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Dalla curva non si vede bene
11 ott 2013
Il dibattito sulla chiusura delle curve degli stadi e il limite tra sfottò e vera discriminazione è uno di quelli che può dirci qualcosa di più su chi siamo. Una discussione à più voci (e punti di vista) con Fulvio Paglialunga, Davide Coppo e Tim Small.
(articolo)
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DANIELE MANUSIA: Su Twitter seguo quasi solo gente che ha a che fare con il calcio e l’argomento del giorno di martedì 8 ottobre, la cosa rilevante, era la chiusura delle curve per discriminazione territoriale e la minaccia che tutte le curve si mettano volutamente a fare cori discriminatori per costringere la Lega all’assurdo di un’eventuale chiusura di tutte le curve. A me divertiva che non venisse presa in considerazione la possibilità opposta: smettere di discriminare, così ho scritto questo:

https://twitter.com/DManusia/status/387580023579746304

Dopodiché non so se con senso della responsabilità o semplice desiderio di avere ragione e dire l’ultima parola, ho passato il pomeriggio (e quello del giorno dopo, e del giorno dopo ancora) a fare pause per discutere della questione, su Twitter e Facebook. Il dibattito a un certo punto è diventato un uno contro uno tipo elezioni tra me e Fulvio Paglialunga (abbiamo pubblicato per lo stesso editore ma non ci siamo mai incontrati di persona) su Twitter; mentre su Facebook tra i vari commenti (tipo: «Se ti danno fastidio gli insulti non andare allo stadio ci sono cento anni di cultura», «Ma non ci andare te allo stadio io mi voglio vedere la partita e sostenere la mia squadra») si è inserito Davide Coppo che non condivide completamente la mia idea. Poi Fulvio mi ha chiesto se non pensavo sarebbe stato interessante scrivere qualcosa confrontando le nostre posizioni e l’idea è piaciuta a Tim Small con cui parlo di argomenti del genere un giorno sì uno no e abbiamo pensato di portare la discussione su l’Ultimo Uomo.

A me sembra interessante per due motivi: il primo è che di fondo siamo tutti d’accordo sul fatto che il razzismo e le altre forme di discriminazione siano sbagliate; il secondo è che nessuno di noi fa il legislatore ma al massimo siamo scrittori. Il che per quel che mi riguarda significa ragionare con la mia testa, senza mettermi per forza nei panni di chi per divertirsi allo stadio sente necessariamente il bisogno di insultare i tifosi avversari. Quindi per me difendere le curve adesso significa in sostanza difendere il diritto di alcune persone di andare allo stadio a guardare la partita/cantare/sostenere la propria squadra/insultare altre persone che però volendo possono rispondere a tono perché il diritto di insultare vale anche per loro. Per cominciare m’interessa capire di cosa si tratta veramente secondo loro (d’accordo con le proteste delle curve), cosa secondo loro si sta difendendo.

FULVIO PAGLIALUNGA: Difendo il diritto di tifare. E, dunque, anche di “tifare contro”. Fa parte della nostra tradizione, fa parte del campanilismo. Che è fuori dallo stadio ed è dentro. Anticipo l’obiezione di molti: il tifo contro esiste solo in Italia. E non è vero. Altrimenti i tifosi del Celtic non canterebbero, negli Old Firm, “Let’s make an huddle when Rangers die” girandosi di spalle al campo. Il tifo contro è insulto? Purché non sia pregiudizio, purché faccia parte del gioco. E gli ultras napoletani, con l’autoinsulto, e i tifosi interisti, con l’invito a tutti a farsi chiudere la curva, hanno fatto capire come nella loro cultura ci sia anche questo. Le discriminazioni sono un’altra cosa (io le combatto, allo stadio non le apprezzo, ma esiste un partito che è stato anche di governo che su questo ha costruito la sua “fortuna”), ma rendere tutto discriminazione e chiudere le curve a ogni soffio (persino quando il resto dello stadio non ha sentito, ma un oscuro funzionario dell’Ufficio Indagini sì) vuol dire rendere caricaturale un problema più serio. Dunque, correre il rischio che nulla appaia più serio, nemmeno il problema.

