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Cosa ha significato l'addio di Francesco Totti
01 giu 2017
Perché il discorso del capitano della Roma è stato così struggente.
(articolo)
11 min
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Do not go gentle into that good night,

Old age should burn and rave at close of day;

Rage, rage against the dying of the light.

Dylan Thomas

Sono passati un paio di giorni dall’addio di Totti alla Roma, davanti ai sessantacinquemila spettatori dell’Olimpico, al resto dei romanisti in lacrime che lo hanno guardato su uno schermo e anche a tutti quegli spettatori non-romanisti che si sono sentiti coinvolti da una storia che finisce dopo 25 anni. Gran parte del mondo del calcio, cioè, ma anche qualcuno dal di fuori. C’è qualcosa di più difficile di separarsi nella vita umana? Di più universale? Divorzi, licenziamenti, funerali, l’ultimo giorno di scuola, partenze più o meno definitive, persino il matrimonio è una separazione per le madri che piangono. Per questo ci riuniamo in occasioni del genere, ritualizziamo in maniera più o meno pubblica i momenti traumatici. Per questo la cultura - popolare e non - celebra gli addii strappalacrime: al cinema, a teatro, in musica, nei libri, nella tv più manipolatoria.

L’addio di Totti ha confermato le aspettative: lo stadio strapieno, i messaggi tra amici prima della partita - come stai? con chi la vedi? - e dopo - ti sei ripreso? - gli omaggi su social e blog, gli articoli di giornale: ci si preparava a qualcosa di grande e difficile, e così è stato. Non è stato duro solo per Totti, ma per (quasi) tutti.

Ed è stato “merito” anche della cerimonia di addio in sé. Quante persone hanno avuto l’occasione di salutare sessantacinquemila persone (forse qualcosa in più) tutte insieme? Quanti calciatori hanno fatto un giro di campo lungo venti minuti e poi parlato al microfono per altri dodici minuti direttamente ai propri tifosi? Soprattutto: quanti lo hanno fatto in quel modo? Per quanto belli e tristi neanche gli addii Gerrard, Xavi o Javier Zanetti hanno raggiunto quella autentica, naturalissima, drammaticità. Che tra l’altro ha coinvolto anche una parte consistente di pubblico neutrale.

Adesso che è passato un po’ di tempo, posso riguardare il video dell’addio che ha sconvolto così tante persone cercandone i significati profondi, come fosse un rito, una performance, una rappresentazione simbolica.

Il contesto: l’allontanamento

Oggi lo ricordiamo bene, ma magari tra qualche anno sarà finita in secondo piano la stagione che ha fatto da premessa all’addio stesso e che ha contribuito in maniera fondamentale alla carica emotiva con cui ci siamo arrivati. Va ricordata la rottura netta tra la società e Francesco Totti (comunicata prima da Monchi, che ha confermato lo stato delle cose come da contratto; e dopo in maniera più espressiva da Totti su Facebook: “L’ultima volta che potrò indossare la maglia della Roma”), che ha trasformato un addio in ogni caso non improvviso in una decisione unilaterale, con effetto più o meno immediato. Un evento traumatico arrivato dall’esterno, per Totti e quindi per i tifosi, indipendentemente dalle considerazioni riguardanti l’età e l’opportunità che Totti continui a giocare.

A questo va aggiunto l’utilizzo tecnico che ne ha fatto Luciano Spalletti. Anche in questo caso, al di là del giudizio che ognuno di noi può avere nel merito, lo scarso minutaggio di Totti (ha giocato più in coppa che in campionato, per un totale inferiore ai 900 minuti) ha contribuito a farci percepire la seconda metà della stagione come parte dell’addio. Se si fosse ritirato, ad esempio, alla fine dello scorso anno, dopo alcune partite in cui era riuscito ancora ad essere decisivo, sarebbe stato più traumatico. Saremmo stati meno pronti. Così, invece, l’assenza di Totti dal campo ha fatto da anticamera all’assenza di Totti tout court, al punto che persino alcune tifoserie avversarie (come quella del Dall’Ara, per fare un esempio) gli hanno reso omaggio pur senza sapere come sarebbero andate a finire le contrattazioni tra Totti e la Roma.

Ed è stata l’ambiguità della situazione a impedirci di accompagnarlo veramente passo dopo passo: non c’è stato il farewell tour che qualcuno si augurava sul modello di quello avuto da Kobe Bryant appena un anno fa, dopo un annuncio chiaro che veniva direttamente da lui.

La tensione si è accumulata anche per ragioni strettamente sportive come il secondo posto della Roma in discussione fino all’ultimo minuto dell’ultima partita, appunto quella con il Genoa. I cambi di punteggio del secondo tempo fanno storia a parte, con la liberazione del gol di De Rossi immediatamente castrata dal pareggio di Lazovic, poi il palo del possibile 2-3 rossoblù e il definitivo 3-2 di Perotti; ma parte dell’energia nervosa di cui si è caricato l’Olimpico (compresi i giocatori in campo) era dovuta all’ingresso a inizio secondo tempo di Totti.

Un carico sulla partita - per giunta in contraddizione con le scelte prese in precedenza da Spalletti - talmente simbolico che ne potremmo parlare quasi come di un tentativo “magico” di cambiare il corso degli eventi.

Magia che non è riuscita per pochissimo, per la punta del piede di Gentiletti.

Riti di passaggio

Insomma, il contesto ha fornito quelli che per l’antropologo Van Gennep costituiscono i primi due momenti fondamentali per i riti di passaggio: la separazione dal contesto in cui si trova l’individuo che deve compiere il passaggio (portato ad esempio in una foresta, e nel caso di Totti la foresta è la panchina) e la prova (una fase di transito in cui l’individuo vive tra uno stato e l’altro: Totti non era un giocatore, ma non era neanche un ex-giocatore: è stato chiamato in causa in una partita decisiva ma un attimo dopo ci avrebbe salutato per sempre).

Il terzo momento è quello della riaggregazione, della cerimonia con cui l’individuo compie il passaggio e viene reinserito nella società con un nuovo stato. Il giro di campo e il discorso di addio, appunto.

Se tiro fuori dai ricordi dell’università il poco che so di antropologia sociale è perché i riti di passaggio si accompagnano (in società primitive e industrializzate) anche ai momenti chiave della vita collettiva, come ad esempio il passaggio “biologico” all’età adulta. Un’immagine che Totti stesso ha usato più volte nel suo discorso finale (anticipata nel passaggio di consegne al giovane capitano dei Pulcini Mattia Almaviva): smettere di giocare a calcio significa crescere, separarsi dal mondo della sua giovinezza.

La parte finale del “rito”, la lettura della lettera, è quella ovviamente più densa di significati, quella in cui l’aderenza tra le emozioni di Totti, le sue parole e il pubblico, viene ribadita e cementificata. Le lacrime di dolore dell’ultimo giro di campo diventano il combustibile che terrà viva l’unione tra il “Capitano” e il suo popolo anche quando non sarà più un calciatore della Roma.

Quella lettera conclude il passaggio di Totti da uno stato all’altro (da “Totti calciatore” a “Totti e basta”) conservandone intatto il rapporto con il suo pubblico, e al tempo stesso aiuta indirettamente il pubblico stesso a fare i conti con il cambiamento in atto.

Maledetto tempo

È qui secondo me che vanno ricercati i significati profondi del dramma sociale messo in scena da Totti insieme agli spettatori, anche a costo di andare al di là della volontà stessa di Totti e di chi lo ha aiutato a scrivere la lettera - lui dice di averne parlato con la moglie - o di dare un valore troppo grande a quello che fuori da Roma potrebbe sembrare solo una manifestazione di affetto esagerata.

E a proposito di dramma, prima di leggere la lettera vera e propria Totti si comporta come un performer, anche se in teoria non dovrebbe esserlo, e anzi lui gioca con la doppiezza del suo ruolo ricordando subito di essere uno “di poche parole”, uno che si esprime meglio “con i piedi” (e in realtà si potrebbe riflettere su quanto i calciatori o gli sportivi in generale siano sempre anche dei performer, su come Totti in fondo sia stato un attore anche in campo, spingendo all’identificazione ben al di là del suo romanismo). Cammina girando su se stesso, si prende delle pause, dice che “sembra un concerto”. Improvvisa con la battuta pronta tipica dei romani: “È ora di cena, avete fame. Io starei qua fino… altri 25 anni”. Ma anticipa anche che “è arrivato il momento” e che non è facile dimenticare 25 anni passati “con voi dietro alle spalle, che mi avete spinto sempre”. I due grandi protagonisti del suo discorso: il tempo e il suo pubblico.

C’è una componente di critica allo stato delle cose nella reticenza di Totti ad uscire di scena, che non è razionale - in fondo parliamo di un calciatore ben oltre l’età media a cui si ritirano i calciatori, che persino molti suoi sostenitori faticano a immaginare in campo in una squadra di livello - ma puramente simbolica e performativa. Totti dice che il “maledetto tempo” gli ha bussato sulla spalla dicendogli “dobbiamo crescere, levati i pantaloncini e gli scarpini perché tu da oggi sei un uomo” - ancora: razionalmente parlando nessuno mette in dubbio che a 40 anni, con tre figli, Totti è diventato uomo da un pezzo. Si ricollega all’infanzia, parla del pallone come di un “giocattolo”, descrive il momento che sta vivendo come quello di un bambino che sta sognando e viene svegliato dalla madre per andare a scuola.

