«Io non diventerò mai un allenatore, è un mestiere troppo totalizzante, troppo ingrato».
Rudi Garcia
A giugno del 2013, appena 2 anni e mezzo fa, quando la Roma sceglie di affidare la panchina a Rudi Garcia, di lui non si sa praticamente niente. Nei primi giorni circola soprattutto un video in cui è seduto nello spogliatoio del Lille e suona "El Porompompero", un biglietto da visita leggero, ma forse non adattissimo a una piazza che dopo due anni di Luis Enrique e Zeman vorrebbe mettere da parte folklore e velleità.
Pian piano però si scoprono più cose: Garcia è francese di origini spagnole, suo nonno, in fuga dal regime franchista, è emigrato oltre i Pirenei in cerca di lavoro. Tutto inizia lentamente a cambiare e in breve tempo Garcia riesce a costruirsi un’immagine affascinante, o quanto meno molto diversa da quelle che eravamo abituati a vedere nell’ambiente romano. Nelle interviste parla della sua formazione culturale, di vini e del suo paese di origine, in Andalusia, «dove si vive di mare e di pesca»; sa parlare in modo autoironico dei drammi del calciomercato e nella sua autobiografia ha descritto con leggero sarcasmo la mitomania che circonda Totti a Trigoria.
Con sé porta un assistente che comunica con lui dalla tribuna con la radiolina e che ama bere solo champagne. Garcia ama l’Olanda di Cruijff, il Sangiovese e Platini. In Francia è considerato non solo uno dei migliori allenatori del campionato, ma anche uno dei più eleganti. Nel suo primo periodo in Italia sembra una persona garbata, piacevole e in un certo senso persino distaccata. Pare aver capito che per sopravvivere in una città come Roma non bisogna prendersi troppo sul serio. Che in una città dove il calcio sembra una missione evangelica la strategia migliore è limitarsi a fare i professionisti.
Può essere scioccante confrontare quel Rudi Garcia a quello attuale, che al culmine di una confusione calcistica e retorica arriva a dire di volere in campo «11 lupi», si autoproclama «capobranco» e pare aver posto la sua permanenza a Roma come una questione di vita o di morte.
Rudi Garcia è davvero cambiato o abbiamo solo imparato a conoscerlo meglio? Rudi Garcia è la persona brillante che avevamo conosciuto ai suoi inizi o l’attuale personaggio un po’ cupo e, dall'esterno, fuori controllo?
Prologo: post-apocalissi
Il 26 maggio del 2013, intorno alle 20, quando l’arbitrio fischia la fine della partita lo stadio è avvolto da un brusio che somiglia al fischio che precede l’eruzione di un geyser. La Roma ha perso la finale di Coppa Italia con la Lazio ed è sprofondata in una cupa disperazione, la parte di città giallorossa inizia allora a cercare i colpevoli per rendere quanto meno più sopportabile il dolore: come nella congiura di Catilina, lo sguardo dei tifosi della Roma rivolge la propria pressione verso la tribuna autorità, dove Fenucci, Baldini e Sabatini siedono impacciati dal senso d’assedio. Una dinamica comune in una città che, proprio perché abituata a convivere con il potere e le istituzioni, non fatica ad andarle a contestare fisicamente.
Per quanto possa sembrare assurdo in un contesto capace di rinnovare continuamente il senso della tragedia, quella Roma era in un momento decisamente peggiore di quella attuale. I due anni di dirigenza americana avevano portato un sesto e un settimo posto e una finale di Coppa Italia che chiunque, col senno di poi, avrebbe preferito non giocare. Ai risultati sportivi si aggiungeva il conflitto culturale tra la dirigenza, intenzionata a introdurre uno stile più business-oriented, e i tifosi, sfiduciati e sospettosi verso personaggi estranei che percepivano come invasori.
La loro presenza si percepiva attraverso una serie di scelte discutibili o, quanto meno, intempestive. Tre giorni prima di quel derby del 26 maggio si era deciso per esempio di presentare il nuovo logo della Roma privo della dicitura “AS”, accolto come un vero attentato all’identità storica del club. Una mossa che gettò su quella partita da subito una luce nefasta, confermata dalla performance di PSY ricoperta dai fischi prima dell’inizio.
Ancora oggi uno dei più efficaci esempi dell’espressione “scelta infelice”.