DANIELE MANUSIA: Capisco la questione del tifo contro, però non credo coincida con l'insulto. Ho amici romanisti/laziali che ne fanno una specie di arte, con prese in giro intelligenti, ironiche (certo, alla base c'è sempre l'infantilismo della presa in giro perché la “mia” squadra ha perso e la “tua” no). Anche sulla questione discriminazione non sono d'accordo. Le rivalità “campanilistiche” nascondono veri pregiudizi e vere offese discriminatorie. Non si tratta di definire la propria identità (che poi se si parla di identità regionali mi sembra una cosa criptofascista) ma di definire in negativo quella altrui.

Parliamo del problema culturale. Di cori insultanti ne ho sentiti molti, sinceramente non mi sembra stiamo parlando di vette della cultura popolare. “Milan, Milan, vaffanculo” è cultura? “O colerosi che non vi siete mai lavati” è cultura? Le eccezioni veramente divertenti sono poche. È così irrinunciabile questo aspetto del tifo? “Ci insultavamo anche negli anni ottanta, e anche nell'ottocento, e anche nel Medioevo” secondo me non è una ragione per cui si debba continuare. Però devo ammettere che non sono un tifoso vero, per come lo intendono i tifosi che si sentono veri. Per me la cosa più importante è la partita e al limite mi concentro nel sostenere la mia squadra, ricordo poco del calcio non-moderno. Di quel mondo per come lo immagino però mi possono mancare i tamburi e i fumogeni, ma non, che ne so, le risse e i furti in autogrill. Perché non si protesta per le cose belle? Perché le curve non dicono: “D’accordo, niente discriminazioni e chi sbaglia lo mettiamo fuori noi, ma ridateci i tamburi? Non introdurremo petardi o bombe pericolose ma solo fumogeni che non ostacoleranno la partita in corso?” A me non sembra stiano chiedendo questo.

DAVIDE COPPO: Prima di affermare delle cose vorrei premetterne altre. La prima è che ieri ho bevuto moltissimo. Poi, prima di seguire il percorso della discussione, vorrei capire di cosa stiamo parlando esattamente. Stiamo parlando di discriminazione o di insulti? Il fatto che a qualcuno non piaccia sentire gli insulti non può essere un metro per far agire lo Stato, non vorrei stare in una discussione in cui ci si chiede se uno Stato può o non può decidere cosa determinate persone possano dire e in che modo. Nei limiti della legalità, della convenzione di Ginevra, della Costituzione. Ma “hai la mamma puttana” si può dire, grazie al cielo, e qualcuno si offenderà, ma pazienza. Quindi: parliamo di leggi che tendono a regolamentare l’espressione di determinati cori riguardanti discriminazioni varie o parliamo di insulti? Io parlerei della prima cosa.

Un’ultima cosa: il regime fascista schiacciò le identità regionali e cercò di strozzare le identità particolari e l’utilizzo dei dialetti, quindi trovo molto sbagliato e in qualche modo offensivo parlare di criptofascismo nei confronti dell’identità regionale.

