Qualche anno fa, quando Novak Djokovic aveva vinto solo il primo dei suoi dodici Slam, gli chiesero su quale superficie si trovasse meglio. «Il cemento è sempre stata la mia superficie preferita. Ma ho giocato molto bene anche sulla terra battuta quest’anno». E l'erba? «Beh, non penso che l'erba sia la superficie che si adatta meglio al mio gioco. Allo stesso tempo, penso di avere un gioco a tutto campo che mi permette di giocare bene su tutte le superfici».
Ma fino a ieri Djokovic aveva vinto tre volte a Wimbledon e mai al Roland Garros, torneo nel quale era arrivato per quattro volte in finale nelle ultime sei edizioni, ossia da quando è diventato il tennista più forte del circuito. Dal 2011 ad oggi Djokovic ha trovato sempre un avversario in stato di grazia a sbarrargli la strada verso la Coppa dei Moschettieri. Federer nel 2011 e Wawrinka nel 2015 giocarono la migliore partita della loro carriera sulla terra battuta, mentre dal 2012 al 2014 ci ha pensato il più grande terraiolo di sempre, Nadal, ad impedire che Novak diventasse l’ottavo tennista della storia capace di vincere almeno una volta tutti e quattro gli Slam (gli altri sette sono Fred Perry, Don Budge, Rod Laver, Roy Emerson, Andre Agassi, Roger Federer e Rafael Nadal). Questa volta il miracolo non si è ripetuto e anzi è stato quasi sorprendente come Murray non sia riuscito ad approfittare dell’ossessione di Djokovic per questo torneo.
La finale del 2015. Su l'Ultimo Uomo il gioco di Wawrinka era stato definito“Tennis al quadrato”.
Visto che negli ultimi sette anni ci sono riusciti ben tre tennisti, il Career Grand Slam potrebbe sembrare una cosa facile. Ad aiutare è stato il cambiamento delle condizioni complessive: il tennis infatti si è uniformato tanto nelle condizioni di gioco - cioè nelle superfici, che si somigliano molto di più rispetto a vent’anni fa - quanto negli stili di gioco. Come disse Djokovic, il suo tennis gli permette di essere vincente dappertutto. Anche a Wimbledon, sebbene sia uno dei peggiori numeri 1 della storia per quanto riguarda il gioco a rete. Nonostante le volée giocate spesso in posizione sbagliata, nonostante le incertezze nel colpire lo smash, nonostante un rovescio in back poco efficace, Djokovic ha già vinto per tre volte a Londra: tante quanto il suo coach Boris Becker e una volta in più di Stefan Edberg, maestro della rete.
La frequenza con cui gli stessi tennisti negli ultimi anni hanno frantumato i record precedenti, spartendosi di fatto tutti i principali tornei, lascerebbe pensare che, in qualche modo, dominare è diventato più semplice. In realtà sono proprio le difficoltà di Djokovic, che in carriera ha vinto 8 Masters 1000 sulla terra, a suggerire come questa impresa anche in futuro non sarà alla portata di tutti. Ad Andy Murray, per esempio, mancano ancora due Slam: uno è proprio il Roland Garros - quella di ieri era la sua prima finale -, l’altro è l’Australian Open, dove ne ha perse ben cinque, di finali.
Così uguali, così diversi
Djokovic e Murray sono cresciuti insieme. Entrambi ci tengono a sottolineare come si sono affrontati talmente tante volte, dall’era juniores ad oggi, da non avere nessun segreto l’uno per l’altro. Una sensazione di conoscenza reciproca accentuata dalla loro somiglianza: l’interpretazione ultra-moderna e ultra-completa del loro tennis ha fatto sì che venissero considerati gemelli. Uno però gioca meglio dell’altro, visto che negli head-to-head Djokovic è avanti ormai 24-10, un bilancio che ricorda quello tra Nadal e Federer. Ma se il dominio dello spagnolo sullo svizzero è anche spiegabile da una dinamica tecnico-tattica, quello tra Djokovic e Murray sembra avere più a che fare con una dimensione mentale.