A quei giorni seguirono contestazioni feroci. Già quella sera fuori da Trigoria si radunarono quasi 200 persone a cantare «ridateci la Roma», come se l’arrivo degli americani avesse davvero portato via qualcosa di profondo e, per certi versi, immateriale. A sigillare il tono apocalittico uno striscione il giorno dopo: «Sfregiati 86 anni di storia».
Atto I: Garcia, il motivatore
La situazione che Rudi Garcia trova a Roma è quindi post-apocalittica in senso quasi letterale. E in pochi ritenevano l’allenatore francese in grado, in qualche modo, di gestirla. Di Garcia in quel momento si sa pochissimo: il curriculum è discreto, ma non eccezionale e infatti rappresentava addirittura la quarta scelta della dirigenza per il ruolo.
Prima di Garcia erano stati contattati Allegri e Mazzarri, e si era provato a prendere persino Laurent Blanc. Nella sua autobiografia Garcia racconta un incontro con Sabatini a Milano: «“Ti abbiamo fatto venire, ma non sceglieremo te”. Poi a un certo punto si è alzato, mi ha fatto vedere la Gazzetta e mi ha detto: “Tutti si aspettano che porti un grande nome a Roma. Se porto un grande nome mi applaudiranno. Ma io me ne frego degli applausi”». Un dialogo molto cinematografico, ma che, comunque lo si voglia leggere, non fa apparire Garcia sotto una luce incoraggiante.
Quella di puntare su Rudi Garcia è stata una scelta talmente indecifrabile che si faticava persino a essere del tutto scettici. Sembrava una presa in giro. Un sondaggio del Corriere dello Sport aveva stabilito che più della metà dei tifosi della Roma non riteneva il francese l’allenatore giusto. Garcia era così poco conosciuto che Il Sole 24 oretitolava: «La Roma ha scelto Rudi Garcia, il tecnico che ama giocare alla Zeman».
Eppure i primi giorni di Garcia alla Roma sono, a modo loro, una rivoluzione. Nella sua prima conferenza stampa si presenta con un italiano quasi perfetto, sostenendo di voler arrivare a un livello in cui riesce a esprimersi “attraverso le sfumature”. Il primo giorno di allenamenti va verso le tribune dove i tifosi stanno ancora contestando la squadra e dice «chi contesta la squadra è della Lazio». Non la frase più brillante possibile, ma è efficace, schietta, che arriva al punto. Da una parte si mette a difesa della squadra, proteggendola dalla negatività esterna; dall’altra fa capire ai tifosi che si lamentano della proprietà assente e distaccata che se vogliono un canale comunicativo possono parlare con lui, che è pronto a metterci la faccia. In questo modo viene fuori come una figura forte, che forse nessuno si aspettava di trovare. I tifosi da una parte si sentono oltraggiati, ma dall’altra apprezzano il coraggio, la franchezza.
Si tratta di una mossa che Garcia ha chiaramente studiato e questo è di per sé una notizia. La Roma non è abituata a trovarsi in casa un allenatore che sceglie e cura le proprie mosse comunicative, anzi, negli ultimi anni si era per lo più trovata in mezzo agli attacchi degli altri (qui e qui, per esempio).
Il profilo di un allenatore comunicatore sembra il migliore per un ambiente dove è fondamentale capire gli umori della piazza e saperli trattare. E Garcia sembra proprio il tipo di allenatore che risponde alla complessità dell’ambiente con una complessità comunicativa. Durante la firma dei contratti Rudi Garcia racconta di essere arrivato a sbattere i pugni sul tavolo per velocizzare i tempi. Pare che Sabatini a quel punto abbia tirato un sospiro di sollievo: «Sono contento che tu sia qui Rudi, ci serve un capo!».
Nelle sue prime dichiarazioni, Garcia parla soprattutto di restituire alla squadra il divertimento di giocare e ai tifosi l’orgoglio verso i propri giocatori. Sono obiettivi piccoli, ma in quel momento ambiziosi. «Quando sono arrivato ho trovato un gruppo di giocatori, non vorrei dire paralizzati ma… sfiduciati, molto disamorati».