FULVIO PAGLIALUNGA Se la mettiamo sulla cultura, non lo è nemmeno dire “arbitro cornuto”. Poi parliamo di curve, ma se le curve sono zitte o vuote dagli altri settori arriva di peggio. Il punto è: dov’è il confine? Per me all’interno dello stadio: vivo, per questioni di geopolitica del pallone, la rivalità con il Bari. Non ho avuto il tempo per tifare da adulto, in vita mia, essendomi trovato subito dall’altra parte della barricata. Ma alla “squadra” Bari e dunque ai suoi tifosi dall’altra parte un “vaffanculo” lo direi, durante la partita, per quello che la rivalità calcistica rappresenta. Altrimenti aboliamo anche l’antico “chi non salta è…”. Poi, però, ho straordinari amici a Bari e trovo anche Bari una splendida città. E c’è davvero qualcuno che cantando “Milano in fiamme” si augura davvero ‘sta roba? Piuttosto a me così come non piace l’idea che i giocatori debbano essere esempi di senso civico per chi guarda le partite, non piace nemmeno l’idea che punendo i tifosi si “educhi” una società. Perché fuori dagli stadi le discriminazioni (e dunque la definizione in negativo degli altri) sono anche più pesanti. Ma il concetto è sempre quello: affrontando il problema con metodi così grotteschi diventa una sfida, sembra la macchinazione di chi vuole il calcio in tv e dunque un motivo per far schierare gli ultras compatti contro un “sistema”. Se si vuol affrontare un problema, occorre capire la cultura (e dunque la mentalità) di chi va allo stadio. Come non è stato con la tessera del tifoso, come non è stato negli ultimi anni nella gestione dell’ordine pubblico. Poi, se vuoi, guardiamo i numeri: punire tutti per cinquanta cosa produce? Fa riflettere i cinquanta o passare dall’altra parte anche chi non c’entrava che si sente vittima di un’ingiustizia?

TIM SMALL: Ma chi non vuole il calcio in tv? Gli ultras? Non è un po’ anacronistico pensare che il calcio debba essere “degli ultras”? E se il calcio diventa un prodotto di consumo di massa, come sta facendo ormai da decenni, non andrebbe regolamentato come tutta la cultura di massa? Mi sembra una tensione ridicola, perché, da una parte, porta a un calcio regionale, regionalista, piccolo, sfigato, basato sulle “differenze campanilistiche” o altre stupidaggini di quartiere e territorialismi (e quindi la Lega, evviva la figa, omofobia, ecc.) mentre dall’altra parte si parla di cercare di chiudere accordi per 900 miliardi di euro con sindacati televisivi online globali e quindi di avere i soldi per portare gli arabi in Italia e quindi comprare Neymar e Falcao, ecc. Cioè un po’ mi sembra che noi siamo qui a parlare della differenza tra insultare un veronese e insultare un napoletano mentre non capiamo che il discorso più grosso è che allo stadio, oggi, gli ultras la UEFA non li vuole proprio.

DANIELE MANUSIA: Il fatto è così sembra che il tratto distintivo della cultura della curva siano gli insulti, il che certo non migliora l'immagine degli ultras. Non credo il problema sia “educare” degli adulti maleducati, quanto piuttosto chiederci che tipo di spettacolo vogliamo vedere ogni domenica. Anche io non sono d'accordo sulla chiusura di settori ma non arrivo a difendere chi effettivamente è razzista, discrimina, insulta. Per me quella è gente che rovina l'atmosfera della partita e che va tenuta fuori dagli stadi. E se fossi uno spettatore pagante di curva probabilmente contesterei la sanzione, ma contesterei anche e soprattutto chi infrange la regola.

Ma vorrei farvi notare due cose. (1) I contenuti dei cori in questione sono extra-calcistici. Non si insulta una tifoseria, ma degli abitanti di una città/regione/quartiere/via/piazza. Escono di fatto dai limiti dello stadio e si basano su pregiudizi realmente esistenti e discriminazioni reali, anche se magari meno evidenti rispetto al passato (siamo sicuri? O forse il fatto che ci sia questo desiderio di offendersi vicendevolmente significa che sono ancora forti?).

(2) A mio avviso stiamo fraintendo il contesto. La questione è generalmente poggiata su: il calcio moderno ha rovinato l'atmosfera; ma secondo me dovrebbe esserlo su: in Italia si fatica ancora a passare il messaggio che i versi da scimmia allo stadio sono un atto razzista e che gli atti razzisti siano da reprimere anche allo stadio. Quando in Italia ci sarà uniformità di giudizio in tema razzismo allora forse, poi, magari, potremo prendere l'argomento alla leggera e tornare a farci gli sfottò, quando saremo consapevoli dei limiti da non passare e del rispetto di fondo necessario. Secondo voi si rischia di danneggiare il discorso principale del razzismo? Secondo me così si rischia di far rientrare dalla finestra il razzismo cacciato dalla porta. Quando difendete la libertà di insultare all’interno dello stadio vi siete chiesti chi state difendendo esattamente? Voglio dire, quelle stesse persone protestavano contro la chiusura delle curve anche quando si trattava di versi da scimmia, o no?

