Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Boogie-Woogie
30 apr 2015
DeMarcus Cousins è uno dei migliori centri della NBA, se non il migliore. Allora perché la sua squadra non va ai playoff? Una storia di solitudine e confusione dirigenziale.
(articolo)
15 min
Dark mode
(ON)

La stagione numero cinque della carriera di DeMarcus “Boogie” Cousins è volta al termine. Una stagione complessa almeno quanto il giocatore. Purtroppo una stagione perdente, l’ennesima da cui ripartire. In questa stagione ho capito cosa non mi fa godere le sue partite: ho capito che Cousins è un raro caso di point-center e ho capito che il proprietario Vivek Ranadivé è attualmente il peggiore della NBA. Non che ci volesse un genio per entrambe le cose, ma procediamo.

Guardare Boogie non è un piacere come dovrebbe

Non si può rimanere indifferenti davanti ad una partita di Boogie. C’è chi lo ama incondizionatamente, ritenendolo il centro più talentuoso della NBA che—rubando le parole del telecronista dei Kings contro i Pelicans—è «too strong, too mobile, too agile!», e chi aggiunge sempre un «sì però» dopo aver letto i box score di fine gara. Sì però i falli. Sì però le palle perse. Sì però hanno perso.

Tra le star NBA è uno di quelli di cui, fino alla scorsa stagione, evitavo di guardare la partita in diretta, accontentandomi di box score e riassunti sul League Pass, a meno di sfide importanti. Ero uno dei “Sì però”, con un rifiuto verso Cousins a cui non ho mai pensato razionalmente fino a questa stagione, in cui, avendo seguito un buon numero delle partite dei Kings post All-Star Game, ne ho capito il motivo: le partite di Cousins sono una sofferenza. Sono una lotta continua che la regia è ben lesta a mostrarti per intero quasi fosse il piatto forte della serata.

Ogni canestro fatto è seguito dalla telecamera, che va sul viso di Boogie aspettando un suo grido di liberazione, soffermandosi anche più di tre secondi solo su di lui mentre torna in difesa; ad ogni canestro subito vanno a scrutare l’espressione frustrata del numero 15 (non ho fatto nessuna ricerca empirica a riguardo, ma sono sicuro che i secondi che le telecamere dedicano a Boogie dopo ogni canestro subito siano di più rispetto alle altre stelle NBA). Ogni fallo fischiato. Ogni passaggio sbagliato dai compagni. Ogni palla persa da lui.

Un reality show che fa sembrare le partite dei Kings infinite e che ti lascia un senso di insoddisfazione crescente. Cousins sembra giocare una partita contro gli avversari e allo stesso tempo contro sé stesso. E noi dobbiamo seguire ogni sua manifestazione di rabbia o di liberazione. Non esiste che tu possa guardare solo il basket di Boogie, ti becchi anche la narrativa che gli abbiamo appioppato noi. Visto poi che è primo per falli fatti nella Lega con 4.1 a partita e secondo per palle perse con 4.3 (dietro solo a Russell Westbrook con 4.4), almeno una decina di volte a partita i telecronisti parlano sulle immagini delle reazioni di Boogie.

Ok, in questo caso le telecamere ad aspettare la reazione le merita tutte.

Guardare una partita di Boogie non è quindi una cosa semplice: non porta pura gioia come quando gioca Curry, o stupore come quando gioca Westbrook. Guardare Cousins porta sentimenti che vanno dalla pena nei suoi confronti per le chiamate spesso al limite fischiate sempre a sfavore dagli arbitri o per le palle perse per passaggi che i compagni non riescono a leggere, alla rabbia per una squadra che quando non lo coinvolge rischia di inventarsi azioni talmente brutte da meritare una GIF.

Le partite di Boogie non sono un’esperienza piacevole perché si vede proprio che lui ci tiene alla squadra. È come assistere in diretta a Sisifo che rincorre il masso che cade giù, in un loop infinito.

