Quando si fa riferimento alla Draft of a Generation le date che vengono in mente, per chi segue la NBA da inizio anni ’90 come il sottoscritto, non possono che essere tre.
19 giugno 1984. L’avvocato David Joel Stern fa la sua primissima apparizione come Commissioner NBA, e non è il solo elemento di spicco a fare l’esordio in quella serata, perché i nomi pronunciati da lui saranno protagonisti per i successivi vent’anni: Hakeem Olajuwon, Charles Barkley, John Stockton e soprattutto Michael Jeffrey Jordan, il più forte umano (se così possiamo definirlo) ad aver giocato a pallacanestro. I nomi sopracitati nella loro carriera collezioneranno complessivamente 8 titoli NBA, 12 apparizioni alle Finals, 7 trofei di MVP e 47 apparizioni all’All-Star Game.
26 giugno 1996. A 12 anni di distanza ecco un’altra collezione di talenti 5 stelle: Allen Iverson, Stephon Marbury, Ray Allen, Steve Nash, Jermaine O’Neal e un diciottenne Kobe Bryant, scelto alla numero 13 dagli allora Charlotte Hornets, che poi lo scambieranno con i Lakers per Vlade Divac. Precisamente sette anni dopo, il 26 giugno del 2003, ecco il Draft di LeBron James, il quale sbarca nella Lega accompagnato da Carmelo Anthony, i suoi due compagni di squadra agli Heat, Dwyane Wade e Chris Bosh, e David West, che dei Big Three è l’avversario più ostico a Est quest’anno con i suoi Pacers.
Tre Draft, tre decenni differenti, tre generazioni di giocatori che saranno la spina dorsale della NBA degli anni successivi. E ora con il prossimo siamo pronti ad accogliere una classe che dovrebbe portare altrettanti talenti, in quello che viene considerato uno dei migliori di sempre per quantità, qualità e, se vogliamo, anche attesa. Sono i ricorsi storici ad ingolosire ancora di più: come nel 1984 abbiamo l’esordio ufficiale di un nuovo Commissioner, Adam Silver (esordio nella carica ma non nel Draft, dato che era lui ad annunciare le scelte del secondo giro negli anni passati), e soprattutto abbiamo il ritorno degli Charlotte Hornets, che come detto in precedenza ebbero un ruolo fondamentale in quello del 1996. Insomma, le aspettative ci sono, sono forti e nessuno si nasconde dietro ad un dito: l’attesa per gli Andrew Wiggins e i Jabari Parker, i Julius Randle e i Marcus Smart, i Dante Exum e gli Aaron Gordon si è iniziata a percepire sin dal Draft appena passato, trattato come una specie di formalità da tutti gli addetti ai lavori del campo e anche da qualche franchigia. Basti pensare ai Philadelphia 76ers, che proprio in quella serata hanno ceduto un giocatore che sembrava potesse essere la pietra angolare del loro futuro (l’All-Star Jrue Holiday) in cambio di una prima scelta del Draft 2014 e di Nerlens Noel, rookie da Kentucky sicuramente di belle speranze ma grezzo, tutto da costruire e vittima di un infortunio che gli ha fatto saltare la seconda parte della stagione collegiale 2012-2013 e che probabilmente non toccherà il campo fino al prossimo campionato.
Una mossa del genere può essere valutata deleteria su più fronti, ma non su quella che si basa sul tanking, ovvero quella di perdere il maggior numero di partite possibili per arrivare alla Lottery di maggio ed avere più palline nell’urna che deciderà l’ordine di scelta del prossimo Draft, disciplina avviata da molte squadre sin dall’inizio della stagione ma che a febbraio vedrà un incremento notevole, a giudicare dall’andamento dell’anno. Non ci sarà da stupirsi quindi se una squadra che entrerà nei playoff con l’ultimo posto disponibile verrà biasimata e non celebrata dai propri tifosi, rei di essersi giocati anche la minima percentuale di vedere la propria squadra scegliere i migliori giocatori usciti dal college degli ultimi dieci anni.
Quello che ci troveremo a giugno sarà uno dei Draft più profondi di sempre, probabilmente il più profondo, con 6/7 giocatori destinati a essere All-Star nel giro di cinque anni ed altrettanti che hanno la possibilità di diventarlo se sviluppati nel giusto modo. Il tanking quindi è più che giustificato, soprattutto se devi fare la corsa per arrivare ai due pezzi pregiati. E se vedete uno di questi hashtag nei tweet dei tifosi di una certa squadra dopo una sconfitta, saprete di cosa stiamo parlando.