DAVIDE COPPO: Io non sono contro il calcio moderno né il calcio in tv. Non so, sinceramente, cosa voglia dire esattamente lo slogan di alcuni gruppi ultras “No al calcio moderno”. Dentro gli slogan ci sono troppe cose messe insieme: se il problema del calcio moderno è il prezzo dei biglietti, allora sono d’accordo: i biglietti sono troppo cari. Se c’è dentro qualcos’altro, tipo il fatto che gli stadi non devono essere dei poli di attrazione “per famiglie” (un altro bruttissimo slogan), allora non sono d’accordo: vorrei uno stadio con ristoranti, musei, occasioni per vivere quella zona o quell’ambiente o quella struttura al di fuori della partita, soprattutto lo vorrei sempre pieno.

Per tornare agli insulti, io potrei anche finire qui questa conversazione, forse. Ritengo stupida la definizione di “discriminazione territoriale” e difendo la libertà di chiunque di sfottere e insultare, se non sfocia nel razzismo o nell'omofobia. Sono una persona nervosa che insulta spesso. In bicicletta, al telefono, al computer, allo stadio. Forse potrei anche spingermi a dire che c'è distinzione tra insulto e sfottò e che quelli che le curve si rivolgono vicendevolmente sono sfottò, perché sono frasi che non possono essere portate fuori contesto perché esistono solo e soltanto in quel contesto. Credo di poter spiegare più o meno come funzionano i rapporti di forze tra curve, eccezion fatta per casi particolari (Athletic-Madrid, ad esempio): si sostiene la propria squadra con delle canzoni e delle coreografie a favore, si cerca di avere una sorta di supremazia dialettica sulla curva avversaria con cori e coreografie o sfottò. Perché? Non lo so, ma non credo sia giusto togliere delle libertà per questo. Terminati i 90 minuti di partita, termina anche questa disputa dialettica, anche se non c'è un giudice che sancisce un vincitore. Il fatto che si insultino “i napoletani” (ad esempio) e non la tifoseria avversaria è un sofisma. Il fatto che certi cori siano “concepiti per uscire dallo stadio” è falso. In più non ritengo che le discriminazioni reali nascano da questi sfottò. Potrei fare un esempio per assurdo: se le due curve avversarie in una partita X volessero insultarsi in tutta segretezza, senza far sentire questo coro insultante ai settori distinti, grazie a un sistema di stadio simile che ora visualizzo nella mia testa come una sorta di panopticon stranamente alterato, non ci penserebbero due volte a farlo. La libertà di insultare una tifoseria avversaria con il razzismo non c’entra niente di niente, e io proprio non riesco a capire come si possa pensare il contrario, non riesco e per questo il mio ruolo in questa conversazione credo sarà eccezionalmente marginale.

FULVIO PAGLIALUNGA: Infatti, sto dalla parte di Davide. Qui non stiamo parlando dei versi da scimmia, né del razzismo nel senso reale della parola (anche quello territoriale) che non può essere consentito, ma di un concetto di tifo che è antico. Non credo, tornando ai romanisti e laziali, che si insultino allo stadio rivendicando una loro superiorità. È chiaro il senso del limite, almeno per me. Infatti sto parlando della nuova norma, e delle sue esasperazioni, che rendono tutto una caricatura delle buone intenzioni. Il calcio, e rispondo a Tim, non è “degli ultras”, ma non riesco a immaginarlo nemmeno senza. E non lo voglio senza tv, ma nemmeno “solo” per la tv. Penso solo che certi metodi manifestano incapacità, e tolgano appeal al pallone. Non è “calcio moderno”, anche perché la modernizzazione è logica e anche cinquant'anni fa rimpiangevano il calcio di un tempo (ci sono mai stati i tempi belli?), sono banalmente pessime decisioni, che creano caos mediatico e non risolvono niente. Io la smetterei di guardare lo stadio come esperimento sociale, come il coacervo di tutto il malcostume che, quindi, risolto in uno stadio è risolto ovunque. Insultare non è elegante, ma è tifo. Dunque nulla di razionale. Poi ci sono modi possibili e modi che non lo sono. Ad esempio, quando scrissero agli juventini che erano «brutti come la Multipla» era discriminazione automobilistica? E Giulietta che dovrebbe dire?

