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Come si allena un giovane della Juventus
13 mar 2018
La Juventus ci ha aperto le porte del suo settore giovanile: abbiamo intervistato Stefano Baldini, coordinatore tecnico, e Giovanni Valenti, allenatore dell'Under 13.
(articolo)
14 min
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Quando arrivo con l’auto allo Juventus Training Center di Vinovo, in una mattinata tersa di fine inverno, la prima squadra non c’è e lo si nota dall’assenza dei tifosi fuori dal cancello principale. Mi viene incontro Giovanni Valenti, l’allenatore della Juventus Under 13, e insieme raggiungiamo l’ufficio di Stefano Baldini, co-coordinatore tecnico del settore giovanile, con intervento diretto sull’attività di base (ovvero dei piccoli calciatori di età compresa tra i 7 e i 13 anni), e con un ruolo di supporto alle decisioni di tutte le altre squadre, dalla Under 14 alla Primavera.

Iniziamo subito a parlare della crescita dei calciatori, che come quella degli esseri umani in generale non è omogenea sotto tutti gli aspetti.

Come si sviluppano le diverse aree (tecnica, tattica, atletica, psicologica) al variare della sua età? Si allenano separatamente?

Stefano Baldini: «Qui alla Juventus abbiamo una visione integrata, le parti non possono essere scisse — quindi allenate — in momenti diversi della crescita. Distinguiamo da subito tre macro-aree: la conoscenza del gioco; l’abilità tecnica, ovvero ciò che mi permette di poter fare quel determinato gioco; la parte fisica, cioè la possibilità di sostenere il gioco nel tempo. In tutte le fasce d’età lavoriamo su questi tre aspetti, sempre contemporaneamente. Al massimo, in età differenti lavoriamo con percentuali maggiori o minori su un aspetto piuttosto che sull’altro.

Negli anni abbiamo reso preponderante la conoscenza del gioco, perché è l’unica fase che migliora le altre. Se gioco, miglioro la tecnica e la parte atletica. Se lavoro solo sulla tecnica, difficilmente potrò migliorare la comprensione del gioco. Se alleno solo la parte atletica, sicuramente non migliorerò in nessuno degli altri due aspetti».

Giovanni Valenti: «L’ambizione di sviluppare abilità diverse in tempi diversi è sicuramente legittima, ma un po’ accademica. Anche i più piccoli, da subito, devono saper giocare con i compagni rispondendo a quello che fanno gli avversari.

Poi, per stimolare le diverse aree, cerchiamo di coinvolgerli in situazioni differenti. Ad esempio qui accade che gli stessi bambini, di settimana in settimana, si trovino a giocare a calcio a cinque, a sette, a otto o a undici.

Il tipo di lavoro che facciamo è sempre integrato. In fondo, l'affinamento della tecnica di un calciatore non finisce mai, neanche da adulto, neanche da professionista».

Si parte con l’insegnamento della tattica da subito?

G.V.: «Bisogna intendersi su cosa si intende per tattica. Se si parla di meccanismi — difesa che scappa, uscite sull’uomo — è chiaro che non è un tipo di lavoro che si può fare con dei bambini. Ma se la parola “tattica” è usata come un sinonimo di “scelta”, un bambino in campo, insieme ai suoi compagni e di fronte agli avversari, effettua una scelta ogni volta che gioca il pallone. Quella per me è la tattica».

S.B.: «Penso sia un cortocircuito tutto italiano, quello per cui quando si parla di tattica spesso s’intende la strategia di non possesso. Un portiere che ha davanti a sé due compagni e un avversario in pressione, deve scegliere se giocare la palla o condurla, su quale compagno scaricare il pallone, il tutto in dipendenza di un obiettivo: la conquista del campo alle spalle degli avversari. La scelta crea sempre uno stimolo, che io giochi a calcio a cinque, a sette, a otto o a undici. E vale sempre, che il calciatore abbia sei, nove, tredici o diciotto anni».

Quindi crei ai bambini dei problemi da risolvere, attraverso le esercitazioni o le partite, per stimolare la loro propria capacità di risolverli. Giusto?

