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Esportare il calcio italiano
20 apr 2015
De Laurentiis ha dichiarato di voler vendere il calcio italiano in altre parti del mondo, ma che cosa stiamo provando a vendere?
(articolo)
9 min
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«Lavoriamo su un progetto per portare la prima giornata di Serie A della prossima stagione in dieci città del mondo diverse, Sky permettendo. Stiamo verificando la fattibilità del progetto che punta a far uscire il calcio italiano dal periodo difficile che sta vivendo negli ultimi anni».

Quando Aurelio De Laurentiis ha fatto trapelare cosa stessero pensando nel consueto simposio di menti della Lega di Serie A, ha mostrato tutto il lato debole del pensiero di chi governa il pallone, l’avventatezza di chi delibera (o suppone di deliberare), persino la scarsa astuzia di chi non dovrebbe raccontare progetti ancora in fieri per non correre il rischio che una provocazione lanciata sul momento, senza uno studio, una verifica della fattibilità, diventi un fallimento anche senza mai essere passato dall’atto pratico.

Il pensiero debole non è quello di cercare nuove forme di entrata, di far soldi in modo diverso. Sarebbe lecito: il calcio è anche un’industria, il calcio italiano è in crisi di ricavi e ha bisogno di reperire risorse altrove. Ma se il pallone è pure industria, allora deve saper fare i calcoli e avere una politica lungimirante. Invece qualcuno in Lega pensa, e De Laurentiis apprezza al punto da diffondere, che si possa svoltare così: puntando sui diritti tv, tanto per cambiare. E basta. Cercando di vendere il prodotto senza prima renderlo migliore. Soprattutto, non comprendendo la differenza con le altre top league europee.

DOV’È IL PROBLEMA

Il crollo economico del calcio italiano è certificato dall’ultimo rapporto Deloitte: solo la Juve è tra le prime dieci, per ricavi, d’Europa. Ed è decima, peraltro. Nel 2006 erano tre (con Milan terzo e Juve quarta) a stare tra le migliori. Questo lascerebbe pensare a una necessità di andare a trovare soldi e basta. Ma, appunto, la lungimiranza dovrebbe portare almeno a una attenta analisi del punto di partenza. È aumentando l’offerta televisiva che ci si allinea alle altre grandi d’Europa? L’Italia incassa circa un miliardo di euro all’anno dai diritti tv. Nessun paragone con l’Inghilterra, che ha da poco firmato un accordo per quasi sette miliardi di euro in tre anni, ma una cifra considerevole. Che però non aiuta a crescere: permette di galleggiare. Mancano, infatti, le altre voci. Più che le analisi, ecco i numeri: sempre tra le prime venti d’Europa per fatturato ecco l’incidenza dei diritti tv sui ricavi.

1. Everton 73% (105,8)

2. Napoli 65% (107,1)

3. Newcastle 60% (93,5)

4. Atlético Madrid 57% (96,5)

5. Juventus 55% (153,4)

6. Tottenham 53% (113,3)

7. Inter 52% (84,8)

8. Milan 49% (122,7)

9. Chelsea 43% (167,3)

10. Arsenal 41% (147,3)

11. Liverpool 39% (120,8)

12. Barcellona 38% (182,1)

13. Manchester City 38% (159,3)

14. Real Madrid 37% (204,2)

15. Schalke 04 32% (68,5)

16. Manchester United 31% (162,3)

17. Borussia Dortmund 31% (81,5)

18. Galatasaray 30% (47,7)

19. Bayern Monaco 22% (107,7)

20. PSG 18% (83,4)

* le cifre tra parentesi sono in milioni di euro

Le italiane sono tutte in alto, i diritti tv sono gran parte dei soldi che entrano nelle casse. Certo, ci sono anche un po’ di inglesi, ma sono quelle di seconda fascia mentre le italiane così dipendenti dai soldi delle televisioni sono invece le migliori del campionato. Il punto è che invece mancano i soldi del matchday, quelli che arrivano da una corretta gestione dello stadio e dell’evento partita. La classifica dell’incidenza di questi ricavi sul fatturato complessivo è significativa.