Ci tiene a ribadire quanto nell’ambiente serva soprattutto serenità e fiducia: «Capisco che i tifosi non siano contenti per i risultati, soprattutto per l'anno scorso, ma questo non deve impedire di avere rispetto per il club. Che ci lascino lavorare con fiducia e che ci diano serenità, giudicandoci per il lavoro che svolgeremo». Sembra avere la sensibilità per maneggiare una situazione molto delicata: ha capito dove si trova, dove mettere le mani, quali anticorpi servono e che tutto ha un peso molto preciso. Appena atterrato a Fiumicino dice: «So che non ho il diritto di sbagliare» e a l’Equipe, dopo le prime quattro vittorie: «Qui tutti impazziscono facilmente e ti parlano di titolo appena dopo quattro partite».
«Sarete orgogliosi della squadra». Garcia viene coperto dai fischi, ma sa di toccare le corde giuste.
Nelle prime settimane Garcia ha l’aria di un uomo in missione. Ha trovato un ambiente completamente depresso e deve preoccuparsi soprattutto di rafforzarlo psicologicamente. In questo senso sembra davvero l’uomo giusto al momento giusto. Durante il ritiro estivo organizza delle sessioni di rafting per migliorare “il team building” e nello spogliatoio istituisce un “consiglio dei saggi” per instaurare un rapporto con i giocatori che non sia fondato sul confronto individuale.
Eppure c’è qualcosa di paternalistico nel modo in cui Garcia concepisce il ruolo dell’allenatore. In un’intervista a Daria Bignardi dice che per lui non c’è molta differenza tra fare il padre e fare l’allenatore e spesso ricorda: «Con i giocatori non sono né troppo docile né troppo severo. Educo come alleno: discuto, correggo, offro riferimenti. Non dirigo, accompagno». Garcia sembra sinceramente ossessionato dall’idea del rapporto umano con i suoi giocatori, un insegnamento che forse si è portato dietro da quando si occupava soprattutto dei rapporti tra giocatori e staff tecnico ai tempi del Saint-Etienne. Un ruolo simile a quello di Josè Mourinho nel Barcellona di Robson: «Un giocatore vale molto. Un altro giocatore vale molto. Ma il rapporto tra i due non ha prezzo» ama ripetere spesso.
I risultati vanno oltre ogni previsione e Garcia inizia a essere investito di un ruolo messianico. Da una parte viene definito “uno scienziato del calcio”, dall’altra se ne apprezza però la flessibilità e il pragmatismo. Se da una parte viene definito “l’anti-Mourinho”, dall’altra si precisa “Vince come Mourinho, parla come Bergoglio”, un paragone particolarmente efficace in un paese tanto attaccato ai propri feticci nazionali quanto pronto a eleggere papi stranieri. Garcia piace alla stampa perché non è né banale né aggressivo: ha una retorica ricca, ma non spiazzante. Non usa l’ambiente esterno in modo strumentale come Mourinho, non è aggressivo nei confronti della stampa, che usa piuttosto come un palcoscenico su cui salire: «Un allenatore deve essere anche un attore».
Le prime 10 vittorie consecutive non solo proiettano la Roma verso una dimensione insperata, ma mettono in scena una serie di simbologie ai limiti del misticismo.
Proprio prima di quel derby aveva lanciato una delle sue dichiarazioni più iconiche: «Un derby non si gioca, si vince», dimostrando una sicurezza e un determinismo dialettico che poi saranno il suo marchio comunicativo, insieme al gusto per le frasi a effetto un po’ alla Celentano. L’allenatore è un attore non solo in senso “mourinhano”, cioè come parafulmine offerto alle tensioni esterne, ma è una persona che usa il palcoscenico esterno per creare le energie che dovrebbero riversarsi in campo.
Dopo la vittoria, come se la Roma non fosse già abbondantemente inserita dentro una dimensione epica, dice: «Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio», volendo appunto significare, con una certa spacconeria molto romanista, che la Roma che batte la Lazio rappresenta semplicemente l’ordine naturale delle cose. Un messaggio simile a quello del telecronista-tifoso Carlo Zampa, che durante la partita dice «la ricreazione è finita». Qualche mese dopo una giornalista sportiva scriverà un intero libro dedicato a Garcia a partire da quella frase, a testimonianza di quanto fosse riuscito a toccare qualcosa di molto profondo e primitivo nei tifosi della Roma. Ma come ha fatto a riuscirci in così poco tempo?
Nella stessa conferenza dice: «Da oggi mi sento romanista come voi», e non era ancora chiaro fino a che punto fosse vero.