DANIELE MANUSIA: Senza rispondere direttamente alle contro-argomentazioni di Davide, trovo interessante che sia così categorico nel difendere una cosa come l'insulto allo stadio. Quello stesso tipo di rigidità in realtà si potrebbe applicare a concetti tipo il rispetto reciproco, dire: “No, non mi interessa da quanto duri questa tradizione, se insulta un gruppo di individui o ancora peggio se li discrimina in quanto gruppo sociale va combattuta”. Ma si preferisce parlare della libertà di insultare anziché della libertà di non essere insultati. Dietro secondo me c'è un'idea di calcio come questione di pancia (Fulvio parla di irrazionalità) che per me svilisce il gioco più bello.

Su twitter al sotto-argomento "vero razzismo VS discriminazione territoriale" ha partecipato anche @herr_ludwig: «il disprezzo per i napoletani fu alla base delle "spedizioni" punitive delle truppe del generale Cialdini dopo il 1861»; e lo stesso Davide su Facebook mi ha scritto che i cori sul colera si riferiscono «a un'epidemia di colera che ci fu a Napoli negli anni ’70», aggiungendo a mio avviso erroneamente: «per questo lo vedo come uno sfottò». @herr_ludwig cita un episodio di discriminazione abbastanza antico ma il punto è che anche se questi cori noncreano la discriminazione oggi, si basano su una discriminazione realmente esistita. Anche ammettendo che usciti dallo stadio quegli stessi tifosi diventino tolleranti, non capisco perhé invece di vergognarci di questo passato, lo chiamiamo “campanilismo” e ne andiamo orgogliosi come tradizione. Ripeto, magari un giorno ci torneremo su con leggerezza, ma oggi non fa ridere.

(E mi chiedo se paragonare il colera degli anni '70 a una tragedia qualsiasi non legata al territorio (tipo la strage di Monaco per il Manchester United per capirci) secondo me non migliora le cose, è orribile comunque. Magari non sarà una discriminazione ma non credo che difenderei la libertà di un coro che comunque qualcuno (i parenti delle vittime) possano vivere come una violenza.)

Il dibattito non è nato per gli esempi della Multipla o di Giulietta (che comunque, dato che si offendono degli uomini per come una loro donna immaginaria usa la propria sessualità è un insulto sessista, così come quello sulla madre citato candidamente da Davide). Alla base ci sono le norme UEFA contro razzismo e discriminazione. In Inghilterra si discute per capire dove sono i limiti della discriminazione (due paesi distanti pochi chilometri posso costituire un caso di discriminazione?) non se gli insulti in sé vadano difesi come parte integrante della cultura dello stadio. Il fatto che allo stadio (COME PER STRADA) vadano rispettate le altre persone indipendentemente dal colore della pelle/accento/malattie ereditarie, è tacito. Qui no.

