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È sempre Italia-Germania
02 lug 2016
Un intreccio di stereotipi e rivalità vecchio di secoli.
(articolo)
10 min
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“Amo talmente tanto la Germania che vorrei ve ne fossero sempre due”

Giulio Andreotti

La frase con cui Giulio Andreotti nel 1984 si compiace di una Germania debole perché divisa è forse la migliore per inquadrare in poche parole il sentimento comune con cui gli italiani di solito guardano a Berlino. Un sentimento che affonda le proprie radici negli stereotipi nazionali e che, proprio per questo, ci dice qualcosa sia della percezione delle identità altrui ma anche della nostra.

Solo pochi giorni fa, ad esempio, in un commento al quarto di finale che ci aspetta comparso pochi giorni fa sul cartaceo di Repubblica, si poteva leggere: “Loro, si dice, ci amano ma non ci stimano. Noi, si dice, li stimiamo ma non possiamo amarli, anche se ormai nel calcio sono quasi più latini di noi”.

Da dove derivi precisamente questo senso di ammirazione misto a timore, e a volte addirittura disprezzo, è molto complicato da dire. Appena finita la partita con la Spagna, nel centro sociale in cui ho visto l’Italia, ho sentito molte persone lanciare cori di sfida ad Angela Merkel, il soggetto che oggi più personifica tutti gli stereotipi negativi che abbiamo sui tedeschi.

L’immagine di un leader politico austero e noioso, che in più vuole arrogantemente imporci delle regole che ci danneggiano. D’altra parte, anche l’azione politica della Merkel in Europa è mossa in parte da una visione più o meno stereotipata dell’Italia, percepita come un partner inefficiente e inaffidabile, la cui popolazione vive a spese tedesche molto al di sopra delle proprie possibilità economiche.

Ma questo conflitto tra stereotipi non nasce certo con la Merkel: si fonda sulla cristallizzazione nel corso dei secoli dei più diversi riferimenti culturali e politici che hanno contribuito, ognuno in maniera diversa, a costruire un sentimento di diffidenza/attrazione tra i due paesi.

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Da dove viene

Un primo tassello in questo processo è rappresentato da Tacito e il suo De origine et situ Germanorum (titolo che viene travasato nell’italiano Germania), opera del 98 d.C. in cui lo scrittore latino descrive le popolazioni germaniche che vivevano al di fuori dell’Impero Romano. Quella di Tacito è una descrizione paternalistica, che guarda a popolazioni considerate barbare dall’alto in basso, ma che rimane comunque impregnata di ammirazione verso determinate caratteristiche “nazionali”, come lo spirito guerriero, lo sprezzo del pericolo e il coraggio, che erano considerate antitetiche rispetto al lusso e alla depravazione morale in cui stava sprofondando l’Impero Romano.

L’immagine di una Roma lasciva e inaffidabile e di una Berlino coraggiosa e austera si cementerà anche nei secoli successivi, e anche dal punto di vista tedesco. Un altro capitolo di questa storia è l’affissione sul portone della chiesa di Wittenberg da parte di Martin Lutero delle celebri 95 tesi in cui il teologo tedesco denunciava la pratica della vendita delle indulgenze in Germania da parte della Chiesa cattolica: la corruzione romana sarà la prima miccia che porterà alla scissione tra Chiesa cattolica e Chiesa protestante.

L’altro lato della medaglia è rappresentato dal celebre saggio sull’Italia di Goethe, in cui lo scrittore tedesco racconta il suo lungo viaggio tra Trento, Verona, Roma, Napoli e Palermo. In quest’opera l’allegria, la confusione e la naturalezza nei modi intraviste da Goethe nei caratteri della popolazione italiana vengono poste sotto una luce positiva.

Tutta l’ambivalenza del rapporto italo-tedesco finirà per sfociare anche nei rapporti diplomatici tra i due stati nazionali, dopo la loro nascita nella seconda metà dell’Ottocento: durante le due guerre mondiali, più in particolare, sia la Germania che l’Italia crearono tutte le condizioni affinché i peggiori stereotipi venissero confermati nei fatti: e cioè di essere uno stato ottuso e dalle volontà egemoniche la prima, e un partner incapace e inaffidabile la seconda.