Non è uno di molte parole (nel post gara devono cavargliele fuori di bocca). In un’intervista con il Washington Post però tra le cose dette ci ha tenuto ha ribadire che: «Prendo il mio lavoro sul serio. Amo questo gioco. Non è per i soldi, non è per la fama. Ci tengo. La cosa più grande che posso ammettere è che non sono perfetto e lo so». Lo sa e ci sta provando a contenersi nelle reazioni, per non mettere in difficoltà la squadra: qualche volta è andata bene come contro i Suns e qualche volta è andata meno bene come contro i Grizzlies, dove sembrava che potesse resistere alle provocazioni di Zach Randolph, prima di esplodere e prendersela con una sedia in uno scatto di frustrazione.

Dopo aver seguito il Calvario Personale di Boogie però ho imparato a rispettarlo e ad apprezzarne la voglia di imporsi e il tentativo di essere leader di una squadra scapestrata come i Sacramento Kings. Anche mettendoci la faccia e andando a ledere il suo percorso di miglioramento nella gestione delle reazioni durante la partita.

Non è un piacere ma è forte e potrebbe esserlo pure di più

La prima cosa che colpisce guardando Cousins in campo è il rapporto tra stazza e controllo del corpo. Da almeno due stagioni è tirato a lucido dal punto di vista della linea e sembrano lontanissimi i tempi in cui (a ragione) si scherzava sul peso di Boogie. Non esistono nella Lega altri giocatori della sua stazza (122 chili) capaci di mettere la palla a terra e penetrare a canestro con tanta facilità, avendo allo stesso tempo la visione di gioco e la capacità di segnare il piazzato.

I Kings lo sanno e infatti lo sfruttano praticamente come point-center, facendogli toccare il più possibile il pallone e permettendogli di creare per sé stesso o per i compagni. Solo in questa annata sono cambiati tre allenatori, ma la percentuale di possessi che passano per le mani di Boogie non è stata toccata da nessuno—32.9% con Mike Malone, 34.3% con Tyrone Corbin e 34% con George Karl (per usage è dietro solo a Kobe, Wade e l’inarrivabile Westbrook come percentuale di possessi usati da un giocatore in campo). Per ricevere tanti palloni varia molto la posizione in cui va a prendere la palla, spesso alternando la ricezione al gomito rispetto a quella spalle a canestro.

Non parliamo di un orso con i piedi da ballerino, ma ci siamo tremendamente vicini e sicuramente rende bene l’idea.

La sua capacità di alternare le zone di ricezione è particolarmente interessante. Andando alle origini di questo trend, si deve tornare al 2013, quando l’allora allenatore Keith Smart ha spiegato a Zach Lowe su Grantland perché ha sviluppato così il suo centro: «[ricevere dal gomito] Gli permette un angolo migliore per vedere il campo, e lui è in grado di tirare anche bene da lì. Può andare a canestro direttamente o ha la possibilità di passare il pallone. Da quella zona hai un angolo migliore per passarla a certi giocatori. E quando sei nel dubbio hai la possibilità di giocare un pick and roll su quel lato. Si tratta di farlo muovere invece di provare a mantenerlo vicino a canestro, perché io non credo lui sia ancora un giocatore da spalle a canestro. Si sta ancora sviluppando nei movimenti spalle a canestro. Ci sono dei flash ogni tanto grazie alla sua stazza, ma quando giochi contro qualcuno grosso come te i tuoi movimenti spalle a canestro potrebbero esserti negati se non ne sei ancora padrone. Quindi credo che le sue caratteristiche lo fanno giocare meglio sul gomito, un po’ più indietro sul campo. Tira molto bene per essere un lungo ed ha la capacità di partire in palleggio e andare a canestro».

Personalmente non concordo con il fatto che Boogie non sia un gran giocatore spalle a canestro—anche se l’intervista è del 2013, se Smart è stato esonerato ci sarà pure un motivo…—per il semplice fatto che, con la rapidità di piedi e la potenza che si ritrova, Boogie o arriva prima o spazza direttamente via il difensore con il suo movimento. Ma ha senza dubbio ragione Smart quando dice che ricevendo lontano dal canestro può aiutare meglio la circolazione di palla. In questo sia l’attuale allenatore George Karl che Boogie stesso sono d’accordo: «Credo che giochiamo al meglio quando Cuz fa cinque o sei assist. Se gioca come un buon playmaker, allora diventa impossibile da marcare». E aggiunge Boogie: «Sono chiaramente più passatore ora, è un modo diverso di guardare alle cose, un miglioramento. Ma credo che alla fine la cosa aiuta tutti come squadra a migliorare».