Atto II: Garcia, il profeta
Cosa significa essere romanista? È il desiderio modesto di supremazia cittadina o il rimpianto della finale di Coppa dei Campioni dell’ '84? Sono i sogni di gloria di inizio stagione o il nichilismo che accompagna i fallimenti? È la retorica imperiale che spesso sostanzia le auto-rappresentazioni dei tifosi e della società o la tendenza ad affezionarsi ai giocatori più modesti della squadra e a piccoli simboli identitari? È il gladiatore tatuato sul braccio di Totti o i silenzi di Di Bartolomei? L’entusiasmo irrazionale o la disillusione?
La Roma è da sempre imprigionata nel limbo tra una dimensione minore, accessoria, e una davvero vincente, ambiziosa. In questo senso il club rispecchia in parte le contraddizioni di una città da sempre stretta tra grandeur e inadeguatezza. Tra la piccola città agricola e papalina ottocentesca e la grande capitale del Regno d’Italia novecentesca. Gli ultimi anni hanno esasperato ancora di più questo senso di approssimazione: la squadra ha raggiunto 7 secondi posti in 15 anni, vincendo una sola volta lo scudetto. Quando si dice che è una piazza difficile, forse non si considera che effetto possa avere una situazione del genere su chi la vive. In tal senso la fede romanista somiglia a quei grandi apparati religiosi fondati sull’idea di una liberazione, di un riscatto. Il rastafarianesimo o la teologia della liberazione. Da una parte una condizione minoritaria (nel contesto italiano), accompagnata da un perenne senso di persecuzione e di ingiustizia; dall’altra la certezza di una predestinazione alla vittoria e l’attesa di un sol dell’avvenire che non tarderà ad arrivare.
Che questo sia il grande apparato ideologico al fondo dell’identità di un tifoso romanista, Rudi Garcia deve averlo capito bene, se all’inizio di questa stagione ha dichiarato: «Il destino della Roma è la vittoria». Una specie di manifesto: l’ordine naturale delle cose prevede la Roma al centro del villaggio, il suo destino è quello di vincere: «Ho voglia di dare il meglio di me per poter vincere dei titoli con questo club che lo merita, che è la squadra della capitale e che, per me, ha vinto troppo poco nella sua storia».
Come fa un tifoso a non amare Rudi Garcia? Come fa a non amare un uomo che in conferenza stampa inserisce le proprie idee più inconfessabili in una sceneggiatura storica? Forse più di ogni altro predecessore, anche più di Zeman, che non ha mai assecondato un certo machismo proprio di una parte della tifoseria, Garcia si è elevato a profeta del romanismo. Capace, come tutti i profeti, di giocare con le simbologie più amate dal suo popolo. Alla presentazione del progetto del nuovo stadio, che definisce “un Colosseo moderno”, dichiara che sarà importante «permettere ai gladiatori che sono i nostri giocatori di avere un terreno di espressione fantastico» e poi ammette: «Ho l'impressione di essere stato adottato come un bambino dalla città».
Non è un caso se all’inizio del secondo anno dell’allenatore francese, Francesco Totti abbia dichiarato in conferenza stampa: «È un grande comunicatore, anche se è straniero ha capito l'ambiente in tutto e per tutto. Come si dice a Roma: è un bel paraculo». L’impressione, a voler fare i pignoli, è che a un certo punto Garcia si sia calato fin troppo nella parte, iniziando a flirtare anche con i lati più oscuri del tifoso della Roma.
«A parte il Papa, a parte Francesco Totti, l’unico Re di Roma era il Libano di Romanzo Criminale». Garcia che assorbe gli umori peggiori della città.
Se per comodità si vuole individuare un punto di inizio del cambio di atteggiamento e di linea comunicativa basterebbe tornare al pandemonio scatenato attorno a Juventus – Roma dell’ottobre 2014.
Durante una partita ricca di tensione e di decisioni al limite, che la Roma finì per perdere 3-2 all’ultimo minuto, Garcia si era lasciato andare a un altro gesto iconico, sviolinando nei confronti dell’arbitro.
È impressionante l'iconografia che Garcia ha costruito nel giro di appena due anni e mezzo.
In quel momento, senza che lo dichiarasse egli stesso (come ha fatto poi in seguito), è chiaro che Garcia si è trasformato in un capobranco, che codifica ogni gesto e dichiarazione all’interno di un’idea di difesa del clan. Non è più, però, un allenatore che protegge la squadra dalle energie negative dell’ambiente, anzi: finisce per fomentarle. Non si limita più a giocare con la simbologia romanista per assecondare l’entusiasmo dei tifosi, ma la usa anche per creare alibi, alzare i toni, creare dissapori. Dopo la partita Totti dichiara che la Juve dovrebbe giocare un campionato a parte e Garcia in conferenza, invece di glissare, ragionare a mente fredda, parlare in un modo comprensibile anche fuori da Roma, dice: «Se Il Capitano ha parlato così è perché i suoi valori sono stati traditi e voleva giustizia».