1. Arsenal 33% (119,8)

2. Galatasaray 29% (47,1)

3. Manchester United 25% (129,3)

4. Barcellona 24% (116,8)

5. Tottenham 24% (52,5)

6. Chelsea 22% (84,9)

7. Borussia Dortmund 22% (56,1)

8. Real Madrid 21% (113,8)

9. Liverpool 20% (61)

10. Newcastle 20% (31)

11. Schalke 04 19% (41,1)

12. Atlético Madrid 19% (32,5)

13. Bayern Monaco 18% (88)

14. Everton 16% (23,1)

15. Juventus 15% (41)

16. Manchester City 14% (56,8)

17. PSG 13% (63,1)

18. Napoli 13% (20,9)

19. Inter 11% (18,8)

20. Milan 10% (24,9)

* le cifre tra parentesi sono in milioni di euro

È chiaro, numeri alla mano, che se l'Italia vuol fare crescere il valore del proprio calcio deve lavorare sugli stadi e su quello che possono produrre, rendere appetibile l'evento, farlo fruttare. Argomento abbondantemente trattato, ma che evidentemente non sta a cuore a chi governa il pallone, che preferisce soldi subito invece di un investimento anche soltanto in termini di idee, con un ritorno migliore. È la cifra delle nostre società: raggranellare danaro invece di produrlo. Ecco, portare il calcio all'estero nella prima giornata non somiglia a un'operazione di marketing: è la richiesta di un'elemosina.

AVVISO AL PUBBLICO

La media spettatori di questo campionato è di 21.833 a partita. Un anno fa era di 23.481, l'anno prima ancora di 24.655. Il pubblico si allontana, ma il problema non si affronta. Gli impianti si svuotano, portano sempre meno soldi e il calcio italiano invece di evitare la fuga dagli stadi, fugge dagli stadi. Dicendo alla gente che tifa, fondamentale perché il calcio si regga e (proprio per le classifiche di prima) perché cresca al di là dei diritti televisivi, che in fondo non serve. Che è superflua nel piano di ristrutturazione che loro hanno in mente. Perché altrimenti prima si migliorerebbe lo spettacolo, verrebbe cementata la credibilità. E solo poi verrebbe venduto anche il prodotto all'estero. Dove si possono anche catturare nuovi tifosi o almeno appassionati, dove arrivano le tivvù ma si aprono anche frontiere nuove per i ricavi commerciali delle società (altro punto dolente nel raffronto con quanto accade all'estero).

Altrimenti il rischio è avere nuove Doha: quando la Supercoppa italiana si è giocata in Qatar, a Natale scorso, le società si sono divise tre milioni di euro tra ingaggio e diritti tv, ma l'Al Sadd Stadium conteneva quindicimila spettatori pressoché disinteressati, creando un clima surreale che ha reso indigeribile una partita arrivata fino ai rigori anche per chi, da casa, avvertiva la sensazione di osservare uno spettacolo di scimmie addestrate, con un ricco pubblico intorno. Accade, quando si scambia il marketing per un'esibizione. Quando si esporta un prodotto senza crederci, ma solo perché ci sono dei soldi che arrivano subito e che non diventeranno di più: resteranno un obolo occasionale perché arrivato senza un progetto, perché non utilizzato come investimento.

ESPORTARE IL PALLONE

Serve, alla base di un'operazione del genere, un pallone credibile. La voglia di estero di De Laurentiis era già nel tweet dopo il pareggio con l'Atalanta dell'account ufficiale del Napoli, che però aveva al suo interno anche una contraddizione. Partiva da un torto arbitrale...

Se questo tweet è ragionato De Laurentiis punta all'Inghilterra, la vede come modello. Mettendo da parte la possibilità di pensare che lì «non sarebbe successo» perché sbagliano anche da quelle parti, ma ne parlano meno, avrebbe anche ragione, perché l'Inghilterra è la nazione che meglio sa vendere il suo calcio anche all'estero, che rende credibile ogni cosa che fa anche nell'anno in cui nessuna sua squadra è ai quarti di Champions e di Europa League. Ma quando De Laurentiis imputa in qualche modo a Tavecchio gli errori di un arbitro sta dicendo inconsciamente che la Federazione controlla i direttori di gara, quindi che è un sistema pericoloso, marcio. Che all'estero non andrebbe esportato.

