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Come Sacchi ha cambiato il calcio
16 mag 2016
C'era un calcio prima di Sacchi e un altro dopo Sacchi.
(articolo)
25 min
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Come i veri filosofi che rivoluzionano e cambiano per sempre il contesto in cui si inseriscono, anche Arrigo Sacchi ha creato schiere di discepoli e detrattori. E, come i veri filosofi rivoluzionari, ha fatto parlare di sé tanto per il proprio sistema di pensiero quanto per il personaggio che la sua fama ha creato.

La rottura dei paradigmi esistenti effettuata da Arrigo Sacchi ha spinto il dialogo tattico in avanti come, prima di lui, aveva fatto solo l’Olanda del Calcio Totale. In ambito nazionale, ha portato al cambiamento di un modo di pensare calcio che sembrava insito nella natura stessa della scuola italiana, nel codice genetico degli allenatori italiani, cioè, proiettandola prima in quello che sarebbe diventato almeno il calcio un decennio dopo. Ancora oggi le correnti calcistiche più rigogliose si basano sull’accettazione dei concetti fondamentali di Sacchi: che sia il calcio di Guardiola, Mourinho, Bielsa, Ancelotti, Klopp o Simeone. Hanno tutti studiato l’allenatore romagnolo, e tutti ne riconoscono l’importanza nella loro formazione calcistica. Poi ognuno ha sviluppato le idee a modo suo, ma il calcio che si gioca oggi ad alto livello è quello pensato dall’ultimo grande allenatore-filosofo del calcio italiano.

Gavetta

Sacchi nasce a Fusignano, nella campagna della bassa Romagna in provincia di Ravenna, da una famiglia benestante che gli avrebbe garantito un ottimo futuro nella fabbrica di scarpe del padre. Grazie al lavoro di venditore viaggia molto, con la possibilità di guardare calcio a ogni latitudine: si innamora dell’Ajax del Calcio Totale, del Liverpool di Bill Shankly, del Brasile di Pelé (è addirittura in America durante il Mondiale messicano del 1970). Tutte squadre che faranno parte del suo DNA tattico.

Sacchi non aveva mai giocato tra i professionisti. Gianni Mura racconta di come il suo allenatore descriveva il Sacchi giocatore: «Era destro, ma giocava terzino sinistro. Sapeva dare tutto quello che aveva dentro, ma non sempre bastava. C'ero anche quando fece il provino a Firenze, un disastro».

Quando decide di darsi anima e corpo al calcio inizia a casa sua, in Romagna, in prima categoria con il Fusignano, il Bellaria e l’Alfonsine. Si sente un maestro di calcio e in quel periodo scrive il suo primo libro, poi a un certo punto decide di lasciare il lavoro e andare a Cesena per allenare la squadra Primavera della città. Così ne parla nella sua autobiografia “Calcio totale” (da cui ho preso le altre sue citazioni presenti in questo pezzo): «Ho sempre amato alla follia il calcio e ho lasciato la fabbrica di scarpe di mio padre per affrontare una carriera piena di incognite. A Cesena guadagnavo in un anno quello che a casa intascavo in un mese».

Lascia la Romagna dopo una stagione in C1 con il Rimini, per passare alla Primavera della Fiorentina, ma dopo solo un anno torna ad allenare a Rimini nella stessa categoria. Il Rimini arriva quarto e questo risultato lo porta sulla panchina del Parma, appena retrocesso in C1. È l’estate del 1985 e in Emilia il successo di Sacchi è pressoché immediato: il Parma prima torna in B e poi batte il Milan di Liedholm in Coppa Italia.

Silvio Berlusconi è il presidente di un Milan alla disperata ricerca di successi e capisce le potenzialità del calcio espresso da quel Parma. Così, nell’estate del 1987, lo sceglie per la panchina di una squadra che nel frattempo è stata fortemente rinforzata da una grande campagna acquisti. Anzitutto con i primi due fenomeni olandesi, Van Basten e Gullit (che prendono i due posti per stranieri agli inglesi Ray Wilkins e Mark Hateley), poi il capitano della Roma Carlo Ancelotti e, dall’Udinese, Angelo Colombo, oltre ai due difensori del Parma, Roberto Mussi e Walter Bianchi (scudiero di Sacchi, che lo ha allenato dal Rimini dopo averlo scoperto al Cesena) a cui si aggiunge il ritorno, sempre da Parma dove era in prestito, del centrocampista Mario Bortolozzi.