TIM SMALL: Allora, qui voglio chiarire un attimo la mia posizione. Ecco come la vedo io: (1) È sbagliato che lo Stato chiuda una curva intera perché alcune teste di rapa trovano divertente dire che i napoletani puzzano in un paese come l’Italia nel 2013, paese nel quale esiste un partito che si chiama Lega Nord e paese nel quale i meridionali sono spesso discriminati per ragioni assurde e non scordiamoci i cartelli con scritto «non si affitta a meridionali» a Torino fino a qualche decennio fa e lo strisciante, velato razzismo anti-meridionali che esiste tutt’ora in nord Italia - non facciamo finta che questo non esista o che non sia un problema. Insultare i napoletani in Italia è una cosa triste, infelice, ignorante, brutta, schifosa, proprio perché si rifà a una storia di vera discriminazione e voler difendere chi lo fa PER QUALSIASI RAGIONE è patetico e infantile. È diverso insultare un “veronese di merda”: in Italia non c’è mai stato rifiuto o scherno o discriminazione strutturale contro i veronesi. Mentre ai napoletani, alle donne, ai meridionali in generale, agli omosessuali, ai trans, ai non-bianchi, questo succede tutti i giorni, oggi, in Italia. È un problema vero. Non esistiamo in un paese post-razziale e post-questione meridionale e post-sessimo dove possiamo tutti dire il cazzo che ci pare sempre perché tanto tutti sappiamo che è tutto per scherzo. Viviamo in un paese dove questi problemi esistono e la nostra responsabilità è fare in modo che questo non accada più.

Detto questo: io voglio andare allo stadio e andare in curva, se mi va, e cantare i cori per Balotelli e non cantare i cori sul fatto che i napoletani puzzano, perché mi fanno schifo sia i cori che le persone che li cantano, voglio torcere il naso e rimanerci male quando sento un idiota dietro di me dire che i calciatori neri “mangiano banane” o altre cose così disgustose che non ho voglia di scriverle qui, e non voglio cantare cori in cui si dà della “puttana” alla mamma di qualsiasi persona in campo. Io voglio poter andare in curva e non dover sentire queste cose perché queste cose mi fanno schifo e non voglio sentirle allo stadio come non voglio sentirle alle Poste o per strada o al bar o ovunque. Ma voglio andare in curva lo stesso. E per questo, non è corretto chiuderle. Sarebbe corretto individuare alcune persone responsabili e bandirle dallo stadio per anni, come fanno in Inghilterra. Però - e questo è il grande però - se dieci persone alle Poste sotto casa mia alle quali vado tutti i giorni per mandare in giro per il mondo copie dei libricini fighetti che pubblico con la mia casa editrice fighetta si mettono a cantare cori contro gli afro-italiani e per questo mi chiudono le Poste e io per questa ragione non posso andarci, beh, io mi incazzo.

Probabilmente però m’incazzerei di più con i dieci salami (quelli che “poverini, si devono sfogare, è una tradizione per loro, lo fanno ogni domenica”) che cantano quelle cavolate piuttosto che con le Poste Italiane o con la legge che ha chiuso le mie Poste.

Poi (2) la nostra responsabilità, secondo me, è di cercare di rendere più vivibile e civile il paese nel quale viviamo. Le responsabilità della FIGC, della UEFA e della Lega Serie A è di occuparsi di calcio, di stadi, di tifo, di diritti televisivi e contratti. Non ha senso dire “il razzismo vero è nelle strade e non nello stadio” perché qui non stiamo parlando di leggi che riguardano le strade ma di leggi che riguardano lo stadio. Quindi, allo stadio, (come per strada, tra l’altro) io non posso mettermi a cantare cori razzisti. Anzi: non posso farlo soprattutto allo stadio, perché ai poteri che contano non gliene frega niente dell’eventualità di vendere una strada per 900 milioni di euro a un magnate russo, ma magari lo stadio lo vendono sì, invece, e ci guadagniamo tutti. Le regole del gioco sono cambiate: nel nuovo calcio o finisci come il calcio polacco, bello, tradizionale, va che bei fumogeni, guarda com’è pieno di ultras, che bello, che cori, hanno solo giocatori polacchi, ma che carini, e guarda ora quegli ultras stanno per dare fuoco a un cimitero ebraico! Haha! O finisci come il calcio inglese che ha eliminato gli ultras e ha miliardi di euro.

Infine (3) a quelli che dicono “io per strada posso insultare i napoletani” vorrei presentare il mio amico Ivan Maria che l’ultima volta che ha sentito uno dire la parola “terrone” in maniera offensiva l’ha preso a sputi e calci in mezzo a una festa e poi gli abbiamo fatto un applauso.