Durante quasi tutta la stagione, almeno finché la distanza calcistica tra le due squadre si è fatta innegabile per chiunque, Garcia ha usato quella partita per sminuire il primato della Juventus, manipolando così un altro topos dell’ideologia romanista, quello del senso di persecuzione e del “vento del nord” evocato da Franco Sensi. Anche qui smentendo il sé stesso di qualche mese prima che, sempre a Le Invasioni Barbariche, aveva negato con decisione l’idea che la Roma fosse una squadra perseguitata. Proprio in quella conferenza stampa Garcia aveva di nuovo giocato al rialzo con l’ambizione:
Una convinzione che era riuscito a trasmettere anche ai tifosi, che dopo la sconfitta per 7 a 1 contro il Bayern Monaco avevano applaudito la squadra cantando: «Vinceremo il tricolor». Eppure, a distanza di qualche mese, Rudi Garcia è stato costretto a tornare su quella dichiarazione dall’insufficienza dei risultati, giustificandola come un tentativo di risollevare un ambiente che sentiva depresso e troppo negativo. Forse il primo momento in cui l’allenatore francese sembra perdere un po’ il senso della realtà. Non l’ultimo.
Atto III: Garcia, Re di Roma
Durante il girone di ritorno della scorsa stagione la Roma inizia lentamente a sfaldarsi. La squadra gioca male e comincia a rallentare clamorosamente in classifica: dopo aver trascorso due anni nella situazione mentale della rincorsa al primo posto, in quel momento la Roma deve ritrovare le motivazioni per non farsi superare dalla Lazio in rimonta. È un contesto senz’altro più negativo, più spinoso da gestire, che Garcia non si era mai trovato a dover affrontare alla Roma e che lo porta lentamente fuori controllo. Più la squadra sembra senza idee e in confusione in campo e più Rudi Garcia appare senza idee e in confusione in conferenza stampa, come se il caos calcistico andasse di pari passo a quello retorico. Prima della partita contro la Juventus di marzo prima dice di voler innanzitutto conservare il secondo posto, ma dopo il pareggio (che di fatto azzerava le possibilità per la Roma di raggiungere la Juve) dichiara che lo scudetto è ancora possibile.
Nel frattempo, a metà aprile la Roma viene scavalcata dalla Lazio e Garcia inizia a far venir meno anche la protezione incondizionata della squadra. Dopo un pareggio contro il Chievo dice: «La squadra è stata scarsa, il gioco inesistente»; dopo il pareggio interno con l’Atalanta dichiara che «Nessuno è stato all’altezza»; prima della trasferta a Milano contro l’Inter, persa, dice «Basta dormire». Come dimostrano gli ultimi mesi di Mourinho al Chelsea, il momento in cui l’allenatore inizia a far mancare il proprio sostegno ai giocatori è quello in cui le cose cominciano a precipitare.
Nel frattempo Garcia prova a costruire degli alibi, mostrando ancora una volta una debolezza che aveva tenuto nascosta. Si lamenta da una parte degli infortuni: «Quest’anno siamo stati colpiti duramente dalla sfortuna, penso agli assenti non previsti, ai tanti infortuni» e dall’altra ricorda gli errori arbitrali con la Juve come il peccato originale della stagione: «Senza errori arbitrali a quest’ora saremmo in testa».
Il calendario prevede una deadline molto precisa: il 25 maggio, data di un derby nuovamente decisivo, questa volta per il secondo posto in classifica e l'accesso diretto alla Champions League, con la Lazio. La partita rappresenta l’apogeo della strategia della tensione di Garcia, che nella conferenza pre-match è più “mourinhano” del solito e adotta strategie ormai ai confini del troll. Crea innanzitutto una dialettica “noi contro tutti”: «Noi siamo scarsi, loro invece giocano il più bel calcio d'Italia. Sono favoriti, contro l'Inter hanno pianto e a Genova hanno vinto con un gol irregolare»; dopodiché punzecchia la Lazio anche per lo spostamento della partita voluto da Lotito dalla domenica al lunedì: «Ma il derby quando si gioca? Lunedì? Pensavo che dopo i 120 minuti con la Juventus l'avessero spostato a martedì...». Serve coraggio comunicativo per dire, alla fine di una stagione nel quale lui stesso dichiarava di voler vincere lo scudetto, che la Roma parte sfavorita. In qualche modo la cosa funziona: la Roma vince 2 a 1 su una Lazio stanca e nervosa e si qualifica direttamente in Champions League. Sul campo si festeggia come se si fosse vinto lo scudetto: «Obiettivo raggiunto», dice Garcia.