#TankForParker
Thomas S. Monson è il presidente della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (più comunemente chiamata Chiesa Mormona) ed è un fervido sostenitore della missione che porta i ragazzi mormoni di diciannove anni a passare due anni lontani da casa, esortandoli a interrompere anche le proprie carriere universitarie. Ma cosa succede se il mormone in questione è il più forte di sempre con una palla da basket in mano? E cosa succede se il momento della missione coincide con la scelta di approdare o meno in NBA? In realtà credo che la Chiesa in questo caso chiuderà un occhio, come successe per Danny Ainge in passato, ma per Jabari Parker questa scelta non verrà presa a cuor leggero: «Voglio andare in missione, ma la NBA è il sogno di ogni ragazzo che gioca a basket». E la NBA lo aspetta a braccia aperte, non solamente le squadre che puntano a sceglierlo al Draft ma probabilmente la Lega stessa, che vede in lui un ragazzo pulito, credente e intelligente, perfetto per farne una “faccia” della NBA per gli anni a venire.
«Basketball is what I do, not what I am.»Quando arriva alla Simeon High School, famosa per essere il liceo da cui provengono Derrick Rose e lo sfortunato Benji Wilson, mamma Lola è chiara con coach Smith: Jabari è uno student-athlete, quindi prima uno studente e poi un atleta. Ma mettere in secondo piano tutto quel talento è dura, durissima, tanto che Smith viene meno a una delle sue regole principali, ovvero quella di impedire ad un freshman (ragazzo al primo anno di liceo) di entrare nella varsity team, la prima squadra della scuola. Jabari è semplicemente troppo forte.
La sua forza passa tutta dalla testa: è un realizzatore, uno che sa segnare tanti punti mostrando una versatilità incredibile, uno che sa come scegliere il modo per far male alla difesa azione dopo azione. Legge, guarda, sceglie il da farsi con una velocità e un’efficienza pazzesca e lo fa senza dimenticare gli altri aspetti del gioco, come il coinvolgimento dei compagni, la difesa e l’impegno a rimbalzo. A vederlo giocare ricorda il primo Paul Pierce, anche a livello mentale.
Ecco, appunto, la versatilità…
Alla fine della stagione Simeon vince il campionato statale e per lui ci sono già nove offerte di borse di studio da alcune delle migliori università del Paese. E tutto questo al primo anno, quando nel tempo libero rimane a vedere le partite della varsity team facendo da waterboy ai suoi coetanei, il “portaborracce”.
Simeon vince il titolo anche l’anno successivo, ma Parker non può rimanere a festeggiare fino a notte fonda con coach e compagni perché il mattino seguente ci sarebbe stato un altro momento importante: la nomina a sacerdote della Chiesa Mormona, come succede a tutti i ragazzi mormoni al compimento del sedicesimo anno di età.
Ottimi genitori, grandi valori, funzionario religioso, studente modello (3,7 di GPA su un massimo di 4), talento debordante. Sembra il quadro perfetto. Anzi, è il quadro perfetto. E se ne accorge Sports Illustrated, che non ci pensa due volte a metterlo in copertina dopo il terzo titolo statale, definendolo «The best High School player since LeBron James». Titolo importante e pesante, ma che spiega perfettamente quello che è Jabari Parker al suo terzo anno: un giocatore su cui le squadre NBA in ricostruzione devono preparare una strategia per accaparrarselo. Con due anni di anticipo.
23 punti, 10 rimbalzi e 5 assist per Jabari Parker. Carmelo 2.0?
Dopo la copertina deve vedersela però con due imprevisti: il primo riguarda un infortunio al piede che lo tiene fuori per l’inizio del suo ultimo anno al liceo; la seconda riguarda l’incredibile ascesa di un canadese che sta talmente impressionando che, nel momento in cui viene riclassificato da junior a senior, scalza Jabari dalla numero 1 dei ranking sui migliori giocatori del Paese. Uno, quindi, capace di superare «il miglior giocatore di High School dai tempi di LeBron James».
Parker non ne fa un dramma, e non ne fa un dramma neppure Mike Krzyzewski che punta forte su di lui per averlo a Duke, un ateneo con grande tradizione cestistica, un’ottima preparazione accademica e una figura che può guidarlo in attesa del passo più importante della sua carriera. Superata la concorrenza di puro stampo mormone della Brigham Young University, coach K convince Jabari e fa di lui il perno della squadra che anche quest’anno punta al taglio della retina finale. E in una squadra dove lo sharing-the-ball è un credo che dura da trent’anni, lui viaggia oltre i 20 punti di media e gioca una pallacanestro offensiva celestiale, senza troppe forzature né protagonismi, mettendo in mostra un basket purissimo.
C’è solo un altro imprevisto: nella prima gara in diretta nazionale la sua prestazione da 27 punti e 9 rimbalzi non basta per battere Kansas. Colpa ancora di quel canadese.