L’idea che il playmaker sia colui che porta la palla oltre la metà campo è fondamentalmente sbagliata. Il playmaker di una squadra è quello che indirizza il gioco, e può essere Chris Paul come LeBron James o Marc Gasol. Tre ruoli diversi in campo che in comune hanno il fatto che il gioco della squadra passa per le loro mani.

Cousins è per i Kings un playmaker a tutti gli effetti e tra i centri NBA solo Noah e Marc Gasol forniscono più assist.

Purtroppo giocare tanti palloni non lo aiuta nella gestione delle palle perse: è secondo nella NBA. Anche se va detto che il turnover ratio, il numero di palle perse per 100 possessi, è assolutamente nella media del ruolo, con 14.4, e che spesso il problema non è di chi passa il pallone, ma di chi lo dovrebbe ricevere…

Vlade Divac, che proprio in maglia Kings si è affermato come uno dei migliori centri passatori di sempre, appena si è insediato nella dirigenza dei Kings ha parlato così: «Sono nella pallacanestro da tanto, tanto tempo e devo dire che è il lungo più talentuoso che io abbia mai visto. Shaq non era talentuoso, era solo forte fisicamente. Io ero talentuoso, ma non ero forte fisicamente. Lo voglio vedere diventare il leader di questa squadra, un vero leader che renda tutti migliori. Può farlo con i suoi passaggi e con la capacità di segnare. Può fare tutto».

La capacità di incidere facendo circolare la palla è stata sublimata con le due triple doppie consecutive in back-to-back contro i Rockets di Harden con 24 punti, 20 rimbalzi e 10 assist e contro i Pelicans di Davis con 24 punti, 20 rimbalzi e 13 assist. Come sempre, due performance individuali eccezionali rovinate da due sconfitte di squadra. Se Boogie non la passa, i Kings vicino ai 30 assist di squadra non ci arrivano praticamente mai, nonostante il gioco più dinamico voluto da Karl rispetto ai predecessori (il pace è aumentato da 97.55 a 100.37 dall’arrivo di Karl nel post All-Star Game).

Adesso, tolto il fatto che si trattava ovviamente di una provocazione per finire sui giornali e farsi pubblicità coccolando la stella della squadra (facciamo i bravi Vlade…), è innegabile che offensivamente parlando Boogie sia capace di segnare in qualunque modo (ok non proprio qualunque… anche se forse…) e di reggere praticamente da solo un sistema intero sulle spalle, partendo dal rimbalzo difensivo (è secondo nella NBA con 9.5, dietro a DeAndre Jordan con 10.1) e arrivando alla gestione del possesso in post alto segnando o facendo segnare.

Neanche il basket ad un ritmo più elevato voluto da Karl sembra avere problemi ad incorporare Boogie nel sistema. Lo stesso Karl ne ha parlato dicendo che «riguardo l’inserimento di un lungo giocando ad un alto ritmo, DeMarcus è un grande rimbalzista difensivo, forse il migliore con DeAndre Jordan. Tutti i sistemi ad alto ritmo partono dal rimbalzo difensivo. Inoltre lui è anche un buon giocatore in post alto». (A dire il vero per percentuale di rimbalzo il migliore della NBA è Hassan Whiteside di Miami con 33.4%, seguito da DeAndre Jordan dei Clippers e Reggie Evans di Sacramento con il 33.4% entrambi, ma Boogie rimane 6° con 29.7%).

Karl non parla molto di difesa: nella loro metà campo i Kings sono peggiorati arrivando ad un orribile rating difensivo di 107.4 rispetto al 101.4 della prima metà di stagione. Eppure quest’anno la storia che Cousins-Non-Difende non vale più: la difesa in uno contro uno non sarà mai il suo forte e non vincerà mai il premio di Difensore dell’Anno, ok, ma è diventato un buon protettore del ferro con gli avversari che segnano col 47% con lui davanti. Certo, non siamo al mostruoso 40.4% di Rudy Gobert, ma è pur sempre nella top 10. Unendo poi un ottimo apporto di stoppate e palloni rubati.