S.B.: «Esatto. Noi apparecchiamo situazioni nelle quali i bambini decidono cosa fare, in funzione della realtà che imparano a riconoscere».

G.V.: «L’organizzazione della fase di possesso spesso è confusa con l’esecuzione di una serie di automatismi, di schemi. Invece è un esercizio che esalta la fantasia dei bambini. È all’interno di questo contesto che alleniamo la tecnica, che diventa uno strumento per risolvere la particolare situazione».

Secondo molti, una delle ragioni che ha influito sul calo della produzione di talenti tecnici in Italia è il fatto che i bambini non giocano più in strada. Che ne pensate?

S.B.: «Alla Juve i protagonisti sono il gioco e la palla. Posso garantirti che la qualità del lavoro, svolto sempre con la palla, non vale dieci ore di cortile al giorno. Se poi in altre realtà l’interesse principale non è il gioco, anche inteso in senso ludico, e l’aspetto tattico, stavolta nel senso più gretto, diventa preponderante, e se il pallone è assente dalle esercitazioni, o se addirittura il risultato diventa la sola cosa importante, allora non avere più i cortili diventa un problema.

La varietà e la ricchezza di stimoli che i bambini ricevono durante i nostri allenamenti è insostituibile. Poi c’è da tenere in conto un altro aspetto: in strada giocavano tutti, qui ci sono solo quelli bravi. Il tempo speso in allenamento, per esempio, nell’uno contro uno con avversari di livello pari o superiore, ha tutto un altro valore».

G.V.: «Ho l’impressione che sia diventato un alibi: “Non ci sono più i cortili, non è colpa mia”. Oggi non posso avere la pretesa di allenare allo stesso modo di prima, come allenavo i ragazzi che giocavano in strada. La responsabilità di rendere ricco il tempo che i ragazzi passano qui è mia. È un po’ quello che diceva Velasco: “Uno schiacciatore non può incolpare l’alzatore per un suo errore, se la palla è stata alzata male è lo schiacciatore che deve trovare il modo di far punto lo stesso”. Insomma qui alla Juventus abbiamo ribaltato la prospettiva del problema».

Qual è la caratteristica più importante per te per capire che un bambino ha talento?

S.B.: «L’abilità tecnica, la qualità del primo controllo, la capacità di scelta veloce, l’assunzione della responsabilità delle giocate che contano. Sono cose che ti fanno capire che, a prescindere dal contesto, un bambino sa fare determinate cose perchè si sente padrone dei propri mezzi. Se non ti senti sicuro dal punto di vista tecnico, non ti assumi il rischio di certe giocate. È il tipo di contesto che incentiviamo».

G.V.: «Per me sono due le caratteristiche principali: la confidenza con la palla e la comprensione del gioco. Cercare di non penalizzare giocatori tardivi dal punto di vista fisico, è una mia premura. Se c’è del talento, bisogna avere coraggio e premiare il ragazzo con un minutaggio consistente».

E invece è possibile riconoscere i diversi casi di sviluppo? Ad esempio Jesse Lingard a 25 anni sta avendo quest’anno la sua migliore stagione agonistica al Manchester United, e ai tempi delle giovanili era indicato come il miglior talento della sua generazione, anche più forte di Pogba. Recentemente ha detto che invece Alex Ferguson gli aveva predetto una crescita “lenta”. E che questo lo ha aiutato a non rinunciare all’idea di poter giocare in un club di prima fascia.

S.B.: «Sì, c’è questa sensibilità da parte nostra, soprattutto verso i ragazzi Under 16. Dai 16 anni in su vanno fatte delle considerazioni differenti, perché il fisico inizia a strutturarsi. Nel caso specifico, bisogna comprendere il contesto inglese: probabilmente Lingard ha avuto una chance perchè lì ci sono le seconde squadre, ha potuto giocare in contesti sfidanti, in un percorso formativo guidato e controllato, fino ai 22-23 anni. Poi è diventato un calciatore pronto per la prima squadra a 24-25 anni. Qui in Italia, i giocatori devono essere pronti dopto la Primavera all’età di 19 anni, in un caso limite del genere probabilmente il giocatore non sarebbe emerso».