Anche perché (e qui torna l'Inghilterra) già la scorsa estate i numeri hanno fatto capire da che parte sta l'interesse del mondo. Ha aggiunto De Laurentiis, mentre raccontava questo progetto senza fondamento, che «si era partiti da Londra ma poi l'appetito vien mangiando e stiamo pensando a New York, Londra, Parigi, Giacarta, Pechino, Shanghai». Ecco, parliamo di New York, degli Stati Uniti. E della Guinness Cup della scorsa estate: Roma-Inter, l'unica partita con due italiane, è stata vista a Philadelphia da 12.619 spettatori (in uno stadio da 69.176).

Senza arrivare al dato mostruoso dei 109.318 di Ann Arbor per Manchester United-Real Madrid, per avere un paragone basta vedere quando si sono incontrate le inglesi, nello stesso torneo: 49.653 spettatori per Manchester City-Liverpool a New York e 51.014 per Manchester United-Liverpool a Miami. Se si vuole ragionare sui numeri, questa è la differenza di appeal dei due modelli di calcio. Non abbiamo molto da esportare.

DIPENDENTI DAGLI ADVISOR

Ma chi aveva avuto l'idea di portare la Serie A in giro per le altre nazioni (peraltro facendo diventare giocatori e presidenti come attrazioni da circo davvero, per cui l'Inter andava verso Giacarta per Thohir e il Milan in Giappone per Honda)? Riccardo Silva, un altro ex dirigente di Milan Channel che ha fatto carriera, giovane presidente della MP & Silva, grande alleata di Infront (anche perché Silva è stato socio di Bogarelli proprio nell'avventura di Milan Channel. E le due società, insieme, formano la quasi totalità dei ricavi del Bari: Silva per la pubblicità e Infront per le partnership e le anticipazioni dei diritti tv). La sua società è advisor della Lega di Serie A fino al 2018 per i diritti tv internazionali, che si è aggiudicata a ottobre in un'asta praticamente fuori mercato, visto che ha pagato 186 milioni annui i diritti che l'anno prima costavano 117 milioni. Lui stesso, quando gli hanno chiesto un parere sull'idea della Lega di A di andare a giocare altrove, ha rivendicato al Corriere dello Sport la paternità dell'iniziativa. Richiesta, peraltro: «Sono stato chiamato per presentare idee e strumenti per valorizzare il calcio italiano all’estero. Finora abbiamo puntato sul miglioramento della qualità del prodotto, arricchendolo anche con una serie di interviste a corredo delle partite. Ma è chiaro che ci vuole dell’altro».

Ecco, la Lega non ha idee: le chiede in prestito. E va da chi gestisce i diritti tv, proprio non riesce a guardare oltre, continuando a consegnare il proprio pallone agli advisor per manifesta incapacità. Infatti De Laurentiis ha solo riferito questo aspetto della proposta di Silva (che tra l'altro fa riferimento alle esperienze all'estero di NBA e NFL come fossero lo stesso prodotto che il calcio italiano vorrebbe vendere), perché è quella che interessava e forse quello che se va in porto conduce a un incasso immediato. Perché Silva, che era alla riunione tecnica in Lega, ha anche proposto di far giocare il campionato durante le vacanze di Natale, come fanno in Premier League con il boxing day. Mentre il nostro calcio era in vacanza (dal 21 dicembre al 5 gennaio), il campionato inglese si è regolarmente svolto, come da anni, a Santo Stefano. Il risultato è che 1,6 milioni di italiani erano davanti alla tv, 246mila per Chelsea-West Ham. Ma giocare durante le vacanze di Natale vuol dire stadi pieni (la serie B, il 24 dicembre, ha avuto un aumento del 3,7% del pubblico) e tv accese: più che analisi da anni è statistica. Così si crea un prodotto quasi esclusivo e si ha un progetto reale di rilancio di un pallone in asfissia, con più tasselli e con il pubblico tenuto in considerazione in quanto elemento irrinunciabile per manager sani. Invece, avanti con l'estemporaneità: oggi l'idea è questa, domani chissà. Al massimo, si chiede a un advisor.

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