FULVIO PAGLIALUNGA: Punto essenziale: parlarne è utile, sempre. Parlarne per evitare che la discriminazione sia una prassi, essendo invece da estirpare. Ma entra negli stadi quello che esiste fuori, non il contrario. E questo mi pare fondamentale per poter dire che affrontando tutto come se fosse SOLO nelle curve rende lo stadio l’esperimento sociale che Daniele nega (un po’ come la campagna degli anni passati “Leggi speciali, oggi per gli ultras domani per tutta la città”, che a un certo punto si stava materializzando con le proposte di Daspo per le manifestazioni di piazza). Mi pare poi paradossale immaginare che un coro (stupido, io non difenderei mai chi parla di tragedie) parta da un simposio nel quale, analizzando la storia, si scopre che negli anni ’70… Parliamo di educazione culturale? Allora va fatta fuori, prima di tutto. Parliamo di inciviltà? Mi ritengo civilissimo, sono terronissimo e posso dire di ritenerlo un vanto. Ma la sensazione è che ci stiamo allontanando dal calcio, che era il punto di partenza. Sul resto non possiamo non essere d’accordo. Compreso uno dei concetti espressi da Tim, che però ribalto: le istituzioni del calcio devono occuparsi dello stadio e il loro concetto di stadio è quello di gente seduta, che applaude o fischia, che non rompe i coglioni e non porti striscioni, coreografie, tamburi, fumogeni. Ogni cosa sta arrivando al suo tempo e non è invece il calcio che io sostengo: le curve chiuse mi fanno rabbia, oltre a dimostrare incapacità. Io non voglio uno stadio in cui si cantano cori razzisti, ma non lo vogliono nemmeno i napoletani che pure hanno fatto dell’autoironia l’arma che ha distrutto tutte le teorie di chi si è messo in testa di “educare” gli spalti. Perché gli ultras polacchi che stanno per dare fuoco a un cimitero ebraico, lo farebbero anche con lo stadio chiuso, quindi la cosa non risolve il problema culturale. Il razzismo va combattuto come concetto culturale e il calcio può dare segnali forti in altri modi (penso alla meravigliosa esperienza dell’Afro-Napoli), ma non attraverso la repressione che, da quando esiste, ha solo reso lo stadio un posto più invivibile di quanto lo fosse senza. Penso (mi perdonerete l’OT) a quando ho riportato mio padre a una partita e ha scoperto che servivano documenti, bisognava attraversare prefiltraggio, filtraggio, tornelli, seguire un percorso complicato e infine potersi sedere: stava per andare via, poi è entrato ma non ci è tornato più. Non si è eliminata la violenza, si è arrivato all’autoeliminazione di mio padre. Poi c’è un sistema che esula dal calcio e va smontato: quello che costringe un calciatore di Lega Pro a chiedere scusa ai tifosi con un messaggio manco fosse un prigioniero di al-Qaida per aver salutato i sui “ex” tifosi. Adesso mi sto allontanando io, di questo magari ne possiamo parlare. Intanto, curve aperte, tifo e tifo “contro”. E non canterò mai un coro discriminatorio, io. Non perché chiuderebbero la mia curva. Perché è una cazzata cantarlo.

DAVIDE COPPO: Nel frattempo la discussione sulla pagina Facebook di Daniele Manusia (celebre attention-whore) è andata avanti e mi sembra di essere arrivato a un punto: ho fatto presente che in Inghilterra non esiste il concetto di “discriminazione territoriale” (non esiste nemmeno in Germania né in Francia; e Platini ha detto che non è competenza della UEFA ma della Lega Calcio di questo paese, perché «è un problema sollevato soltanto dall’Italia») e che i tifosi del Manchester United “sfottono” i tifosi del Liverpool dicendo che mangiano topi in case popolari ma non vengono presi provvedimenti dalla FA a riguardo. Daniele mi ha risposto che la questione in Inghilterra è diversa, lì si ha una consapevolezza culturale del razzismo e della discriminazione estremamente più progredita che in questo paese. Ecco io sono molto d’accordo su questo, sul fatto che in Italia la nostra consapevolezza del razzismo e della discriminazione sia certamente meno sviluppata che da altre parti. Ma questo non può tradursi nel chiudere un settore dello stadio. Ci sono persone – ma è chiaro che le leggi non possono tenere conto del caso particolare – che questa consapevolezza post-razzista o post-discriminatoria l’hanno realizzata anche in Italia, e la direzione in cui è auspicabile procedere trovo sia quella di estendere questa consapevolezza a tutti, piuttosto che impedire a un settore di entrare in uno stadio. La repressione non ha mai portato a niente di buono, o niente che io giudico come buono.