Persino da alleati Italia e Germania finirono per far prevalere i loro pregiudizi: nonostante la grande ammirazione che inizialmente Hitler provava per Mussolini, il leader nazista finì per fidarsi sempre di meno dell’Italia mano a mano che la Seconda Guerra Mondiale volgeva per il peggio, finendo per occupare gran parte della parte centro-settentrionale del paese nell’autunno del 1943 per evitare un non impossibile voltafaccia. Anche Mussolini, d’altra parte, dopo l’entusiasmo iniziale, finì per mal sopportare le ingerenze e la scarsa disponibilità al dialogo del governo tedesco.

Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Italia continuò a provare un senso di reverenza e timore nei confronti della Germania: e quella che diventerà l’Unione Europea aveva anche lo scopo, più o meno dichiarato, di ingabbiare le eventuali velleità egemoniche di una Germania riunificata.

Si vive come si gioca

Quello di essere un paese subdolo, che vive a spese altrui e che approfitta con tutti i mezzi (anche illeciti) delle debolezze dei suoi vicini è uno stereotipo che finirà per influenzare anche il calcio.

È abbastanza noto, infatti, che la scuola italiana si fonda sul pragmatismo (nella migliore delle sue accezioni) e sullo studio dell’avversario. Nell’analisi tattica dell’ultima partita con la Spagna, ad esempio, Fabio Barcellona scrive: “Pur essendo un tecnico estremamente innovativo, Conte ha saputo ereditare la migliore attitudine della tradizione tattica italiana. Quella fatta di estrema attenzione alle caratteristiche degli avversari e a particolari situazioni di gioco. Una scuola tattica flessibile, camaleontica, che pone storicamente attenzione alle esigenze tattiche della singola partita e alla gestione dei diversi momenti dei match”.

Un calcio che nell’interpretazione dei suoi critici parte dalla speculazione sull’avversario e sulla partita, e che nell’immaginario popolare (il “catenaccio” come calcio dei poveri) si fonda su un innato senso di inferiorità nei confronti dell’avversario, nel caso di Conte legittimato dalle contingenze. Non è un caso che la vulgata voglia l’Italia come una squadra che dà il meglio di sé solo nelle occasioni che contano, nei momenti di maggiore difficoltà e contro avversari di maggior blasone.

Il catenaccio è l’espressione più famosa e controversa della scuola calcistica italiana proprio per questo motivo: nato in realtà in Svizzera da un’idea di un austriaco (Karl Rappan), il catenaccio si afferma inizialmente in Italia in piccole squadre (come la Salernitana di Viani e soprattutto la Triestina di Nereo Rocco) e veniva visto come il “diritto del più debole” di potersi affermare contro avversari fisicamente e/o tecnicamente superiori. Anche oggi si dice che in Italia sia più difficile segnare per via dell’approccio difensivo delle piccole squadre, mentre nelle coppe europee tutte le squadre “provano a fare la partita” giocando “alla pari”.

Una speculazione sull’avversario che può essere vista, nella più negativa delle sue interpretazioni, sotto la luce dell’antisportività se all’approccio difensivista aggiungiamo la gestione tattica (anch’essa tutta italiana) di falli e cartellini, e lo stereotipo dell’utilizzo della simulazione per la perdita di tempo.

Una rivalità piuttosto recente

Forse era inevitabile, quindi, che la Nazionale italiana rivolgesse la sua rivalità verso Nazionali che invece, per questioni tecniche o di tradizione storica, tendessero a fare un gioco propositivo, basato sull’imposizione della propria identità sull’avversario anche a costo di prendersi rischi (dal nostro punto di vista) inutili. E forse stupirà sapere che questo rivale non è sempre stato la Germania.

Negli anni ’30, quando la Nazionale italiana era considerata la più forte al mondo, e mentre la Germania si apprestava ancora ad uscire dall’ombra sportiva della Nazionale austriaca, la vera rivale era l’Inghilterra, un po’ perché la nazionale inglese si rifiutò fino al 1950 di partecipare a tornei internazionali (ed era quindi idealmente considerata la migliore Nazionale al mondo), un po’ per le influenze politiche del fascismo che considerava la Perfida Albione come il simbolo dell’imperialismo capitalista.