#TankForWiggins
«Non potevo metterlo in marcatura su di lui, mi serviva ed aveva già 4 falli, non potevo rischiarlo. Però mi ha chiesto di marcare Parker e questo dovrebbe dire molto sulla sua mentalità, della sua natura.» Parole e musica di Bill Self al termine della partita tra Kansas e Duke che ha visto i suoi Jayhawks vincere 94-83, spiegando la volontà del suo miglior giocatore di andare a marcare Parker, fino a quel momento inarrestabile in attacco.
Il suo miglior giocatore è Andrew Wiggins, il canadese, colui che è stato giudicato più forte del «miglior giocatore di High School dai tempi di LeBron James» (sì lo so, sono ripetitivo, ma la facilità con cui si sbugiardano da soli gli americani la trovo sbalorditiva).
Lo si conosce per gli innumerevoli mixtape che girano su di lui fin da quando era in fasce, ma la prima volta in cui è stato preso veramente sul serio—perché diciamoci la verità, per finire in un mixtape basta avere la dinamite nelle gambe e grande coordinazione, poi se non sai mettere un pallone a terra non è un problema—è stato nel mondiale Under-17 del 2010, quando in semifinale contro Team USA segnò 20 punti di fronte a giocatori più grandi di 2/3 anni come Andre Drummond, Michael Kidd-Gilchrist e Bradley Beal, che però riuscirono comunque a portare a casa la partita e in seguito l’oro.
Il primo double-double in NCAA di Wiggins
Fu Roy Rana, allenatore canadese coordinatore di quasi tutte le giovanili della nazione della foglia d’acero, a dare fiducia e a capire che in lui c’era qualcosa di speciale, e lo ribadì nel Nike Hoop Summit del 2012, dove era capo-allenatore e selezionatore della squadra del World Team. L’Hoop Summit è una sfida che vede di fronte i migliori senior liceali americani contro una selezione dei migliori giovani a livello internazionale, una sfida molto più sentita di un qualsiasi All-Star Game. Wiggins, che anche quella volta era il più giovane in campo, scrisse 20 e trascinò il World Team alla vittoria contro il Team USA di Shabazz Muhammad, autore di 35 punti ma che si vide togliere il premio di miglior giocatore proprio dal canadese.
Il suo nome iniziò a girare ancora più vorticosamente, ma il dualismo con Parker non era ancora nato perché, nonostante fosse nato un mese prima, il trasferimento dal Canada gli aveva fatto perdere un anno scolastico e quindi faceva parte della classe 2014, quella successiva rispetto a quella del nativo di Chicago, quella che per gli one-and-done (i giocatori che frequentano un solo anno di college prima di andare in NBA) sfociava nel Draft 2015. Wiggins però, come detto poco sopra, decise di saltare il suo anno da junior e di riclassificarsi tramite la Huttington Prep School come senior, e da lì i due nomi andranno sempre a braccetto.
Wiggins vs Parker, probabilmente uno dei primi capitoli di una lunga serie
Il suo gioco è molto differente rispetto a quello del talento di Duke: meno rifinito ed elegante, più istintivo e mobile, aiutato da un paio di gambe esplosive ereditate sicuramente dalla madre Marita (medaglia d’argento alle Olimpiadi del 1984 nella 4x100 e nella 4x400), dalla cattiveria agonistica del padre Mitchell (che nel 1986 mise il tiro della vittoria in Gara-3 delle Finali di Conference con la maglia degli Houston Rockets) e da un potenziale ed una abnegazione al lavoro che spiegano come mai sia stato paragonato come il miglior prospetto di un Draft così talentuoso e così profondo. Lo hanno paragonato a LeBron, a Kevin Durant ed a Kobe Bryant, ma se vogliamo trovare un giocatore che gli assomiglia molto come stile dobbiamo indirizzarci su quel Paul George che negli ultimi due anni sta dimostrando un telaio da vera e propria superstar. Il talento di Wiggins non si vede, si sente.
La scelta di andare a Kansas non può che far bene alla sua crescita tecnica e tattica, considerando che Self è un allenatore che ha sempre fatto del gruppo e della collaborazione la base su cui lavorare durante l’anno, migliorando partita dopo partita. Wiggins sarà sotto esame per tutto l’anno dal punto di vista mediatico, ma il gioco dei Jayhawks è perfetto per preservarlo e per far uscire il suo gioco gradualmente.
Non bisogna meravigliarsi se la sua partenza in ambito collegiale sia molto più lenta rispetto a quella di Parker, ma sarebbe stupido dare dei giudizi su quello che potrà dare nei prossimi dieci anni di NBA basandosi su un mese di basket NCAA, specialmente quando si tratta di un ragazzo con così ampi margini di miglioramento e con questo talento.
Il mormone e il canadese saranno i protagonisti principali del prossimo Draft comunque vada, anche nel caso in cui nessuno dei due venga preso con la prima scelta assoluta. E non è da scartare neanche questa evenienza.
