di viralità negli allora social, alla doppietta nel derby giocato a Boston.
Nel 2010 Milito segna sempre, al Chelsea, al CSKA, al Barcellona. Le partite decisive sembrano riprodotte in replica: 1-0 alla Roma per vincere la Coppa Italia (gol suo, bellissimo), 1-0 al Siena per vincere il campionato (gol suo, bellissimo). Era difficile immaginare uno scenario diverso per la notte in cui emana i suoi due editti regali.
Il primo, in cui aggiunge un frame alla coordinazione, rilascia il tiro, interrompe il gesto, calcia un istante dopo, il buffering meno molesto di sempre. Il secondo, con cui si appropria definitivamente dell’idea di sterzata nell’iconografia calcistica, posto che Van Buyten non ci fa una gran figura.
Il «nel calcio non si sa mai, ho un’offerta importante, vediamo» pronunciato a partita conclusa è la prima frattura dello stato di assoluta concentrazione e di perfezione esecutiva in cui Milito era calato, il prologo a una progressiva fase calante che lo accompagnerà a fine contratto, rinnovato in un momento di eccessivo entusiasmo.
Poteva andare in MLS o in Qatar, è tornato ad Avellaneda riportando un titolo nella bacheca del Racing dopo 13 anni. Al momento sono ai quarti di Libertadores, alzi la mano chi non vorrebbe un’altra notte in cui il Principe diventa Re.
Stanković
Entra due minuti prima del 2-0, è il primo a raggiungere Milito per abbracciarlo, e questa è sostanzialmente l’ultima occasione in cui lo si vede superare la propria metà campo. Curiosità: si trova in campo con Pandev, che era passato alla Lazio in cambio del suo cartellino.
La sua dedizione alla causa è tanto nei 25 minuti giocati a tamponare spazi e stringere linee a discapito del suo strepitoso piede destro, quanto nella sua lettera di addio, in lacrime al termine di un anno fuori per un intervento al tendine d’achille e postumi muscolari. (Nel mezzo, il tempo di impartire una preziosissima lezione a Manuel Neuer).
Per l’ultima sostituzione della sua carriera, ventuno giocatori si schierano a formare un tunnel che lo accompagna a bordocampo, una chiusa di sipario teatrale per il più spettacolare dei mestieranti.
Muntari
Si fa fatica a figurarlo, ma c’era anche lui, schierato esterno sinistro nel 4-4-2 degli ultimi quindici minuti, con nessuna delega al controllo della palla e plenipotenziario in materia di trash talking. C’era anche a Barcellona, per venticinque minuti abbondanti, in un concerto di imbruttite a Dani Alves qualora reclamasse falli e di altre cose che la memoria collettiva non conserva su YouTube.
Pagato 14 rimpiantissimi milioni per rimpiazzare il mancato arrivo di Lampard, riuscì poi a riciclarsi trequartista sulla scia dell’effetto-Ibra (vedi Boateng, Nocerino, Matuidi). Da lì in poi la progressiva marginalizzazione e il trasferimento al Milan, un’altra divertente sliding door, condita da una reazione nostalgica nell’ultimo derby vinto dall’Inter, in memoria dei bei vecchi tempi.
Materazzi
Tenendolo d’occhio dal suo ingresso in campo a 91:15 fino al fischio finale si nota come non abbia mai occasione di toccare la palla. Eppure è un cambio decisivo, perché consente agli spettatori del Bernabéu di alzarsi in piedi per celebrare Milito e conferma, ce ne fosse il bisogno, che, fosse un autore, Mourinho sarebbe il miglior autore al mondo. O se conoscete season finales migliori di questo, scrivete nei commenti.
Non esiste festeggiamento che non abbia MM protagonista, lo smoking bianco, la maschera di Berlusconi, il nun è successo. Ironicamente, dalla sua rescissione l’Inter non ha più festeggiato nulla.
Ad 88:40 si vede il quarto uomo avvicinarglisi—gli tasta i polsini, gli guarda nel collo della maglietta. A una prima occhiata sembra un regolare controllo di sicurezza, alla seconda è già chiaro: stava controllando che avesse spazio sul corpo per tatuarsi la Champions League.