Sulle squadre B ci vorrei tornare, intanto però potresti dirmi come si fa a ridurre il rischio di perdere un talento tecnico per limiti fisici?

S.B.: «Dipende tutto dagli obiettivi di ogni singolo club. Credo di coordinare le squadre più piccole fisicamente che ho visto negli ultimi tre anni, ad ogni età. Questo perché la Juventus ha fatto la scelta “filosofica” di andare nella direzione della tecnica. Ovviamente possono esserci differenze di altezza, in alcuni ruoli. Ma la media dei giocatori dell’attività di base in questo momento prevede una struttura fisica minuta e una prevalenza di talenti tecnici. Il che significa che può anche capitare di perdere alcune partite per via della differenza di fisicità, ma per noi non è un problema. La Juventus in questo momento vuole allenare giocatori tecnici».

G.V.: «Come dicevo, da allenatore sento la responsabilità del mancato sviluppo di un talento, trascurato a causa di una maturazione fisica tardiva. Ho la fortuna di essere in un club che organizza la formazione dei propri tecnici, attraverso diversi momenti d’incontro. Durante la formazione, due giocatori della prima squadra hanno raccontato degli anni passati in panchina, semplicemente perché rispetto ai coetanei non avevano la barba. Sono diventati comunque due giocatori importanti, ma se non fossero stati penalizzati nel minutaggio, sarebbero diventati anche più bravi di così?

Io voglio cercare di premiare le qualità tecniche, però bisogna creare un contesto favorevole. Cioè, non sarà una squadra con uno stile prettamente difensivo a esaltare un talento fisicamente minuto. Siamo noi a dover preferire uno stile di possesso, che permette ai giocatori di toccare la palla tante volte, giocando insieme tra le linee o nei mezzi spazi, dove non possono subire contrasti. Stiamo nascondendo le lacune fisiche nel gioco per portare avanti il talento tecnico, finché Madre Natura e gli allenamenti specifici dai 16 anni in su permetteranno loro di recuperare il gap atletico.

Come prima, siamo noi obbligati a ribaltare la prospettiva: è mia responsabilità creare il contesto adatto per permettere ad un calciatore minuto di giocare ed esaltarsi».

S.B.: «È difficile che io chieda ad un mio allenatore il risultato di un match. Di solito chiedo: quel ragazzo, quel talento che abbiamo individuato e che stiamo formando, quanti palloni ha giocato? Preferisco pareggiare una partita, piuttosto che vincerla, se il contesto è più favorevole alla crescita del ragazzo».

Appunto, pensate che l’attenzione al risultato può essere controproducente per la crescita di bambini molto piccoli? Ho notato che i profili social di quasi tutte le squadre pubblicano regolarmente i risultati di tutte le loro squadre giovanili.

S.B.: «In 25 anni che faccio questo mestiere non ho conosciuto un solo ragazzino che andasse in campo per perdere. Qui alla Juventus abbiamo anche il supporto di psicologi e uno di loro mi ha fatto riflettere sulla frase: “Bisogna imparare a perdere”. È un concetto sbagliato, se lo si interpreta come abitudine alla sconfitta. Bisogna invece trarne insegnamento, che è un approccio didattico completamente diverso. Non ti insegno a perdere, ma a vincere. Soprattutto ti insegno a riconoscere il valore della sconfitta e a capire da essa le tue opportunità di miglioramento.

È un cambio di paradigma, che fa sì che la cultura del risultato alla Juventus vada in due direzioni: una porta al miglioramento continuo; l’altra ci impone di arrivare alla vittoria conseguendo gli obiettivi formativi che il club ha stabilito. Perché al centro del progetto c’è la crescita individuale di ogni talento, il risultato che arriva perseguendo altre strade, ottenendo altri obiettivi, è la vera sconfitta».

Quindi la vostra ricetta è perseguire la vittoria, ma restando nel solco del progetto formativo.

G.V.: «Una volta che abbiamo stabilito qual è lo stile di gioco più formativo, in funzione degli obiettivi della società, rispettando quello stile, vogliamo vincere tutte le partite».

S.B.: «Noi cerchiamo di tenere di più il pallone, non per un esercizio di stile, ma perchè è uno strumento funzionale al raggiungimento dei nostri obiettivi. Il risultato sportivo comunque ci sta dando ragione, perché mediamente vinciamo. Negli ultimi 3 anni, abbiamo partecipato a circa 700 tornei in 10 categorie diverse, e mediamente siamo tra il quarto e il primo classificato, contro le squadre più importanti d’Europa. Portando sempre in partita il modo con cui vogliamo arrivare tra i primi».

Come si fa a trasmettere questo cambio di paradigma ad un bambino?

G.V.: «Per esempio, per aiutare i ragazzi nella valutazione della prestazione al di là del risultato numerico, propongo 3 obiettivi specifici per ogni gara. Al ritorno negli spogliatoi chiedo ai ragazzi una propria autovalutazione su quanto vicini siamo andati agli obiettivi prefissati.

Ti faccio degli esempi dall’ultima partita: come abbiamo reagito alla palla persa? Come abbiamo occupato il campo con riferimento all’ampiezza? Dal punto di vista emotivo, ci sono riuscite le cose che proviamo in allenamento? Sono obiettivi misurabili che vanno al di là del punteggio. Possiamo vincere e intanto i nostri giocatori non stanno migliorando. Dopo l’autovalutazione, rafforzo il messaggio chiedendo loro: “Se il risultato fosse stato diverso, i voti sarebbero stati più alti o più bassi?”».

S.B.: «È la parte più complessa del nostro lavoro: rendere i ragazzi consapevoli di quello che portano in campo. Però, quando ci riusciamo, il giocatore diventa protagonista del suo stesso processo di apprendimento. In campo agiscono in base a ciò che sentono. La nostra idea sta funzionando, perchè io vedo che in tutte le categorie i ragazzi portano in campo gli stessi valori, e questo dà un senso di completezza, in particolare al mio lavoro di coordinatore. Per l’esito, però, dovremo aspettare altri 10 anni».

Giovanni, qual è il tipo di lavoro che effettui con i ragazzi? Nel 2018 quante volte a settimana si allena un ragazzo che vuole fare il professionista da grande?

G.V.: «Facciamo quattro allenamenti da 100 minuti ogni settimana e cerchiamo di portare ogni ragazzo in partita una volta a settimana. Visto che il gruppo è abbastanza grande, per dare tempo-partita a tutti, il club organizza due partite nei weekend. Abbiamo l’opportunità di fare tornei in Italia e all’estero, per tutte le categorie dell’attività di base. Quando siamo all’estero ci appoggiamo alle strutture dei grandi club, ad esempio tra poco saremo a casa del PSG e del Gladbach per i prossimi impegni in Francia e in Germania».

Permettimi una domanda maliziosa: i tuoi obiettivi di allenatore, di breve termine, potrebbero essere molto diversi da quelli del tuo coordinatore, solitamente di lungo termine.

G.V.: «Se lavorerò nella consapevolezza di essere parte di un processo pluriennale, condiviso con gli allenatori che mi hanno preceduto e con quelli che mi seguiranno, i miei obiettivi coincideranno con i suoi. È ovvio che io cerchi di massimizzare la “redditività” dell’anno che i ragazzi passano con me, per aiutarli in questa scalata decennale. Però, come ci ripetiamo spesso, non posso neanche pensare che i frutti del mio lavoro si vedano tutti oggi. Ho la consapevolezza che chi mi ha preceduto ha già lavorato nella stessa direzione; e che chi mi seguirà, svilupperà il mio lavoro ulteriormente».

S.B.: «Alla Juventus stiamo passando dal “Io” al “Noi”. Nella filiera dei primi dieci anni, l’allenatore porta in campo le sue competenze attraverso le sue modalità, ma trasferisce un’idea comune. La riconoscibilità del processo è la nostra forza. Il compito dell’allenatore, in questo contesto, semmai diventa ancora più difficile, perché deve andare a lavorare sui dettagli».

G.V.: «La direzione sportiva e il coordinamento tecnico giudica il mio lavoro sulla base dello sviluppo del processo pluriennale, e non sui risultati di breve termine. Ciò fa sì che sia molto più facile che i nostri obiettivi coincidano. Se invece gli allenatori hanno la sensazione di essere giudicati dall’oggi, allora sarà più facile che gli obiettivi contrastino. Ti faccio un esempio: valuto che un mio giocatore ha un gran potenziale nel suo ruolo, ma che per completare il suo bagaglio, per far sì che accumuli altre informazioni imparando ad orientarsi in zone di campo differenti, abbia bisogno di giocare in un altro ruolo per un certo periodo. È chiaro che nell’immediato renderà di meno, ma a lungo termine svilupperà meglio le sue potenzialità. Se penso di essere giudicato sull’oggi, non sono incentivato a correre un rischio del genere».

Che autonomia hai? Mi fai un esempio?

G.V.: «La politica di convocazione per ogni torneo è stabilita dalla direzione sportiva. Di volta in volta decide se portare in partita i giocatori tecnicamente più pronti, oppure se dare spazio a chi ha avuto meno minuti nelle settimane precedenti. La mia autonomia sta nella programmazione settimanale: io scelgo i principi di gioco e il lavoro attraverso il quale renderli concreti.

Avere una figura di coordinamento trasversale ha effetti positivi non solo dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto. Se penso ad un esercizio nuovo, ad esempio per sviluppare un certo tipo di possesso, mi confronto con il mio coordinatore. Insieme possiamo chiedere al club di rendere disponibile il team di video analisti, in modo da registrare l’allenamento e studiare gli effetti delle nuove esercitazioni».

S.B.: «Come coordinatore tecnico, se ritengo valida la nuova esercitazione, la propongo agli altri allenatori che, se vorranno, potranno introdurla nei loro programmi. Anche se l’esercitazione è stata sviluppata pensando agli Under 13, come nel caso di Giovanni, posso renderla adatta ai calciatori più piccoli, ad esempio riducendo gli spazi di campo o diminuendo il numero di avversari. Il razionale dell’esercitazione resta, così come la sua efficacia».

Ogni quanto tempo effettuate degli step di valutazione? Avete degli strumenti analitici che vi aiutino?

S.B.: «Abbiamo delle schede di valutazione, che i tecnici compilano tre volte in tre diversi momenti della stagione. Abbiamo individuato una serie di parametri rispetto ai modelli che abbiamo idealizzato, i nostri riferimenti sono i grandi giocatori, i grandi interpreti di ogni ruolo. Nelle schede sono presenti parametri di tipo comportamentale, caratteriale; ovviamente abbiamo parametri tecnici e di comprensione del gioco. Ogni bambino è valutato per come svolge il suo ruolo primario e almeno un altro, secondario. La scheda viene passata da allenatore ad allenatore, quindi c’è una valutazione in itinere nell’anno e nelle stagioni. Le schede sono inserite in un software gestionale che raccoglie i dati di tutte le nostre squadre».

Immagino che a un certo punto abbiate uno o più momenti di selezione. Qual è la percentuale di ragazzi che ce la fa?

S.B.: «Abbiamo tre step di selezione nel percorso formativo dell’attività di base. Un bambino che entra alla Juventus può restarci per un periodo variabile dai tre ai sette anni. L’obiettivo dell’attività di base è portare il maggior numero di giocatori nell’agonistica. Oggi, nelle nostre Under 15 — vincitori dell’ultimo titolo italiano — e Under 16, abbiamo 15-16 elementi della rosa che provengono dall’attività di base; 7-8 di questi sono titolari in pianta stabile. Quanti di loro arriveranno allo step successivo, gli allievi nazionali (U17), è ancora da vedere. L’obiettivo della società a tendere è avere, nelle due annate che abbracciano la Primavera, 7-8 elementi nell’undici titolare, o 12-13 componenti della rosa, provenienti dall’attività di base. Questo è l’esito che auspichiamo per il nostro lavoro, e sarà verificabile solo tra un po’ di anni».

Che misure prende la Juventus riguardo allo studio scolastico?

S.B.: «La struttura in cui siamo ora, qui a Vinovo, era un istituto scolastico. Ora lo Juventus College si è spostato vicino alla sede, alla Continassa. Per noi l’istruzione è un sicuro valore; ma non è solo attraverso la scuola che si dimostra la nostra sensibilità verso la persona. Esiste un programma, chiamato Formazione Juventus, che si occupa degli aspetti caratteriali e educativi dei bambini, e coinvolge professionisti nel campo per insegnare ai ragazzi i concetti di miglioramento continuo, per migliorare il loro stare insieme e la loro capacità di gestire le proprie emozioni.

Oltre a questo, da tre anni stiamo accompagnando la crescita degli adulti, attraverso corsi di formazione serali, per insegnare ai grandi cosa significa essere genitori di un bambino che partecipa all’attività calcistica di un grande club. Sembra una cosa semplice, ma in realtà non lo è».

Come vivono i ragazzi stranieri? Avete delle strutture apposite?

S.B.: «Prendiamo tutte le azioni necessarie per accogliere i ragazzi che solitamente arrivano ad un’età già adatta per l’agonistica, quindi dai quattordici anni in su. Abbiamo un convitto per riceverli, in prossimità del College, e prevediamo corsi per l’insegnamento della lingua. Niente di diverso da quello che facciamo per i calciatori stranieri della prima squadra».

Che ne pensi del gradino che separa la Primavera e il professionismo?

G.V.: «Il gradino attuale è enorme! Si fa un lavoro graduale anno dopo anno, e poi si pretende che i ragazzi siano immediatamente pronti da un giorno all’altro».

S.B.: «Il problema è capire quando è pronto un giocatore. Alcune indagini indicano in 100 partite tra i professionisti la soglia di maturità di un calciatore. Cioè una media di circa 25-30 partite l’anno. Se così fosse, dovremmo considerare la sua maturazione completa tra i 19 e i 22 anni. In Italia attualmente stiamo chiedendo a un giocatore di 19 anni di essere pronto subito».

Quindi non abolireste le squadre Primavera per le squadre B?

S.B.: «Assolutamente, aggiungerei le squadre B nella piramide attuale. Così come accade all’estero, che hanno la squadra B al di sopra della Under 18, da noi terrei la Primavera abbassando di un anno la sua soglia d’ingresso. Per farti un esempio: quest’anno giocherei con una Primavera con tutti i nati nel 2000; di questa squadra, 4-5 elementi che intendo tenere all’interno del nostro processo formativo entrerebbero a far parte della rosa della squadra B a fine ciclo, mentre gli altri andrebbero a giocare nel circuito nazionale o all’estero; l’anno successivo ricomincerei il giro con una Primavera di soli 2001.

Attualmente i nostri ragazzi escono dalla Primavera e vanno a cercare spazio in contesti adeguati a completare il loro apprendistato, in Serie B ad esempio. Però così non garantisco una continuità metodologica nel processo formativo, per almeno altri 2 anni, cosa che invece otterrei con una squadra B a disposizione».

G.V.: «Le squadre B non sono la panacea di tutti i mali del calcio italiano, ma costituirebbero un miglioramento importante, tutti i paesi europei stanno andando in questa direzione. Confrontarsi con giocatori che hanno esperienze diverse, oltre che qualità fisiche e atletiche superiori, per i giovani è fondamentale. Così come la possibilità di rimanere in sede e di allenarsi in settimana con la prima squadra. Addirittura puoi pensare di ritagliare spazi ai giovani nella squadra A, cosa che non puoi fare quando hai il giocatore fuori in prestito.

Non di meno, gli stimoli formativi sono totalmente diversi. Immagina un prestito in una squadra di Serie B, che lotta per non retrocedere: fare il difensore in una squadra con questi obiettivi, che quindi ha solo l’interesse di difendere la propria area, è molto differente dal farlo in una squadra che occupa la metà campo avversaria per la maggior parte del tempo».