#JustTank
La maggior parte dell’hype di questo Draft riguarda i due talenti sopra citati, ma fortunatamente per le altre squadre che potranno scegliere in alto a giugno, i prospetti con potenziale da superstar non finiscono con loro.
Julius Randle, ad esempio, è diventato il terzo incomodo nel dualismo Parker-Wiggins, ma è stato snobbato (se così si può dire, quando si parla della miglior classe liceale di sempre) rispetto agli altri due per il ruolo più interno e lo stile di gioco aggressivo, che a livello giovanile paga sempre. Arrivato a Kentucky, Randle non ha certo smesso di attaccare: se Jabari nelle prime 7 partite collegiali ha sempre superato i 20 punti, lui ha risposto a tono con 7 doppie doppie e al momento è il lungo più interessante del lotto.
Al momento, perché a Kansas assieme a Wiggins c’è un lungo camerunense che partita dopo partita sta conquistando fan sia tra gli appassionati che tra gli addetti ai lavori: Joel Embiid. Un sette piedi che ha iniziato a giocare a basket solo tre anni fa ma che sembra essere nato per questo sport e, avendo mostrato una comprensione del gioco e delle situazioni notevoli in questo brevissimo tempo, il suo potenziale appare illimitato. Difficile che possa dare una mano in tempi brevi, ma in una Lega dove i lunghi di ruolo di qualità sono sempre meno, una scommessa del genere potrebbe riscrivere il futuro di una franchigia.
Embiid e le prime prove di Dream Shake
Tornando agli esterni, non bisogna dimenticarsi della point guard Marcus Smart, il primo giocatore della lista ad avere già disputato una stagione di College Basketball. Poteva lasciare Oklahoma State nella scorsa primavera e probabilmente non sarebbe uscito dalle prime tre scelte, ma ha rinunciato ai soldi (più in alto vieni scelto e più il contratto è cospicuo) ed ha rimandato l’approdo in NBA di un anno perché non si sentiva mentalmente pronto. Ha un’infanzia difficile alle spalle ed una crescita mentale “forzata” dagli eventi che gli sono capitati, avendo dovuto superare diversi problemi di cui ha sofferto fin da quando era bambino (su tutte, l’ira), che però sembra aver sconfitto definitivamente dimostrando di essere uno dei giocatori con maggior self-control della nazione. Un leader vero in campo, dotato di una personalità incredibilmente matura soprattutto quando la partita si fa difficile, e dotato di quattro ruote motrici al posto delle gambe che assieme alla stazza considerevole—193 centimetri per 100 chili—lo rendono un grattacapo continuo per i diretti avversari.
Marcus Smart a Oklahoma State
Chi non sono ancora dei prospetti d’élite e nascondo un potenziale da All-Star sono invece Dante Exum e Aaron Gordon. Exum è in corsa per essere il più forte giocatore australiano di tutti i tempi: play-guardia dal talento cristallino che come Wiggins si è costruito la sua fama prima ai Mondiali Under-17 del 2012 e successivamente al Nike Hoop Summit, ma arriva letteralmente dall’altra parte del mondo, anche semplicemente come formazione e percorso accademico. Nonostante il potenziale incredibile (legge gli attacchi come noi possiamo leggere libri in treno) dovrebbe metterci qualche anno in più per adattarsi al basket USA dal punto di vista fisico. Gordon invece è una delle ultime vittime dei mixtape di YouTube. È già stato rinominato “The next Blake Griffin”, anche se oltre all’atletismo debordante ha ben poco da spartire con la PF dei Clippers, a partire dalla difesa superlativa. È ancora molto acerbo dal punto di vista offensivo e Sean Miller, coach di Arizona, sta cercando di sfruttare questa carenza per ricostruirlo anche come ruolo, cercando di allontanarlo il più possibile dal canestro. È un progetto, intrigante, ma pur sempre un progetto.
Potrei stare qui a elencare anche il resto del gruppo di Calipari a Kentucky con i gemelli Harrison (nonostante la loro arroganza sia ben più avanzata del loro grande talento), James Young e Willy Cauley-Stein, di Noah Vonleh di Indiana e Gary Harris di Michigan State, della ventata europea che possono portare i croati Dario Saric e Mario Hezonja e della grande tecnica di Doug McDermott, e probabilmente ne potrei elencare tanti altri ancora per far capire la profondità di quello che potrebbe essere il Draft che cambierà il futuro dei prossimi 10/15 anni della NBA. E chissà se, come nel 1984, con il nuovo commish non arrivi anche un nuovo dominatore. Avete paura a catalogare questo draft potenzialmente come il migliore di sempre? Io no.
Il primo di tanti scontri Parker vs. Wiggins