Rompere con il passato, rompere le scatole

Più dei due olandesi e degli scudieri fedeli, è l’arrivo di Carlo Ancelotti, voluto da Sacchi in persona, che aiuta a comprendere l’idea di calcio che voleva applicare. Sebbene “Carletto” fosse considerato un giocatore fisicamente finito, a Sacchi interessava avere in rosa qualcuno con le sue letture tattiche, in grado di aiutarlo a diffondere i nuovi dettami. È lo stesso Sacchi a ricordarlo nel suo libro “Calcio totale”: «Michelangelo scrisse che non si dipinge con le mani ma con la mente. E io penso che il calcio nasca dal cervello prima che dai piedi. Quando volevo comperare Ancelotti per farne il perno del mio Milan, mi dissero che il potenziale del suo ginocchio era ridotto del venti per cento. Risposi che sarei stato preoccupato se avesse avuto un deficit mentale. Ci vollero mesi per fargli digerire il mio calcio, ma poi diventò una delle colonne rossonere»

Proprio Ancelotti è uno dei primi ad avere quasi un rigetto verso le nuove metodologie di allenamento: «Ero in condizioni pietose, la prima preparazione con Arrigo è stata terribile, i suoi metodi erano totalmente innovativi. Se prima potevi dire che nel lavoro c’era un’intensità pari a venti, a Milanello l’intensità era cento. Una differenza abissale, una fatica tremenda. Il terrore di tutti noi erano le scale che portavano alle stanze, non riuscivamo più a farle, ci veniva da piangere. Un calvario, sembravamo un gruppo di zombie».

Questo è un tema ricorrente per ogni nuovo giocatore della rosa, dall’attaccante Virdis all’insospettabile Franco Baresi, che non sopporta il carico mentale che Sacchi impone a tutti i giocatori della rosa. Volendo far giocare il Milan come giocava il suo Parma, Sacchi costringe la squadra a sorbirsi intere videocassette di partite della squadra gialloblù. A Franco Baresi viene chiesto di vedersi ore di partite del libero del Parma, Signorini, con alle spalle Sacchi ad indicargli i movimenti delle linea. Per farlo diventare il regista del reparto difensivo, Sacchi pretende da Baresi che ogni singolo sincronismo venga digerito fino all’automatismo. È proprio questo approccio didattico, da maestro di calcio, alla base del lavoro di Sacchi che ostacolerà il rapporto con le stelle delle sue squadre.

Durante la prima estate la rosa è sfiancata. Soffre una preparazione atletica a ritmi infernali (fatta per permettere i nuovi ritmi di gioco) ma anche la quantità di informazioni tattiche necessarie a mettere in pratica la sua idea di gioco. Correre e ripetere all’ossessione un esercizio tattico annoia chiunque, soprattutto se non si è certi che questo porti risultati in partita. E i primi risultati non sono positivi: il Milan è eliminato dall’Espanyol nel secondo turno di Coppa UEFA e non va molto meglio in campionato. Si comincia a parlare di esonero prima di fine anno.

La critiche non sembrano aiutare Sacchi. Gianni Brera lo paragona a un “apostolo soggiogato da visioni celesti”. Sacchi vede il calcio in maniera differente rispetto all’ortodossia tattica italiana, lui stesso si paragona a un eretico: «Il mio arrivo a Milano fu, come sempre, difficile. L’impatto con la squadra fu dirompente, c’era diffidenza ma non prevenzione, dicevo cose diverse sia sul calcio, sia sulla mentalità da tenere in campo, sia nella programmazione degli allenamenti. In Italia hanno bruciato Giordano Bruno. Io ero visto come un eretico. L’ambiente del calcio e una parte dei giornalisti mi consideravano un eversore, un diverso, un avversario, perché mettevo in crisi la loro leadership e il loro ruolo di detentori di un sapere antiquato, vecchio, mentre i giovani e i meno conservatori mi guardavano con interesse».