Fino alla celebre Italia-Germania 4-3 del 1970, la vera ossessione fu battere la Nazionale inglese. Ossessione che sfociò in alcune partite iconiche dell’approccio italiano al calcio, come la cosiddetta battaglia di Highbury del 1934, che l’Italia comunque perse per 3-2. Fu una partita a quanto pare piena di falli e scorrettezze, almeno nel primo tempo. “Nei primi quindici minuti di gioco avrebbe anche potuto non esserci affatto il pallone in campo se fosse stato per gli italiani”, dichiarò in quell’occasione Stanley Matthews come riportato ne La Piramide Rovesciata di Jonathan Wilson.

In quegli anni la rivalità tra Italia e Germania era praticamente inesistente. Non si ricordano quasi mai, infatti, né l’oro olimpico vinto dalla Nazionale italiana a Berlino nel 1936, né tanto meno il massiccio tifo italiano per la Germania Ovest nella finale mondiale del 1966 contro l’Inghilterra (come raccontato dal giornalista Enrico Deaglio e riportato in Calcio di John Foot).

Il passaggio dall’Inghilterra alla Germania come rivale “naturale” dell’Italia è avvenuto sul doppio binario politico-calcistico mano a mano che Berlino, dopo la seconda guerra mondiale, tornava ad essere una delle principali potenze in Europa, sia dentro che fuori dal campo. Il tutto è stato ovviamente arricchito dai numerosi incontri decisivi ed epici tra le due Nazionali. Oltre alla semifinale mondiale del 1970 già citata, è impossibile dimenticare la finale mondiale del 1982, oppure il doppio sgarbo di vincere il mondiale organizzato dalla rivale (Italia ’90 vinto dalla Germania Ovest, Germania 2006 vinto dall’Italia), fino ad arrivare al 2-1 nella semifinale europea del 2012.

Oggi

La stampa dei due paesi non ha fatto che condire queste partite con elementi che hanno rafforzato le immagini stereotipiche dei due Paesi. Non a caso quella tedesca ha di solito fatto riferimento agli aspetti più frivoli della cultura italiana (come nel 2006, quando il giorno della semifinale mondiale la Bild aprì con il titolo “Arrivederci pizza”), mentre quella italiana ha cercato di legare il discorso politico con quello calcistico, prendendosela con i principali leader di Berlino (dopo la semifinale del 2012 Libero uscì con il titolo “VaffanMerkel” con una vignetta di Balotelli che calcia la testa della cancelliera tedesca).

Ma è soprattutto nella tradizione calcistica che le due squadre sembrano ricalcare il copione che si sono assegnate. Con la Germania simbolo di stabilità nella continua ricerca della vittoria (è la squadra con più finali europee, sei, di cui tre vinte, e ai Mondiali non viene eliminata prima dei quarti di finale dal 1938) e l’Italia, invece, a confermare la vulgata di essere davvero competitiva solo nei momenti di maggiore difficoltà (dal 1950 ad oggi è stata eliminata alla fase a gironi dei Mondiali per ben 7 volte, ma contro la Germania non ha mai perso in una partita valida per un Europeo o un Mondiale).

In questo senso, Italia-Germania è forse la rivalità perfetta perché incarna lo scontro biblico tra calcio propositivo e calcio speculativo, tra calcio proattivo e calcio reattivo. E questa immagine tende a sovrapporsi alla sfida anche se la realtà dice altro: persino la stampa italiana ha a lungo interpretato il gioco di Conte come un misto di aggressività e contropiede, con la difesa a farla da padrone, nonostante l’Italia fosse una delle pochissime squadre all’Europeo ad avere un sistema di possesso palla e dei meccanismi offensivi rodati.

Ma il copione deve riproporsi uguale ancora una volta, con le due squadre a recitare le parti a loro assegnate. Nelle ultime conferenze stampa prima della partita, Hummels, ha dichiarato che “l'Italia è forte per il suo modo di fare 'catenaccio', che tiene gli avversari lontani dalla porta” mentre Immobile ha detto che “la Germania è sicura di sé”.

Nel frattempo Renzi discute con la Merkel per avere vincoli più rilassati sul bilancio e SkyTg24 titola: “È sempre Italia-Germania”. Nell’immagine che accompagna il titolo si vedono i due capi di governo su un campo da calcio coperto di banconote. La Merkel ha la maglietta numero 10, quella di Lucas Podolski, mentre Renzi ha la 3 di Giorgio Chiellini.

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