Djokovic ha una dedizione al tennis che sfiora l’ossessività, come è stato per Federer e Nadal. Murray ha sempre dato l’impressione di non mettere il tennis - o meglio, i risultati - al primo posto. Lo scozzese è diventato padre da pochi mesi e si diceva che la paternità avrebbe potuto dargli qualche motivazione aggiuntiva, come successo a Federer nel 2009 e a Djokovic due anni fa. Invece per Murray la paternità ha avuto un effetto quasi opposto: «A cosa mi servirebbe vincere tanti tornei se poi mia figlia finisse col dire agli amici: “Sì, ha vinto tanto, ma non c’era mai”?»
Murray ha perso l’ottava delle sue dieci finali Slam, un bilancio ingiusto per un tennista del suo talento. Djokovic però ha probabilmente giocato il miglior tennis del torneo nel momento in cui ne aveva più bisogno, mentre lo scozzese è sembrato altalenante fin dal primo giorno. Prima la rimonta con Stepanek e i cinque set con Bourgue, poi due turni facili con Karlovic e Isner, di nuovo qualche difficoltà con Gasquet e infine una comoda vittoria contro Wawrinka in semifinale. Djokovic, pur senza brillare, ha concesso davvero poco ai suoi rivali ed è arrivato in finale nelle migliori condizioni possibili.
La partita
Nel primo set, però, il serbo ha giocato malissimo. Djokovic sembrava di nuovo precipitato nella condizione di ogni anno: incapace di gestire la pressione di giocare da favorito e di dover vincere. Dopo aver perso un brutto primo set è scattato qualcosa nella testa di Djokovic, che dall’inizio del secondo set ha vinto diciassette game su ventidue. Ha inflitto un 6-1 6-2 5-2 a Murray che era un punteggio figlio della paura di perdere quella partita. Una paura più grande della voglia di Murray di vincerla. E anche nel momento in cui Djokovic ha servito per il match sul 5 a 2 del quarto set, quando ha staccato la spina per qualche minuto, a Djokovic è bastato sedersi, ritrovare la calma e tornare sé stesso. È tornato in campo, ha sofferto, ha commesso un doppio fallo sul match point, ha tirato fuori un rovescio in lungolinea, ha giocato un paio di smash con le gambe tremanti ma poi ha vinto l’ultimo scambio dal fondo. Di resistenza. E si è sdraiato finalmente sulla amata terra parigina.
Compatimento.
Il canovaccio tattico, com’era prevedibile, non si è discostato molto da quello dei trentatré incontri precedenti. Murray ha cominciato molto aggressivo e ha costretto Djokovic sulla difensiva. Non appena le cose hanno cominciato ad andare storte, però, lo scozzese si è sgretolato mentalmente, finendo per lasciare troppo spazio al suo avversario, che ha progressivamente preso fiducia, fino a trasformarsi in quella macchina da tennis invincibile ammirata nell’ultima stagione e in quella in corso. L’impressione è che Djokovic e Murray non riescano proprio a giocare bene contemporaneamente: quando sale uno, per osmosi scende l’altro. È successo nel primo set, quando Murray ha giocato centrato ed aggressivo e Djokovic ha commesso dodici errori non forzati. Ed è successo a parti invertite dal secondo set in poi: Murray ha avuto una palla break all’inizio del parziale e quando Djokovic è riuscito ad annullarla e a tenere il servizio, i rapporti di forza si sono capovolti.
Il dominio di Djokovic si vede tutto nel punto giocato sul 15-15 dell’ultimo game. Il serbo ha perso il servizio nel turno precedente e serve di nuovo per vincere la partita. È uno dei momenti più importanti della sua carriera e si vede. Ma certi rovesci, Djokovic, li sa giocare anche ad occhi chiusi. Quello che gli permette di vincere questo scambio e di scongiurare un eventuale break di Murray, è di quelli deluxe.