Dalla zona mista alla rivoluzione.

Questo tema è importante perché effettivamente fino ad allora in Italia regnava il “catenaccio”, seppur evoluto in direzione della “zona mista” (pensata inizialmente da Radice al Torino e da Trapattoni alla Juventus). Una variante tattica che nasce come proprio in reazione al "calcio totale" olandese, digerendone alcuni princìpi: un centrocampo che difende a zona e applica i primi tentativi di recupero palla dopo averla persa.

Nella zona mista ogni giocatore ha un compito specifico: in difesa posizionale nella linea difensiva è presente un libero che è deputato alla copertura della linea difensiva e se un giocatore va in pressione viene quindi subito sostituito da un compagno per mantenere inalterata la capacità di coprire gli spazi. Oltre al libero ci sono un terzino fluidificante, che è libero di avanzare, e due marcatori (di cui uno è il terzino schierato sulla fascia opposta al fluidificante). Un modulo che schiera la linea al limite della propria area e che passa da difesa a 4 a difesa a tre a seconda delle interpretazioni e le fasi di gioco, trasformandosi nel 3-5-2 egemone al momento dell’arrivo di Sacchi nel grande calcio. Così gioca la Juve di Trapattoni con Platini, l’Argentina campione del mondo di Bilardo nell’86, la Germania campione del mondo di Beckenbauer. Questo è il calcio reattivo che domina il campionato italiano, il calcio idealizzato da Gianni Brera con cui l’Italia tanto aveva vinto in passato.

I primi approcci alla zona pura e al gioco corto erano già stati portati al successo dalla Roma di Liedholm: lo stesso allenatore svedese aveva, in qualche modo, preparato il Milan a difendersi a zona precedendo Sacchi, ma nessuno dei giocatori poteva ritenersi pronto per la rivoluzione che stava arrivando. L’attenzione per la fase difensiva da parte di Sacchi andava oltre i compiti individuali del giocatore, fino a quel momento attento solo quando l’uomo con la palla è nella sua zona. Ha a che fare con la squadra nella sua interezza, con 11 uomini impegnati contemporaneamente in entrambi le fasi.

Non esiste più la possibilità per gli attaccanti di rimanere passivi senza palla. Per Sacchi gli attaccanti sono i primi difensori e devono sempre muoversi almeno per schermare il pallone e per difendere la squadra che viene in avanti. Una volta perso il possesso, il Milan torna prima tutto dietro la linea della palla, e poi difende andando in pressione, andando in avanti, cioè, assumendo un atteggiamento attivo anche in fase difensiva.

«Volevo che la squadra difendesse aggredendo e non arretrando, ma avanzando. Volevo che la squadra fosse padrona del gioco in casa e in trasferta. Era difficile far capire il nuovo modo di giocare, il movimento sincronizzato della squadra senza palla, avere undici giocatori con e senza palla sempre in posizione attiva. Avere una difesa attiva vuol dire che anche quando hanno la palla gli avversari tu sei padrone del gioco. Con tale pressione li obblighi a giocare a velocità, a ritmi e intensità tali per cui non essendo abituati vanno in difficoltà».

Da questo cambio di paradigma, e dal dispendio di energie fisiche e mentali che comporta per una squadra abituata a un calcio reattivo, si spiegano i problemi di adattamento iniziale. Era una questione tattica, fisica e mentale: «La nuova didattica riguardava la fase di non possesso e il pressing. Il pressing asfissiante è un’arma in più, ma richiede un notevole dispendio di energie e una squadra organizzata, tempi di attacco e marcatura a scalare e sul versante opposto bisogna coprire con diagonali».

Finalmente

La dirigenza del Milan, però, aiuta Sacchi anche nei momenti peggiori, appoggiandolo pubblicamente e dentro lo spogliatoio. Prima della trasferta contro il Verona, con il Milan che viene da due vittorie in 5 partite in campionato, e dalla sconfitta contro l’Espanyol, Berlusconi mette in chiaro le cose con i giocatori: «Lui resta, voi non so».