Mettendo insieme stoppate e palloni rubati Davis prende il largo rispetto alla concorrenza, ma Cousins è nella top 3 della Lega, non un risultato da poco se messo insieme ai rimbalzi difensivi e alla buona protezione del ferro.

Le molte note positive del gioco di Boogie non nascondono però i difetti della sua squadra. Anche quest’anno Sacramento non è andata neanche vicina a giocarsi i playoff e—se per impegno e volume di gioco questo è stato nettamente il miglior Cousins della carriera—la sua grandezza individuale non è ancora riuscita a portare la sua squadra ad avere risultati quanto meno accettabili. Un problema che inizialmente poteva essere attribuito ad una poca maturità da parte di Boogie, ma che ormai è chiaramente legato al contesto assurdo in cui si è ritrovato e che non lo sta aiutando nel suo sviluppo, soprattutto nella pulizia di tante piccole cose che evitino di far disperdere il tanto talento, come la selezione di tiro.

Più è scuro il blu e superiore è la percentuale al tiro rispetto alla media della Lega. Se Anthony Davis è stato seguito nello sviluppo, andando a lavorare dove può essere più efficiente, Boogie, che non è stato seguito a dovere, è ancora molto irrazionale nelle scelte di tiro.

La confusione ai piani alti è il vero problema: i Kings sono una squadra costruita male, che deve già pensare al prossimo anno con poco spazio salariale e pochi asset di valore da poter scambiare (ricordando sempre che i tanti cambiamenti sono una delle accuse fatte da Boogie alla dirigenza). Soprattutto, stanno ritardando la definitiva maturazione di Cousins, che sembra essere migliorato più per evoluzione naturale che non per uno sviluppo serio e ragionato del suo gioco. Se non abbiamo ancora davanti il centro più talentuoso della Lega a pieno regime, la causa principale è quanto accaduto durante la stagione tra chi prende le decisioni.

La peggior dirigenza della Lega

Il premio non ufficiale di Peggior Dirigenza dell’Anno va a mani basse ai Kings: dalla pantomima del Draft in cui il proprietario Vivek Ranadivé, dopo aver fatto finta di voler ascoltare il parere di tutti, si è imposto in modo grottesco tra i silenzi imbarazzati dei suoi collaboratori, alla vicenda dei tre allenatori in un anno e il recente passaggio di consegne al neoarrivato Divac. Sacramento è messa male, sotto ogni punto di vista.

In cinque stagioni Boogie ha giocato per sei allenatori, due GM e due proprietà diverse. Nell’intervista durante l’All-Star Break con Bill Simmons, il centro dei Kings non poteva essere più chiaro: «È difficile essere costanti nelle prestazioni quando tutto cambia continuamente. Sto cercando un ambiente stabile così che tutti possano essere sulla stessa pagina ed avere lo stesso obiettivo in mente». Quando Simmons gli ha chiesto con quante point guard titolari Boogie ha giocato in cinque anni di carriera, lui non è riuscito a rispondere in modo completo. Anche perché non sono tre o quattro. Sono nove: Tyreke Evans, Beno Udrih, Jimmer Fredette, Aaron Brooks, Isaiah Thomas, Greivis Vasquez, Ray McCallum, Darren Collison, Ramon Sessions.

Questa è l’intervista completa. Se volete vedere cosa ha fatto Boogie durante l’All-Star week ecco qui un bel riassunto del dietro le quinte.

La miglior versione che spieghi il perché del disastro a Sacramento l’ho trovata su SB Nation, dove Tom Ziller sostiene che Ranadivé stia cercando di utilizzare la stessa filosofia della dirigenza dei Golden State Warriors, ovviamente con minor successo.