Non è un caso se Totti non parla mai di futuro. Anche se poco dopo la cerimonia sarebbe uscito un video in cui sembra dire di voler continuare a giocare, il legame tra Totti e il pubblico è basato anzitutto sull’intercettazione del sentimento di incertezza generale. Mi riferisco sia alla partecipazione al suo destino, alla difficoltà che singolarmente e collettivamente gli spettatori provano nel separarsi da Totti; sia al sentimento profondo che l’immagine senza futuro di Totti rispecchia (il New York Times ha tirato in ballo la decadenza di Roma, ma non credo che altrove in Italia, in Europa e nel resto dell’occidente il filtro con cui si interpreta il domani sia meno oscuro).

Il culto dei calciatori è il culto della loro giovinezza, dei loro corpi: quanto vanno veloce, quanto sono potenti, quanto ingrassano o quanti muscoli hanno preso da una stagione all’altra. Il potenziale critico del rifiuto di Totti sta nel commento negativo a una società in cui il culto della giovinezza (che il capitalismo e il consumismo hanno alimentato e ingigantito) serve come copertura per una patologica e strutturale mancanza di immaginazione quando si parla di futuro. Totti stesso non promuove nessun cambiamento, ma propone l’identificazione degli ascoltatori nelle sue parole, permettendo loro di fare esperienza del loro stesso dolore.

Come minimo questo li ha aiutati a superare quel momento difficile, ma non è detto che non possa in qualche modo aver cambiato inconsciamente l’approccio degli spettatori nei confronti del sistema (antropologi come Victor Turner e Stanley Tambiah hanno approfondito il modo in cui i riti possono anche indurre cambiamenti nel mondo reale).

Ed è fin troppo ovvio il collegamento tra questa uscita di scena bruciante e l’immagine forte di un calciatore con il talento di Totti che ha vestito una sola maglia. Poco importano le ragioni pratiche per cui le cose sono andate così (e cosa sarebbe successo se fosse andato via), è l’idea stessa che abbiamo di Totti che comunica sia fedeltà che il rifiuto - che non è nostalgia, perché non è passato - della logica di sistema. E mi è capitato di sentire, dalle persone che si sono sentite maggiormente coinvolte, che con l’addio di Totti il calcio è morto; proprio come quando rifiutiamo qualcuno o qualcosa che ci ha deluso profondamente dicendo che per noi è morto.

Vi amo

Totti ha mostrato quello che di solito non si vede, giocando con i soliti codici dell’addio di uno sportivo ma drammatizzandoli in una prospettiva futura letteralmente oscura. Poco prima di concludere ha detto: “Spegnere la luce non è facile”. E c’è qualcosa di funebre anche nel saluto finale, quando dice: “Ora scendo le scale, entro nello spogliatoio che mi ha accolto che ero un bambino e che lascio adesso che sono un uomo”. Eppure, al posto delle conclusioni pacificatrici di circostanza (di solito si parla del futuro della squadra, Totti invece non menziona mai la Roma futura), offre una consolazione ancora più efficace.

Il passaggio finale comincia quando dice: “Questo è il pezzo più brutto. Ora è finita veramente”, e il pubblico esprime teatralmente i propri sentimenti con un teatrale: “NOOOOO”. Totti dice di aver paura, chiede anzi che gli venga concessa la possibilità di aver paura. E aggiunge: “Questa volta sono io che ho bisogno di voi”.

Improvvisamente, inaspettatamente, ha trasmesso al pubblico tutto il suo potere. In campo poco prima non gli era riuscita la magia di cambiare il risultato, ma l’incantesimo compiuto poco dopo sta tutto in quella frase, che nessun calciatore prima di lui aveva pronunciato, non in maniera così chiara e diretta, almeno.

Totti ha preso il suo dolore, autentico e inevitabile, il senso di impotenza e tutti i pensieri a cui non ha dato forma - compreso il rancore che verosimilmente deve aver provato in questi ultimi mesi nei confronti della società - e ci ha fatto un pacco regalo per il suo pubblico. Ha donato loro quel potere che gli veniva attribuito per le sue doti di calciatore (come solo qualcuno di molto consapevole del proprio potere può fare): io non ce l’ho più ormai, ma ce l’avete voi.

La forza del suo addio sta nel modo in cui ha caricato le sessantacinquemila persone all’Olimpico - e tutte le altre coinvolte a livello emotivo anche solo attraverso YouTube - di una responsabilità simbolica che è anche una consolazione e il prolungamento del legame stesso tra Totti e il pubblico oltre i limiti di tempo imposti dal calcio.

Quelle persone arrivate allo stadio senza sapere se avrebbero visto Totti in campo un’ultima volta, esaurite da una stagione difficile, abituate da 25 anni a pensare a Totti come a una certezza e adesso con una tristezza inconsolabile fatta di 25 anni di ricordi; sono andate via trasformate, con qualcosa in più a livello interiore, con l’idea che Totti ha bisogno di loro, che loro possono aiutarlo. Un’identificazione profondissima che prenderà il posto della presenza di Totti in campo, un contratto nuovo, senza scadenza, siglato direttamente con il suo pubblico.

Non male, per uno che si esprime meglio con i piedi che con le parole.

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