Senza alternativa ai metodi di Sacchi, la squadra finalmente fa sue le richieste in campo e fuori dell’allenatore e da lì inizia a non guardarsi più indietro. E in primavera batte il Napoli di Maradona al San Paolo nella sfida scudetto.

Il Milan vincerà lo scudetto numero undici dopo una rimonta primaverile che si chiude con la squadra a tre punti di vantaggio sul Napoli. I rossoneri mettono in mostra un calcio aggressivo e veloce come mai si era visto prima in Italia. Nel primo campionato tormentato di van Basten (gioca solo 11 partite), il Milan in attacco fa leva sui gol di Virdis e sulle prestazioni del Pallone d’Oro Ruud Gullit, simbolo del calcio trascinante di Sacchi e primo vero freak della storia del calcio: «Aveva una potenza fisica straordinaria, un grande carisma e per i compagni era un vero trascinatore. Quando partiva lui, con la criniera al vento, era come se squillasse la tromba dell’assalto».

Nessuno prima di lui abbinava quelle caratteristiche fisiche, atletiche e tecniche. Gullit, con la sua capacità di conduzione di palla, è il direttore d’orchestra delle transizioni offensive corali del Milan, che con tre passaggi in velocità arriva in porta.

La squadra termina il campionato con la miglior difesa del torneo, subendo appena 14 gol (la seconda è la Roma con 26) mostrando sul campo, per la prima volta e concretamente, come la miglior difesa sia l’attacco. Non c’è nessun trucco e i dettami per noi ormai suonano talmente basilari da sembrare quasi banali: pressare con una squadra corta, grazie al lavoro congiunto di giocatori che fanno densità in zona palla e a una linea difensiva altissima (Sacchi alzerà la linea del Milan in media di più di 10 metri rispetto al resto d’Italia).

Princìpi che si realizzano attraverso una squadra corta e stretta, che si difende massimizzando i vantaggi dati dall’arretratezza di una regola del fuorigioco che la FIFA sarà costretta a modificare qualche anno dopo. All’epoca i giocatori in fuorigioco “passivo” contavano nel tracciare la linea d’attacco: chiunque si trovasse davanti era in fuorigioco. La linea difensiva guidata da Franco Baresi si muove in funzione della posizione palla e non degli uomini, per individuare l’attimo propizio a esercitare la trappola del fuorigioco con la salita contemporanea di tutti e quattro gli uomini. L’ex libero diventa il difensore più forte del mondo, anche perché il sistema nasconde la normalità della sua struttura fisica e ne esalta invece le letture, la velocità e la tecnica. La linea sale anche in modo disordinato purché repentino e con le giuste tempistiche ogni volta che la palla è “coperta”. In questo modo ha sempre almeno un avversario dietro di sé per far scattare il fuorigioco.

Il famoso braccio alzato di Baresi a chiamare il fuorigioco è l’immagine del Milan di Sacchi tanto quanto i movimenti coordinati di Gullit e Van Basten. Ed è un’invenzione tutta dell’allenatore romagnolo.

L’atteggiamento del Milan è costantemente attivo, anche quando non è in possesso. Le variabili che compongono l’equazione della fase difensiva per Sacchi sono quattro: la palla, la squadra avversaria, la propria squadra e il campo di gioco. Sacchi aggiunge, quindi, la variabile del controllo del campo, o meglio: dello spazio. La sua squadra sfrutta il pressing e la trappola del fuorigioco per modificarne la grandezza e portare gli avversari a doversi confrontare con una realtà che non riescono a controllare, e che il più delle volte non hanno mai visto.

È come se il Milan parlasse un’altra lingua calcistica, che gli avversari sono costretti di volta in volta a provare ad interpretare. Le difficoltà sono enormi, soprattutto dal momento in cui quella lingua inizia a essere recitata a memoria: lavoro su situazioni di pressing, raddoppio, fuorigioco, diagonali, marcature di gruppo. Tutto ripetuto fino a trovare i perfetti tempi di esecuzione.

Dominare con le idee

Il Milan in fase di possesso domina grazie alla velocità e alla tecnica di giocatori come Donadoni, Van Basten e Gullit. Ma è senza palla che ha il vero vantaggio psicologico sugli avversari: per la prima volta dall’Olanda di Cruyff una squadra ha il vantaggio anche senza il possesso del pallone.

Sacchi si può permettere quindi di avere sempre la prima mossa nello scontro tattico: se la squadra avversaria marca a uomo, modificando quindi la propria struttura quando recupera palla con un uomo in pressione, allora il Milan gioca con un pressing altissimo ed una squadra corta. In questo modo attacca in quel momento chi recupera palla con raddoppi continui, così da trovarsi in una situazione di vantaggio contro una transizione difensiva sballata.

Se la squadra marca con una zona mista invece il Milan può permettersi di attuare solo folate di pressing, riservate a quando il pallone raggiunge punti del campo ritenuti fondamentali (come il passaggio tra il centrale e il terzino). Per il resto si limita a schermare il centrocampo avversario e ad attaccare solo quando gli avversari iniziano la transizione offensiva per bloccarla sul nascere. L’idea è quella di non lasciar respirare un secondo l’avversario, qualsiasi tattica usi, che sia offensiva o difensiva.

L’apogeo viene raggiunto la stagione successiva con l’acquisto del terzo olandese, Frank Rijkaard. Nonostante il Milan arrivi terzo in campionato, dietro Inter e Napoli, la squadra di Sacchi domina in Europa e vince la prima delle sue due Coppe dei Campioni consecutive, umiliando in semifinale il Real Madrid e passeggiando in finale contro lo Steaua Bucarest, campione d’Europa solo tre anni prima e battuta con un indiscutibile 4-0.

Come giocava quel Milan

Il Milan è in campo con l’iconico 4-4-2: Rijkaard al centro della difesa accanto a Baresi (per via del lungo infortunio di Galli); Maldini e Tassotti come terzini con facoltà di spingere contemporaneamente; un centrocampo che parte in linea per poi muoversi quasi a rombo per aiutare la circolazione di palla, scambiandosi sempre di posizione. Sacchi è ossessionato dall’idea del giocatore “universale”, un’ideale raggiunto da Gullit ma a cui tutti nella rosa cercano di arrivare, con le rispettive caratteristiche. Dice Sacchi: «Partivamo col 4-4-2 ma non ci stavamo mai: spesso avevamo due difensori, un centrocampista e sette in avanti. E io chiedevo sempre cinque giocatori oltre la linea del pallone».

In una squadra che attacca sempre con minimo cinque uomini a centrocampo, Donadoni parte esterno ma si muove a piacimento sulla trequarti. Ancelotti invece parte al centro ma può muoversi davanti alla difesa come sull’esterno, a seconda della posizione dei compagni. Davanti poi ci sono Van Basten e Ruud Gullit, reduci dalla vittoria con la Nazionale olandese. L’ex pallone d’Oro a muoversi dietro quello in carica o, se preferite, la punta più forte del mondo a muoversi davanti al giocatore totale. Uno attacca lo spazio e l’altro viene incontro, sempre in sincrono.

Tutti devono svolgere un doppio ruolo in campo, con compiti importanti sia in fase difensiva che in quella offensiva. Il movimento coordinato tra i reparti e tra gli stessi giocatori dà alla squadra una compattezza mai vista prima, mentre il movimento continuo senza palla in fase di attacco sarà devastante per le difese di allora, sempre schierate a uomo. I movimenti senza palla sono curati con particolare attenzione e i giocatori del Milan di Sacchi si propongono i continuazione, estendendo le possibili soluzioni del portatore, partecipando sempre attivamente alla manovra e alle azioni offensive.

Sacchi trasforma anche il modo di fare contropiede - sino ad allora sinonimo di palla lunga alla fuga solitaria dell’attaccante– organizzandolo in una manovra razionale, diretta e veloce. Il Milan imposta e impone il proprio gioco, aggredisce l’avversario e lo obbliga a sottostare al proprio ritmo. Anche se in vantaggio, non si risparmia e continua ad attaccare con la stessa intensità.