A fine partita Pioli rimprovera l’allenatore francese di scarsa professionalità, lo definisce un capopopolo, e lui gli grida, in zona mista, senza rendersi conto di dargli ragione: «Rosicone, non sai perdere». Quando gli viene chiesto se non aveva alzato troppo i toni prima del match sembra quasi non capire, come se l’atteggiamento molto sopra le righe, quasi imbarazzante, fosse naturale: «Le mie parole fanno parte dello show. Sono una mossa psicologica, e ha funzionato».
È quello il momento in cui Rudi Garcia si è convinto in modo definitivo che la realtà comunicativa è parallela a quella calcistica? Che l’una definisce l’altra in modo quasi deterministico?
Da quel momento in poi, più la Roma mostrerà difficoltà calcistiche più Garcia alzerà il tono delle dichiarazioni mediatiche. A tutte le difficoltà sul campo si proverà a rispondere in conferenza stampa, nel tentativo di infondere alle parole un potere incantatorio. Come se ogni dichiarazione sopra le righe si trasformasse nell’estremo tentativo di rianimazione di una squadra morente.
Intermezzo: cambiare la realtà con le parole
C’è stato un momento di giugno in cui Garcia sembrava vicinissimo all’esonero. Nell’ultima partita della Serie A la Roma perde contro il Palermo e alla fine l’allenatore fa una conferenza stampa evidentemente preparata nel dettaglio per tutta la settimana. Garcia dichiara che la Roma è arrivata prima nel suo campionato, che la Champions non era un obiettivo scontato, che non bisogna illudere i tifosi (!), che il gap con la Juventus sarà difficilmente colmabile. Garcia sapeva di avere le spalle abbastanza grosse da poter giocare sul filo e di nuovo ha provato a determinare la realtà usando la tribuna stampa come un megafono interno: il messaggio è chiaramente rivolto alla dirigenza, che qualche giorno dopo si riunisce a Londra senza di lui. Sembra vicino all’esonero e invece viene riconfermato e Sabatini gli allestisce una rosa, forse, ancora più competitiva.
La resa dei conti?
In questa stagione, da un certo punto in poi, è sembrato impossibile tornare indietro, uscire dalla bolla di tensione e accerchiamento che si era progressivamente creata lo scorso anno. È facile quindi capire perché questa stagione sia sembrata, sin dalla sua prima partita, una guerra santa. O trionfo o tragedia: non ci sono vie di mezzo.
In un clima di guerra aperta, di soli contro tutti, la gestione del gruppo somiglia davvero a quella di un branco, dove sotto il lupo alfa, l’allenatore, ci sono i lupi beta, quelli del “consiglio dei saggi”, e infine i lupi omega, quelli di rango più basso, che non vedono il campo o vengono sottoposti a sostituzioni punitive. Come quella subita da Iturbe, un giocatore già fragile psicologicamente, dopo 4 minuti dall’inizio del secondo tempo di Roma – Sassuolo; o quella che ha coinvolto Vainqueur dopo appena 40 minuti dal suo esordio da titolare contro il BATE Borisov.
Lo avrebbe fatto, ad esempio, al suo pupillo Keita? A qualcuno con una maggiore influenza nello spogliatoio come De Rossi? I giocatori le sentono queste sfumature nei trattamenti o davvero questa è la natura di uno spogliatoio di calcio? È davvero normale che Garcia usi la simbologia del branco per apostrofare i propri giocatori? Chiedendo «11 lupi in campo», sostenendo che nella squadra «tutti lavorano per il branco»?
Per certi versi Garcia è l’ideologo perfetto di una società che usa l’immaginario del branco anche nella campagna abbonamenti.