Murray inizia lo scambio attaccando una seconda in kick di Djokovic, poi comincia un lungo palleggio sulla diagonale di rovescio. È lui a rompere gli indugi, trovando un rovescio sulla riga. A quel punto Djokovic deve utilizzare tutta la sua elasticità per trovare un angolo che metta in difficoltà lo scozzese. E come spesso accade, ci riesce. Per farlo, però, deve perdere campo e Murray, allora, gli gioca una smorzata, magari non perfetta ma comunque insidiosa. È allora che Djokovic tira fuori un tocco di una delicatezza rara che sorprende Murray, forse un po’ ingenuo nel rimanere a fondo campo invece di seguire a rete il suo drop. O forse era semplicemente troppo stanco. Quel che conta è fare la differenza quando il punto pesa di più e questo è uno di quei punti.
Di punti come questi, Djokovic, ne ha giocati un’infinità, riuscendo ad attingere a gesti che non dovrebbero nemmeno appartenere al proprio repertorio, e che conserva nascosti per i momenti più importanti.
Sono colpi per certi versi più nelle corde di Murray: un tennista completo, con soluzioni tecnicamente persino più varie del suo avversario, col corpo di un’atleta perfetto. Quello che gli manca e che sta facendo la differenza nei confronti di Djokovic è la capacità di restare mentalmente aggrappato al match: è per questo che il serbo è il numero 1 e Murray il numero 2.
Rigenerarsi di continuo
C’è una ragione chiara che consente a Novak Djokovic di presentarsi ad ogni torneo mentalmente determinato a vincere, per poi concedersi qualche giorno di pausa a fine torneo e tornare di nuovo in campo sempre con la stessa fame di vittoria. Per molti altri vincitori di Slam non è così.
Del successo di Parigi nel 1976 Adriano Panatta racconta che, all’indomani della vittoria, si sentì svuotato psicologicamente. «Già la sera della vittoria, alla cena di gala, ero molto triste. Provavo un senso di vuoto, quasi una depressione che mi è durata tre settimane di seguito». Anche Stan Wawrinka, vincitore dell’Australian Open 2014 e del Roland Garros 2015, ha fatto seguire a queste due vittorie delle lunghe pause mentali, prima di tornare in campo nuovamente con la voglia di lottare per le vittorie.
Si tratta di periodi di vuoto, di una sorta di “depressione post-victoria” che capita solo a giocatori che non sono vincitori seriali di Slam, i Wawrinka, i Cilic, i Panatta.
Giocatori che spingono i propri limiti, tecnici e mentali, su territori che non sono esattamente i loro, per raggiungere traguardi che non consideravano alla loro portata. Seguono quindi tutti i retro pensieri che vittorie del genere si portano dietro.
Riflessioni su ciò che poteva essere e che non è stato, vittorie che sarebbero state possibili molti anni prima solo se ci avessero creduto, e che invece poi sono arrivate quasi per caso.
Queste pause Djokovic non le conosce. Nonostante domini il circuito ormai da due anni, mostrando un’onnipotenza raramente vista sui campi, riesce continuamente a rigenerare le proprie motivazioni. A questo punto probabilmente, con anche il Roland Garros in bacheca, il suo obiettivo è diventato più somigliante al suo senso del dominio tennistico: raggiungere e superare i 17 slam di Roger Federer, diventare il migliore di sempre. O se non altro il più vincente.
Djokovic non diventerà mai più popolare di Rafael Nadal o Roger Federer. Ma con lo svizzero che non vince uno Slam da Wimbledon 2012 e con lo spagnolo fermo ai box, chi può negargli almeno cinque tornei maggiori nei prossimi anni? Ecco come fa Novak Djokovic a rigenerarsi dopo ogni vittoria, a farsi trovare pronto ad ogni torneo dello Slam e a perderlo solo se trova qualcuno veramente migliore di lui quel giorno, non qualcuno più motivato di lui.
Era dal 1992, quando l’americano Jim Courier vinse sia gli Australian Open che il Roland Garros, che un tennista non arrivava a Wimbledon ancora in corsa per il Grande Slam. Per arrivare ai 17 di Federer, Novak Djokovic non solo ha a disposizione almeno altri due o tre anni di altissimo livello, ma anche un'assoluta mancanza di rivali all’orizzonte. I più forti sono sul viale del tramonto mentre i più giovani non sono ancora pronti. Per superare tutti e subito, ed essere ricordato come il tennista moderno più forte di sempre, bastano solo altri due tornei. Basta scegliere quelli giusti.