All’inizio gli avversari, non abituati ad essere attaccati in tutte le zone del campo, trovano grosse difficoltà a costruire le azioni, perdendo i punti di riferimento e finendo per essere soffocati dal ritmo imposto dai rossoneri. Naturalmente il tutto deve essere sorretto da una straordinaria condizione fisica e mentale, e solo in quel caso si arriva alla perfezione tattica, e la tattica diventa in arte in movimento. Per usare le parole di Jorge Valdano: «Con Sacchi, le squadre acquisirono per la prima volta una bellezza estetica anche in fase di non possesso».

La nascita del personaggio

La squadra vince e convince, stupisce l’Europa e innamora gli spettatori neutrali. Sacchi si è fatto maestro di un calcio nuovo, come desiderava fin dall’inizio. Nell’immaginario collettivo Sacchi diventa il maestro d’orchestra ossessionato dalla perfezione assoluta, raggiungibile solo attraverso una fiducia cieca nei suoi insegnamenti.

In riferimento all’allenamento della fase difensiva gli aneddoti si sprecano, anche quelli ai limiti della credibilità. L’osservatore del Real Madrid torna a casa a bocca aperta perché il Milan si allena senza pallone e senza avversari, con Sacchi che grida di volta in volta dove sta la palla immaginaria e la squadra che reagisce di conseguenza.

A quanto pare la linea difensiva veniva messa contro una squadra completa di undici giocatori formata da tutto il talento offensivo a disposizione. Giovanni Galli in porta, Tassotti, Baresi, Rijkaard e Maldini contro Van Basten, Donadoni, Gullit, Massaro, Colombo, Evani etc.. La storia continua con la difesa che riesce sempre a spazzare la palla oltre la metà campo senza subire gol e vincere la sfida. Perché sono «meglio cinque giocatori organizzati che undici senza una linea di gioco».

Questo è il vero insegnamento che Sacchi vuole dare ai suoi giocatori: una squadra organizzata può avere la meglio contro il semplice talento.

Un insegnamento che, però, non viene mai digerito del tutto dalla stella della squadra, Marco Van Basten. L’olandese è stanco degli allenamenti a ritmo serrato che Sacchi impone per mantenere alta la competitività e il sincronismo collettivo. Van Basten rimprovera all’allenatore di trattare tutti in modo uguale, come se tutti avessero lo stesso talento in rosa, Sacchi arriva addirittura ad escluderlo da una partita di campionato come punizione per la mancanza di rispetto verso il gruppo.

Il rapporto conflittuale arriva sui giornali, aizzato dalla stampa nemica dell’allenatore. La pressione esterna, unita alla continua richiesta di perfezione che Sacchi stesso si pone, diventa tale da portarlo al limite. Si parla di un ultimatum dell’allenatore a Berlusconi (una cosa tipo: o me o van Basten) che gli risponde picche, causandone l’addio.

Sacchi la ricorda in maniera diversa: «Sono andato via perché lo stress mi uccideva e non volevo lasciarci la pelle. Il primo anno Marco disse qualcosa di critico su di me e sui giornali uscì questa cosa. La settimana dopo giocavamo a Cesena, io non dissi nulla e lo mandai in panchina dicendogli: "Visto che sai molto di calcio, vieni in panchina con me". Ma c'era grande stima e rispetto da parte di entrambi ed era stato un solo episodio sporadico, come può accedere in qualsiasi contesto lavorativo».

E la successiva carriera di Sacchi aiuta a rendere credibile questa versione dei fatti. Come accaduto ad altri allenatori (Guardiola, Cruyff, Mourinho) che si spendono senza riserve, richiedendo ai giocatori lo stesso impegno, il loro tempo di vita in un gruppo raramente arriva al lustro. La routine diventa mancanza di motivazioni e l’ego comincia a farsi strada nel sacrificio, portando all’inevitabile declino. A quel punto o si cambiano i giocatori o l’allenatore.

Nel caso del Milan a lasciare è Sacchi, che consegna una squadra che ha bisogno di nuovi stimoli a un motivatore come Capello, a cui basta normalizzare alcuni concetti per raccogliere ulteriori frutti dall’albero piantato dal romagnolo: «Alla fine io, il Signor Nessuno, ero diventato, sì, il Profeta di Fusignano, avevo bruciato le tappe, avevo vinto tutto, ma l'unico che usciva a pezzi da quel Milan ero solo io.»

La Nazionale

Pur di non lasciare Sacchi alla concorrenza (Juve), Berlusconi gli paga lo stipendio in attesa del passaggio ufficiale in Nazionale, che arriva con la mancata qualificazione dell’Italia a Euro ’92.

Sacchi, quindi, arriva in Nazionale con due anni e mezzo di tempo per preparare i Mondiali di USA ’94, senza lo stress quotidiano di una squadra di club. Si può permettere il lusso di spiegare calcio senza rimanere a contatto con il gruppo tutta la settimana. L’impatto immediato è perfetto: «La Nazionale era una bella novità. Mi offriva l’occasione di allenare una squadra importante senza lo stress quotidiano. Potevo anche disporre di una grande rosa di giocatori da cui scegliere il meglio. Ritrovavo dentro di me nuove motivazioni tecniche e nello stesso tempo potevo lavorare con meno dispendio di energie nervose, con più tranquillità, cercando di portare la mia idea di calcio in un ambiente nuovo».

Anche lo staff attorno è molto contento, Gigi Riva: «Non ho mai visto associare prima d’ora durante gli allenamenti il lavoro mentale allo sforzo fisico con altrettanta coordinazione. Ai miei tempi si attendeva l’errore dell’avversario per ripartire col possesso di palla. Poi vennero gli olandesi a stravolgere certe abitudini tramandate. Però credo che le intuizioni di Sacchi abbiano ulteriormente arricchito il famoso football totale dell’epoca».

Ben presto, però, l’ottimismo lascia il posto a una realtà diversa. Sacchi si rende conto di essere un pensatore a cui non viene concesso abbastanza tempo per spiegare a fondo la sua filosofia. Ci sono gli stage, ma tra l’uno e l’altro passano settimane che fanno perdere gli automatismi alla squadra. Per di più, aveva forse sopravvalutato una rosa che si rivela molto meno adatta al gioco che aveva in mente. I giocatori tornavano da squadre reattive, che insegnavano principi opposti ai suoi e che lui doveva di volta in volta resettare.

«Ho sempre diviso i tifosi perché il mio modo di lavorare e di scegliere i giocatori si basava sulle capacità individuali solo se non compromettevano quelle del gruppo. Vierchowod era più forte di Costacurta, ma non si muoveva con gli altri difensori, e inseguiva l’avversario perché veniva dalla scuola del calcio individuale. Bergomi era un giocatore sicuramente con più qualità ed esperienza di Mussi. Dunque, perché non Bergomi? Non avevo tempo di cambiare caratteristiche così marcate: Bergomi faceva solo il difensore e aveva come riferimento l’avversario, mentre da noi l’importante era la palla e il compagno».

Con una rosa teorica di campioni, Sacchi finisce per paragonarsi a un allenatore virtuale di una squadra virtuale: un eunuco in un harem. Il lavoro di due anni e mezzo diventa ancora più difficile di quello della prima estate con il Milan. E quando si arriva ai Mondiali la squadra non ha minimamente raggiunto il livello di gioco immaginato inizialmente.

L’Italia di Sacchi mostra i meccanismi da lui voluti, ma non li esegue nei tempi giusti o con la stessa convinzione del suo Milan. Le esercitazioni sui movimenti senza palla, sui tempi di sganciamento o sul pressing sul campo quasi non si vedono. Inoltre la realtà è cambiata, grazie proprio al lavoro dello stesso Sacchi al Milan o di Cruyff al Barcellona: ora anche a livello di Nazionali il discorso tattico non si limita alla “zona mista”. Il Mondiale del 3-5-2 di Italia ’90 sembra lontano decenni: tutti hanno studiato il 4-4-2 sacchiano o i principi di gioco di posizione, la difesa a zona alta, le transizioni corali, il controllo dello spazio con il pressing e la trappola del fuorigioco. L’Italia, pur avendo Sacchi in panchina, non ha nessun vantaggio tattico evidente rispetto ad avversari che ora sanno almeno leggere il maestro.

Gli azzurri perdono solo ai rigori in finale, ma ci arrivano con tanta fatica e grazie al talento del singolo più che al lavoro del suo allenatore: il gol dalla distanza con cui Dino Baggio sorprende Zubizarreta negli ottavi contro la Spagna, il gol del pareggio di Roberto Baggio al minuto 88 ai quarti con la Nigeria, il gol su azione personale sempre di Roberto Baggio che sblocca la semifinale con la Bulgaria, o Baresi, che torna e gioca una finale perfetta 20 giorni dopo essersi operato al menisco dopo l’infortunio contro la Norvegia.

La cosa peggiore è che nel tentativo di apportare qualcosa in termini di organizzazione tattica, Sacchi finisce per portare in mondovisione la caricatura di se stesso. Come quando insiste con il far partire Giuseppe Signori dall’esterno per avere profondità, o quando contro la Norvegia, all’espulsione di Pagliuca, decide di togliere Baggio per far entrare il portiere di riserva Marchegiani. E Baggio mostra pubblicamente la sua mancanza di fiducia nelle idee del Commissario Tecnico.

Non è più una scelta originale ma tutto sommato comprensibile, come quella di non convocare un giocatore (ad esempio Vialli) per proteggere l’armonia del gruppo, o perché non compatibile con la sua idea di calcio. Somiglia piuttosto al delirio di un predicatore ormai accecato dalla sua stessa ortodossia, incapace di scendere a compromessi con una realtà non conforme a quella da lui vagheggiata.

Addio calcio.

Dopo la Coppa del Mondo solo accarezzata, il declino di Sacchi è veloce e inesorabile. Gli Europei del ’96 iniziano con le critiche per la mancata convocazione di Roberto Baggio (reduce da problemi al ginocchio) e finiscono subito, ai gironi, con Sacchi che dopo la partita d’esordio vinta con la Russia cambia 5/11 per la seconda partita contro la Repubblica Ceca e la squadra perde. Racconterà poi in una intervista: «Non rifarei oggi quella scelta. Ho capito immediatamente che avevo fatto un errore perchè subito dopo la partita un giornalista che era sempre andato contro di me mi disse che avevo fatto la cosa giusta. Sbagliare è umano, tutti commettiamo degli errori talvolta». Con l’eliminazione immediata, sarà magra consolazione il fatto che finalmente la nazionale aveva giocato come voleva lui: «Naturalmente non fui contento del risultato finale nel 1996, ma ero molto contento di come avevamo giocato in Inghilterra. Quella fu la mia miglior squadra come ct dell'Italia, meglio della Nazionale che arrivò seconda al Mondiale 1994».

I vari tentativi di ritorno nel calcio dei club si scontrano con il mostro dello stress che torna puntualmente: sei mesi al Milan, sette all’Atlético di Madrid, meno di un mese al Parma nel 2001. Il calcio che aveva contribuito a cambiare, ormai può fare a meno di lui, evolvendosi per conto proprio.

La brevità della carriera di Sacchi non diminuisce l’importanza e la profondità del cambiamento che la sua filosofia ha rappresentato per il calcio in generale e, in particolare, per quello italiano. Ci ha insegnato, semmai, che la perfezione è uno stato che può essere raggiunto per periodi di tempo molto limitati. Gli insegnamenti, però, restano.

Grazie ad Arrigo Sacchi l’Italia è riuscita ad affrancarsi dall’idea breriana secondo cui si può vincere solo attraverso una proposta di calcio reattivo. A lui si devono quei metodi di allenamento innovativi e il lavoro tattico e mentale sulla squadra che oggi ci sembrano normali, ma che ha portato Sacchi per primo in Italia, ponendo le basi per un cambiamento profondo del calcio negli anni a seguire.

Grazie ad Arrigo Sacchi il dialogo tattico ha preso una svolta verso un tipo di calcio propositivo, attivo, che con l’organizzazione tattica è in grado di esaltare il talento. Una squadra come un unico organismo e non come la somma di singole parti. L’allenatore come interprete di una visione del calcio e non come alchimista alle prese con la bilancia. La vera rivoluzione di Sacchi è stata l’elaborazione di un’alternativa alla vecchia visione del calcio in Italia, imponendogli una svolta multidimensionale di cui ancora oggi raccogliamo i frutti.

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