I giocatori vengono ormai criticati apertamente e quasi ogni risultato negativo viene ricondotto a errori individuali: contro la Samp, contro il Sassuolo, contro il Leverkusen, contro il Torino. Come se i giocatori non si stessero rivelando all’altezza della guerra santa. E infatti, sempre nel girone dello scorso anno, dice: «Mi segua chi ha carattere e personalità, chi è debole invece non mi interessa».
Forse Garcia ha contribuito a iscrivere la Roma dentro un quadro troppo grande, sfinendo squadra e ambiente, fino a che l’abuso di slogan, metafore, simboli non ha raggiunto il livello di saturazione (senza, tra l'altro, sostenere l'impalcatura ideologica con un'identità di gioco corrispondente, come di solito fanno altri allenatori a cui il piano simbolico sta a cuore, tipo Mourinho, certo, ma anche Simeone). Il pareggio in casa contro il BATE ha dimostrato quanto le dichiarazioni del giorno prima («La partita di domani è come un derby: non si gioca, si vince») facessero ormai parte di una retorica stanca e ripetitiva, che ha perso ormai ogni capacità di manipolare la realtà.
Dopo la sconfitta contro lo Spezia Garcia ha dichiarato di non mollare, di voler «spingere la Roma fino alla morte» con l'aria di un monarca sconfitto, che non si rassegna alla perdita del potere. Dopo quella partita però la situazione della Roma si è fatta ancora più dura, con la squadra e Garcia stretti ormai d’assedio e con l’esonero mai così vicino.
Nella conferenza precedente alla gara interna con il Genoa l’allenatore è arrivato ad autodefinirsi un “capobranco”, rendendo una volta per tutte trasparente la retorica utilizzata fino a questo momento. La vittoria per 2 a 0 è arrivata a dargli ragione non tanto nella sostanza, quanto nei modi. La squadra è sembrata sinceramente coesa attorno a lui, segno che il “branco” nutre ancora rispetto verso il proprio lupo alfa. In un contesto ormai imbevuto di epica tragica Walter Sabatini ha dichiarato a fine partita: «Cercate sempre gli schizzi di sangue. Il sangue ci sarà, ma non sarà quello del mister». La società sta seguendo l’allenatore nel suo simbolismo crudo (e allora non bisogna lamentarsi troppo se poi i cortocircuiti sono questi) oppure Rudi Garcia è semplicemente parte di un problema molto più grande di lui?
I tifosi hanno fischiato l’abbraccio che la squadra ha tributato al tecnico dopo il primo gol, rendendo ormai definitiva la dialettica “noi contro tutti”. Aveva ragione, in fondo, Garcia quando definiva quello dell’allenatore un lavoro “ingrato”; aveva ragione quando scriveva nella sua autobiografia che «se sei molto tempo in una società finiscono per dimenticare le tue qualità». L’attuale scenario di tragedia sta infatti facendo dimenticare il punto di partenza. Se due anni fa avessero chiesto ai tifosi della Roma di mettere la firma su due secondi posti in due anni lo avrebbero fatto?
È l’ "Aiace" di Sofocle o una partita di pallone?
Se la Roma oggi si è stabilita a un livello che fino a due anni fa rappresentava soltanto una specie di “best case scenario” lo si deve anche a Rudi Garcia. Però nella tragedia non c’è spazio per i giudizi misurati, gli eroi devono sempre compiere il loro destino.
Fabio Capello ha definito Roma una città ammaliatrice, una piovra che ti prende e ti addormenta. Fare l’allenatore in una piazza del genere richiede forse la capacità di elevarsi sopra l’ambiente, di vivere con distacco zen gioia e dolore. L’impressione è che Rudi Garcia a un certo punto si sia fatto divorare da Roma, dalla sovrabbondanza dei suoi simboli, del suo passato, dei suoi miti, delle sue ambizioni. Rudi Garcia, ora come non mai, appare solo e accerchiato, stretto attorno al proprio branco. Quanto potrà durare?
Quando un lupo diventa troppo vecchio o inizia ad assumere comportamenti non accettati dal branco, questo può decidere di esiliarlo. A quel punto il lupo segue il branco da lontano, muovendosi in ritardo fino a rimanere isolato. Un lupo solitario è più esposto all’attacco di altri predatori e ha più difficoltà a portare avanti la caccia, e per questo ha quasi sempre scarse possibilità di sopravvivenza.
Rudi Garcia dovrà sperare che il sostegno duri, che il branco non decida di emarginarlo lasciandolo morire in solitudine. Un equilibrio sottilissimo.