In secondo luogo, il calcio inglese non ha eliminato gli ultras, o meglio: non ha eliminato le persone che cantano canzoni allo stadio, siano di supporto alla propria squadra o di sfottò a quella avversaria. Ha eliminato (o tenuto fuori dagli stadi, che è diverso) una certa violenza a tutti i costi che negli anni Ottanta era diventata, per certi, sinonimo di calcio. Questa è una cosa auspicabile non solo in Italia ma in tutta Europa o in tutto il mondo (la brutta storia del nuovo-ex-allenatore del Levski Sofia è effettivamente molto brutta, e lo è anche quella di Evacuo), e per me è ancora più auspicabile l’eliminazione di un certo giro di criminalità organizzata che ha messo radici in alcune curve italiane da, credo, vent’anni a questa parte. In Inghilterra esistono ancora i settori in cui si “canta” o da cui “partono le canzoni”, e questi settori sono ciò che generalmente chiamiamo “curve”. È bello che esistano ed è ancora più bello che esistano ancora, senza una componente implicita di violenza, razzismo, e con la completa libertà (ma non l’obbligo, solo con la libertà, che è quello che Tosel vuole eliminare) di sfottere i propri vicini di casa e rivali calcistici con questa grande meravigliosa consapevolezza post-razzista e “ironica” che prima o poi, grazie a Mario Balotelli, Stephan El Shaarawy e forse, chissà, Lorenzo Insigne, attecchirà anche qui del tutto. Abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene.

DANIELE MANUSIA: Ok infatti siamo arrivati alla radice del problema. Che poi sono due. La sostanziale ingiustizia del punire anche chi non ha fatto niente e paga il biglietto e vuole sostenere la propria squadra; e il fatto che in Italia non ci sia la stessa uniformità di giudizio sul problema di base del razzismo e della discriminazione che invece c'è in Inghilterra o Germania ad esempio (fermo restando che non esistono società post-questione razziale). Questo però è anche il motivo per cui siamo gli unici ad affrontare la questione della discriminazione territoriale (in Francia in realtà c'è un problema simile per i pregiudizi contro gli “ch'tis”, tipo gli abitanti di Lille; e la polemica della curva del Napoli ricorda il dibattito inglese sulla “Y-word” con cui vengono chiamati gli ebrei e che la federazione inglese ha vietato in quanto offensiva anche ai tifosi del Tottenham, che di solito sono vittima di quei canti e che però la usano in modo orgoglioso, ma un orgoglio che ha poco senso dato che di ebrei effettivi nella loro curva ce n'è tipo il 5%).

L'articolo 14 del regolamento disciplinare della Uefa si occupa di «razzismo, condotta discriminatoria e propaganda» e si riferisce a chi «insulta la dignità umana, di una persona o un gruppo di persone in qualsiasi modo, incluso colore della pelle, razza, religione o origine etnica». Se l'Italia lo sta usando in senso ampio (dignità umana e condotta discriminatoria di fondo) è perché da noi non c'è la stessa coesione territoriale, se volete perché siamo uniti da soli 150 anni (a me non sembrano pochi ma non saprei) o perché non abbiamo avuto mai una storia di immigrazione e integrazione. Non si risolvono i problemi della società italiana a partire dallo stadio ma forse da qui possiamo cominciare a definire chi siamo e dove stiamo andando. Ad ogni modo secondo me prima di poter ironizzare sul nostro passato dobbiamo superarlo.

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