S.B.: «La riforma che ha introdotto le retrocessioni nel campionato Primavera, allo scopo di rendere le partite più competitive, rischia di rivelarsi controproducente. Le società non vogliono perdere prestigio, tenderanno a giocare per il risultato, e ai propri calciatori toglieranno opportunità formative. Se la lotta diventa serrata, ci sta che le società chiedano agli allenatori di non schierare i più giovani. Giocare per non retrocedere è diverso dal giocare per vincere il titolo, si rischia di far danni.

Il coordinatore tecnico dell’Espanyol mi ha fatto riflettere sul fatto che 6 giocatori della loro squadra B sono entrati in prima squadra, nonostante la formazione B fosse retrocessa l’anno prima. Anche se il risultato sportivo è stato scadente, all’Espanyol hanno comunque raggiunto il loro obiettivo formativo».

Ti stai prefissando un obiettivo del genere anche per la Juventus? Vedremo una prima squadra di “canterani” in futuro?

S.B.: «No, assolutamente. L’esito positivo del nostro lavoro si misurerà col numero di ragazzi che riusciranno ad essere titolari nei 5 maggiori campionati europei. Il livello dei titolari della Juventus in questo momento è davvero troppo alto per chiedere ai ragazzi di tentare questo tipo di scalata, anche se può costituire un riferimento stimolante. È legittimo che altre squadre, di un livello diverso da quello raggiunto da club come la Juve, abbiano invece l’aspirazione di portare in prima squadra il maggior numero di ragazzi, anche per ragioni economiche oltre che per quelle sportive».

Ultima domanda: girate l’Europa con le vostre squadre, c’è un modello di lavoro o un aspetto che in Italia trascuriamo e che voi giudicate vincente?

G.V.: «Mi chiedo se esiste un modello italiano da esportare. Il Barcellona non è tutta la Spagna, come l’Ajax non è tutta l’Olanda. Ciò nonostante le rispettive scuole nazionali sono riconoscibili nel lavoro che Barcellona e Ajax portano avanti. Possiamo parlare di scuola italiana?

Quando parlo con gli altri allenatori, in occasione dei tornei che affrontiamo all’estero, mi accorgo che tra di loro dicono cose molto diverse, ma tutti credono in ciò che fanno e sono disposti ad aspettare anni per vedere i risultati dei loro programmi. Percorrono una strada definita, chiara, e lo fanno fino in fondo. In Italia abbiamo troppa fretta».

S.B.: «All’estero hanno una visione progettuale che in Italia non vedo. Oggi riusciamo a immaginare la nazionale da portare al Mondiale 2026? Perchè ho l’impressione che in altre nazioni lavorino già considerando archi temporali così lunghi. Il movimento italiano sembra più focalizzato al risultato immediato, nel tipo di lavoro che si fa e nelle valutazioni.

Il ruolo del coordinatore, o ”Head of Coaches”, è fondamentale e in Europa è diffuso ovunque. È il mezzo attraverso il quale i club garantiscono l’omogeneità dei loro programmi su tutte le squadre giovanili, stagione dopo stagione. In Europa si pensa in maniera collettiva. Qui in Italia, per differenze culturali o per difficoltà organizzative, lo spazio di azione dell’individuo-allenatore è molto più ampio.

Già il fatto che non esista un corso da coordinatore tecnico, organizzato a Coverciano, dice molto della considerazione che questa figura ha nel nostro sistema calcio. Eppure la prima mossa di Sacchi, quando arrivò a Club Italia, fu di assumere il ruolo di coordinatore delle squadre nazionali. Non è un caso, visto che Sacchi ha avuto esperienze in Spagna nell’Atletico Madrid e nel Real Madrid, sicuramente avrà mutuato questo tipo di figura da quella cultura.

Le dinamiche del mio lavoro sono entusiasmanti, perché il club stabilisce gli obiettivi e io connetto tutte le figure tra loro affinché lavorino allo stesso modo, secondo le stesse linee guida, di allenamento e di gioco, con lo stesso obiettivo finale. Questa unità d’intenti non esiste nel sistema italiano, mentre qui alla Juventus c’è».

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