Vivek ha messo insieme un consultorio con tante voci importanti, esattamente come agli Warriors, formato dal GM D’Alessandro, l’assistente GM Mike Bratz, il direttore del personale Dean Oliver, l’advisor Chris Mullin (ora diventato allenatore di St. John’s University), l’assistente speciale al GM Mitch Richmond e il neo-vicepresidente Vlade Divac. Il tutto però riservandosi l’ultima parola nella dirigenza, senza fidarsi veramente di nessun assistente.

L’esempio più eclatante è stato l'esonero di Mike Malone: anche dopo un inizio di stagione di buon livello (per non dire ottimo), Vivek ha ritenuto che lo stile della squadra non fosse di suo gradimento e l’allenatore è stato quindi rimosso dall’incarico senza dire nulla alla stella della squadra («Mi hanno detto che stava succedendo mentre stava succedendo», parola di Boogie) che, in tutto questo, aveva dovuto saltare diverse partite per una meningite, senza poter aiutare l’allenatore a tenere il suo posto. (Non fa male ricordare poi che Malone venne scelto da Vivek prima di insediare il GM D’Alessandro, che da subito gli è stato ostile).

A sostituirlo è stato l’assistente Ty Corbin, una scelta di ripiego rispetto a Chris Mullin (che non voleva prendere la squadra in corsa), silurato dopo qualche mese per fare spazio a George Karl—permettendo oltretutto alla stampa di creare un bel polverone attorno a Boogie, accusato di non volere Karl per via dei cattivi rapporti tra i procuratori dei due. Cousins ha risposto al tutto con dichiarazioni criptiche alla stampa tipo: «Vi voglio chidere una cosa: come pensate di fermare i piani di Dio?», prima di uscire con una versione più comprensibile una volta sbollito un po’: «Io non licenzio o assumo allenatori. Tutti sanno che mi piaceva e rispettavo coach Malone. Non avrei voluto che succedesse quanto è accaduto. Non sono coinvolto in nessuna decisione riguardo gli allenatori. Ho sentito che George Karl è un grande allenatore: se è questa la direzione che l’organizzazione vuole scegliere, io la supporterei. Per rispetto nei confronti di coach Corbin non avevo intenzione di fare nessun commento riguardo quanto accaduto. Ma a questo punto ho pensato che le cose andavano chiarite. Non sono stato consultato quando è stata presa la decisione di licenziare Mike Malone e non sono stato consultato adesso. Spero solo che prendano una decisione alla svelta e le rimangano fedeli. Non mi piacciono tutti questi discorsi mentre abbiamo ancora un allenatore al suo posto, sono una distrazione e non sono rispettosi nei confronti di coach Corbin e del suo staff». Come a dire: il casino lo stanno facendo al piano di sopra, non mi mettete in mezzo che io voglio solo pensare a giocare.

Un uomo solo in città

Cosa non semplice, dal momento che è lui a catturare tutte le attenzioni in città. Ragionando sul momento in cui il suo nome era sulla bocca di tutti per il discorso sul nuovo allenatore: «Ho sentito che si era superato un certo limite e ho cercato di capire come superare questa cosa. Sono arrivato alla conclusione che sono a Sacramento e, non per sembrare arrogante, ma cosa c’è di più grande del mio nome a Sacramento? Ci potrebbe essere pure un diamine di incendio nella foresta a Sacramento e il mio nome uscirebbe fuori del tipo 'era vicino alla casa di DeMarcus Cousins'».

Con un contratto firmato da poco, non volendo lasciare una città che lo ama e comunque la remota possibilità di essere scambiato in contesti migliori, Cousins si lascia alle spalle l’ennesima stagione di transizione. Ma come ha detto al Washington Post: «Penso che tutto sia una lezione. Alla fine mi renderà più forte. Io lo so che raggiungerò il successo, di qualche tipo, perché sono fatto così. È quello che faccio. Detto questo, sto attraversando questi giorni complicati perché quando arriverà il mio momento, nulla mi potrà fermare». Il problema è che il tempo passa e non possiamo resettarlo ad ogni stagione, fino ad arrivare alla definitiva esplosione di Boogie Cousins come miglior centro della Lega. Caro Vivek, non possiamo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura