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El gran solitario
01 giu 2015
Una lunga intervista al levriero Ezequiel Schelotto, su calcio, cibo e momenti difficili.
(articolo)
21 min
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Quando abbiamo fissato l’intervista ho subito pensato che il lato gourmand di Ezequiel—un aspetto che condividiamo, lui e mia moglie e io, foodbloggers old school—piuttosto che centrale, sarebbe dovuto essere trasversale alla nostra chiacchierata. Avevo voglia di ripercorrere le tappe della carriera di Ezequiel Schelotto facendone trapelare profumi e aromi, come se ci impegnassimo reciprocamente nella preparazione di un piatto della tradizione argentina, cottura lenta, convivialità. E ovviamente molta carne sulle braci. Non saremmo potuti partire che dalla legna. Ovviamente, di araucaria e carrubo, legname argentino.

Nonostante l'immagine estroversa di Ezequiel, i capelli lunghi, i tatuaggi, il sorriso che ha in quasi tutte le foto, sapevo già che avremmo affrontato temi più seri, e la convivialità ci ha portato anche a confessioni di questo tipo: «Ti dico la verità, io conosco dei compagni che hanno avuto dei momenti difficili, e anche io: lì conta la forza di volontà. Ci sono tante tentazioni, a volte uno prende le strade più facili per nascondere i dolori, ed è lì che sbaglia: uno deve essere attento, e farsi stare accanto e aiutare quando ne ha bisogno. Perché quando le cose vanno bene ci sono tutti, ma quando le cose vanno male no. La depressione nel calcio c’è: la devi saper affrontare, con molta serietà e maturità. Ti devi sempre migliorare e mai accontentare, perché sennò quando arriveranno i momenti più belli poi non te li godi».

Ma cominciamo dall'inizio.

Il Vélez sta al calcio degli anni ’90 come l’asado alla cucina argentina

«Tutta la mia famiglia ha sempre tifato per il Vélez... avevo anche la maglia, con la V blu su campo bianco».

Il padre di Ezequiel, Néstor, è stato vicino così a realizzare un sogno che sarebbe stato, più avanti negli anni, quello del figlio: vestire la maglia dei difensori del Fortín. Ha fatto un provino, che era andato anche bene: poi il destino lo ha portato lontano dal calcio, ma senza troppi rimpianti.

«A mio padre piaceva il ruolo di portiere, aveva il mito di questo personaggio molto conosciuto in Argentina, Hugo Gatti, che era fantastico ma allo stesso tempo comico perché era un portiere a cui piaceva uscire palla al piede, dribblava i giocatori... e aveva una fascia in testa perché portava i capelli lunghi, e anche mio padre aveva la stessa pettinatura, quindi per lui era un emblema, era il suo idolo...».

Ezequiel è dell’ottantanove, perciò forse non può ricordare con lucidità le gesta del Vélez di Asad, di Chilavert e Trotta, allenato da Carlos Bianchi, che vinse l’Intercontinentale, quando ancora si giocava a Tokyo in gara secca, contro il Milan di Capello nel ’94.

«Il Vélez è stata una squadra importante, ha vinto tutto, in Italia i tifosi del Milan se lo ricordano bene... Ho fatto le giovanili lì tre anni, è lì che è iniziata la mia carriera».

Chiedo a Ezequiel se per caso l’aria del Villa Luro sappia ricordargli un aroma, un sapore. Se tra quegli spalti si annidi, casomai, una piccola madelaine proustiana: «Gli anni del Vélez mi ricordano il sapore del piatto più importante per gli argentini, la carne: quegli anni lì sono stati dieci anni fantastici per la storia del club, ha vinto tutto, si è fatto conoscere, è diventato famoso: è stato il portabandiera dell’asado nel mondo negli anni ’90».

Un video molto nostalgico del Vélez campione del mondo nel 1994.

Trapani, Cortázar, levrieri e chimichurri

Ma la tappa più importante della formazione calcistica di Ezequiel è quella che si trova al termine di un percorso contorto che dal barrio Guernica, il suo quartiere d’infanzia, attraverso Burzaco e il Camino de Cintura lo portava al centro sportivo Alfredo Palacios a Luis Guillón, il campo d’allenamento del Banfield.

Ripercorrere quella lunga strada, che mentre preparavo quest’intervista ho mandato a memoria seduto sui sedili virtuali di un coléctivo sferragliante sulle corsie di Google Maps, risveglia nostalgie sopite. Banfield è il sobborgo di Gran Buenos Aires in cui è cresciuto Julio Cortázar («Non lo sapevo», ammette Ezequiel), che lo definiva «un paesotto, con le sue strade sterrate e la stazione delle Ferrovie del Sud, con i suoi terreni incolti che d’estate ribollivano di aragoste multicolori all’ora della siesta e che di notte si rapprendeva timoroso intorno ai pochi lampioni agli angoli», anche se doveva aver perso molto di quel fascino agée negli anni dell’educazione sentimentale calcistica di Schelotto.

Il Banfield è una squadra storica dell’hinterland bonaerense, negli anni ’40 venne soprannominata el Taladro, il trapano, per l’incisività martellante delle sue manovre. In tempi più recenti hanno vestito la sua maglia gente come Palacio, el Jardinero Cruz, Camoranesi, Dani Osvaldo, Javier Zanetti. E poi, Ezequiel.

«Il mio sogno era quello di giocare con la prima squadra del Banfield, solo che le cose sono andate così veloci, un agente dell’Atalanta è venuto a vedermi giocare per la Primavera... In Argentina praticamente la Primavera gioca due ore prima della prima squadra, e nello stesso stadio; quindi mi sono venuti a vedere per un paio di partite, e nel 2008 sono arrivato in Italia. Non me l’aspettavo, il sogno di ogni giocatore in Argentina è quello di giocare per la squadra nella quale ha fatto le giovanili: per me invece è andata così, che senza mai giocare con la prima squadra mi sono ritrovato in Italia».

Un giovanissimo Pupi con la maglia del Banfield. Ezequiel lo ha sempre considerato un esempio da seguire. Nel 2012, per squalifica, Ezequiel non poté incontrarlo in campo; in occasione della successiva trasferta a Milano dell’Atalanta, per affrontare il Milan, Zanetti gli fece recapitare in albergo una sua maglia autografata.

È nella breve parentesi al Banfield che Schelotto si è guadagnato il soprannome di el galgo, il levriero. Che poi è lo stesso di Jonás Gutiérrez, che fino a pochi giorni fa giocava nel Newcastle. «Mi hanno soprannominato così per il mio modo di giocare, ma anche perché avevo la stessa pettinatura e lo stesso ruolo di Jonas, le stesse caratteristiche. Ed entrambi venivamo dal Vélez».

L’aria bucolica di Banfield, ora che ci penso, ricorda molto da vicino la schiettezza rustica del chimichurri, la salsa d’accompagnamento per la parrillada per eccellenza, fatta di olio, limone, aglio e prezzemolo, e poi sale, pepe e peperoncino: l’esatto connubio tra l’esotismo del Sudamerica e la mediterraneità, il sapore ideale per accompagnare la trasmigrazione transoceanica di Ezequiel.

La depressione, e un dessert come antipasto

Ezequiel viene tesserato dall’Atalanta ma parcheggiato al Cesena. È il 2008, in Italia lo scambiano per un parente di Guillermo Barros Schelotto e del suo gemello Gustavo, all’epoca abbastanza famosi per la loro militanza nel Boca. Lo chiamano el falso mellizo, il finto gemello, che mi sembra un soprannome bellissimo. Ma il primissimo periodo è davvero complicato, ed Ezequiel non si spaventa, né si vergogna, a parlare di depressione.

«All’inizio era tutto bello, arrivare in Italia, andava tutto bene: mi allenavo con la squadra, ho fatto il ritiro, ma poi mi hanno fatto capire che senza transfer non potevo giocare. Pensavo che sarebbe arrivato presto, ma poi mi hanno fatto capire che non sarebbe andata così, e sono stato nove mesi senza giocare, ad allenarmi soltanto. Giocavo qualche amichevole in settimana, ma niente di più».

«Io non ho mai fatto male a nessuno, e ho sempre detto che il calcio mi ha dato solo cose belle, ma mi facevo delle domande. Volevo tornare a casa, non volevo più starci qua, mi dicevo: "Come può essere che la gente sia così cattiva con me?". Avevo diciannove anni appena compiuti, uno magari non lo capisce come girano le cose, io tra virgolette ero maturo, ma non sapevo. Magari ci sono cose peggiori nella vita, ma in quel periodo dicevo a mio padre che volevo tornare. Lui mi rispondeva: "Guarda Eze, anche noi abbiamo lasciato tutto per farti realizzare i tuoi sogni", e allora ho capito che se avevano mollato ogni cosa per starmi vicino perché mi sarei dovuto arrendere? Dovevo fare di tutto per ricompensarli: il mio punto di forza è stato guardarli negli occhi e dirgli, e dirmi: di qua nessuno mi toglierà.»

Negli ultimi giorni, sui social network, è successo che Emmanuel Adebayor si sia sfogato lungamente—raccontando una storia così personale che sarebbe da cinici pensare non gli sia costato uno sforzo tremendo in termini emotivi—sulla cattiveria del suo entourage: nella personalissima esperienza di Adebayor il particolare che turba è che l’entourage in questione fossero i suoi familiari. Ovviamente l’esperienza di Schelotto non è paragonabile neppure lontanamente, ma mi sembra significativo di quanto le parole depressione, suicidio e abbandonarsi alle tentazioni siano dei tabù nel mondo del calcio, scientemente evitate, come se il calcio fosse quel Paradiso Perfetto. È qui che mi dice: «La depressione nel calcio c’è: la devi saper affrontare, con molta serietà e maturità».

Per distendere l'atmosfera chiedo a Ezequiel se non è come cucinare un piatto impegnativo, farsi una carriera importante: ci vuole pazienza e costanza e applicazione, in un mondo che somiglia più alle cucine di Hell's Kitchen che al tinello di casa. «È una metafora che funziona», mi dice.

Poi riprende il discorso e dice: «Per fortuna ho dei genitori fantastici, che mi sono stati vicini, che mi hanno detto di non mollare, che le cose sarebbero andate meglio. Il Cesena lottava per andare in Serie B, e allora poi arriva il transfer e faccio questo gol contro la Spal nel derby»:

«Se dovessi abbinare Cesena a un ricordo culinario la abbinerei a un dolce. Dolce dolce, una città dolcissima; sono arrivato senza niente e sembrava che fossi lì da una vita intera. Mi è dispiaciuto tantissimo vederli retrocedere: per me sono stati dolci come il dulce de leche. Che è un sapore che magari in Italia non piace a nessuno, ma a me fa impazzire».

Ora immaginate Diego Simeone alla parilla

«I mesi che ho trascorso a Catania sono stati fantastici. Eravamo tutti argentini, sempre a bere mate e raccontarci cose e ascoltare musica: sembrava di stare in Argentina. Simeone e Burgos mi hanno dato la possibilità di giocare tante partite, ho segnato il mio primo gol in Serie A, Catania per me avrà sempre il sapore rilassante del mate: sono stati i sei mesi in cui sono andato più volte al bagno!», racconta Ezequiel con un sense of humor e un’ingenuità che suonano davvero genuini, non artati.

«Non lo so se Simeone è bravo in cucina, ma sicuramente se la cava bene come tutti noi argentini alla griglia, quelle cose là ce le abbiamo nel sangue, siamo nati con quello e moriremo con quello».

«Non mi sarei mai aspettato che Diego potesse vincere così presto: mi auguravo che potesse arrivare così lontano, però; in pochi anni ha dimostrato il suo valore, è per quello che tutti i giocatori che lo hanno avuto come allenatore lo ringraziano, ed è stato bello vederlo vincere un campionato e quasi una Champions con una squadra, l’Atlético, per la quale ha pure giocato. Chi ce l’ha avuto lo ama e chi non ce l’ha avuto lo invidia».

Simeone è tipo l’asador, mistico e un po’ incazzoso, mentre "el mono" Burgos è l’aiutante silenzioso, che affetta i peperoni e prepara il chimichurri senza ansie di protagonismo, spiluccando qualche fetta di salame nell’attesa.

La semplicità con cui accetta la sfida della metafora culinaria, ogni volta, mi fa capire che Ezequiel è naturalmente predisposto a una lettura del mondo attraverso i paradigmi del food. Non è solo questione di “posizionamento” del suo brand personale. L’aspetto per il quale è finito su quotidiani generalisti e riviste specializzate, più che quello calcistico, è la sua veste—inedita per un calciatore, in effetti—di “critico gastronomico”. In realtà Schelotto ha semplicemente aperto un account su TripAdvisor, sebbene sia qualcosa di inusuale per un giocatore, sul quale recensisce ristoranti e dispensa suggerimenti culinari.

«Sono sempre sincero quando do i voti, per me è anche un modo di esprimermi, è carino no?», mi chiede come a volersi giustificare. Il parallelo interessante che mi è venuto in mente è che dare i voti a un ristorante non sia molto dissimile, per certi versi, al compito a volte ingrato che hanno i giornalisti quando devono dare i voti a un calciatore in campo. Mi chiedo se Ezequiel sia uno di quelli che si arrabbiano per un brutto voto, per dire.

«Magari mi posso sbagliare, come tutti i giornalisti: invece di dare un sette do un quattro, e per altri magari quel quattro è un sette. Per me è un modo, essendo una persona conosciuta, che mi prendono ad esempio, di dire: guarda, c’è andato pure lui e non gli è piaciuto tanto. A me piace la carne, e se vado a mangiare il pesce invece di mettergli cinque stelle gliene metto tre». Gli faccio notare che non è un meccanismo del tutto coerente. «A volte ci sono giornalisti ai quali non piaccio: è un mondo nel quale non è che puoi piacere a tutti, e io non piaccio a tutti i giornalisti. Non sono una persona gradita nell’ambiente».

Parliamo allora, ancora, dell’asado

Definire l'asado come la grigliata tipica argentina è riduttivo oltre che, forse, fuorviante. C’è una marcata linea di continuità che lega la figura dell’asador, del parrillero, al calciatore. Entrambi sono responsabili dell’euforia ecumenica, della festa, attori principali di un pretesto per quella che Borges definiva la conversada amistad tra persone che condividono un momento, un’emozione.

Il ruolo dell’asador, come quello del calciatore, è un ruolo importante quanto infame: da lui dipendono gli esiti del Rito Collettivo, a lui si rivolgono improperi e si muovono appunti, rimproveri, suggerimenti. Ma soprattutto è un compito, entrambi lo sono, che richiede una vocazione, e al quale ci si deve dedicare con rigore e dedizione.

«Come faccio a spiegare al mio macellaio quali tagli deve darmi per fare l’asado?» chiedo a Ezequiel. «Ci mettiamo in contatto, faccio chiamare il tuo macellaio da mio padre. Oppure al massimo te li porta direttamente lui a casa tua». Ti aspetto, Néstor.

Grande mi viejo, asadito en casa y despues pileta Grande mío papa, grigliata argentina e dopo piscina ✌️

Una foto pubblicata da Ezequiel Schelotto (@officialgalgo) in data: 27 Dic 2014 alle ore 08:59 PST

La differenza tra l’asador e il calciatore, se vogliamo, è che se per il primo c’è una forma di tacito rispetto—dice Ezequiel che «non gli puoi dire niente quando inizia a mettere le mani sulla brace, sulla carne, non puoi dargli fastidio»—, un rispetto che porta amici e familiari a non avvicinarsi, a restare distanti mentre ridono e scherzano, a non disturbarlo durante le lunghe incombenze della parilla, che assolve in totale solitudine, il calciatore al contrario è sempre al centro della critica, è sempre esposto. Ma nondimeno, in ultima istanza, è come ogni altro uomo impegnato in una sfida: è solo.

Al termine dell’asado all’asador viene tributato un applauso sincero: non sarebbe bello se anche il calcio fosse così, domando a Ezequiel, che nessuno ti disturba durante il tuo compito e alla fine solo applausi, non credi? «Sarebbe bello se i tifosi fossero come i partecipanti a un asado, sì; a volte invece si va oltre, ti dicono di tutto. Ma è l’atmosfera, è il calcio ed è così ovunque, non ci sono amicizie quando scendi in campo».

Una ricetta perfetta per l’asado, però, sembrerebbe non esistere. Quella di Ezequiel è questa: «Cinque chili di carne, quattro chili di donne e uno di bere e basta».

Dal dolce all’antipasto (sic)

«Bergamo è stata la piazza che mi ha rilanciato calcisticamente: è stato un po’ l’antipasto della mia carriera». Nel racconto di Ezequiel ogni consequenzialità logica, in termini culinari, è ormai saltata. Dal dolce di Cesena passiamo all’entrée di Bergamo. Ciononostante, in maniera coerente: un antipasto, per certi versi, amaro. Con la Dea, Schelotto arriva a dare, esternamente, l’immagine più limpida del calciatore che è; intimamente, invece, è la parentesi più oscura, quella in cui si riscopre l’uomo che non è.

«Te lo dico con sincerità, non mi pento di niente, perché non mi posso pentire di niente, ma a Bergamo sono rinato dopo tre mesi brutti che ho avuto per le tentazioni che ho avuto; è stata solo colpa mia, me ne sono reso conto un giorno che mi sono alzato e non avevo più vicino a me le persone che mi volevano bene. Non avevo gli abbracci di mia madre, le parole di mio padre. Non posso continuare a comportarmi così, mi sono detto. Ho sbagliato tantissimo, sbagliano tutti, ma Dio ci perdona; io ogni giorno prego e guardo al cielo e chiedo perdono perché non vuol dire che oggi ho fatto qualcosa di male, chiedo perdono anche quando non ho fatto niente. A Bergamo ho vissuto momenti importanti: la convocazione per l’Europeo (era inserito nella lista dei 30 poi scremata, e non rientrò nei 23 effettivamente convocati per Euro 2012, NdR), poi l’esordio in Nazionale: pensavo di essere arrivato, ed è stato il mio errore peggiore. Per quello ho capito che per il mio bene dovevo allontanarmi da persone che stavano con me solo perché ero un calciatore».

#nazionale #esordio #Italia #Inghilterra #2013

Una foto pubblicata da Ezequiel Schelotto (@officialgalgo) in data: 17 Gen 2014 alle ore 01:49 PST

15 Agosto 2012, l’Italia affronta in amichevole a Berna l’Inghilterra, ed Ezequiel esordisce con la maglia azzurra.

A proposito di Italia, e di oriundi

«Rispetto ogni pensiero, ogni punto di vista: ognuno la pensa come vuole, io la penso diversamente da Mancini. Non li chiamo oriundi, li chiamo giocatori della Nazionale. Uno quando indossa quella maglia—stiamo parlando di una Nazionale tra le più importanti al mondo—, quando la indossi non ti puoi tirare indietro: rappresenti una nazione, sessanta milioni di italiani. Per me fa bene Conte a tenere tutti in osservazione: se uno ha voglia e la mentalità giusta perché non convocarlo? Se è un giocatore bravo che ti può dare una mano: che cosa c’è di male? Lo fanno tutti».

«Io ho fatto due anni e mezzo con le Nazionali giovanili. In Argentina se ci sono quattro o cinque ragazzi bravi li portano in prima squadra, gli danno la possibilità di esordire. Invece purtroppo il calcio italiano è fatto così, ai giovani non viene data neppure una chance: se guardi le grandi squadre, ma anche quelle medie, nelle rose ci sono pochi italiani: per quello il doppio passaporto è una risorsa. Io sono a favore, ma non perché ho il doppio passaporto: perché credo sia intelligente fare così».

Ma se Batista non lo avesse escluso dalla Sub20 con la quale era in procinto di disputare, nel 2009, il Sudamericano in Venezuela? «Sono sincero, non mi sarebbe dispiaciuto giocare nell’Argentina: ma lì mi hanno chiuso le porte, mentre l’Italia dal primo giorno che sono arrivato mi ha spalancato le braccia. Dopo un anno e mezzo che ero qua mi chiama Casiraghi, io neppure sapevo chi fosse Casiraghi, mi chiama per telefono e mi dice: "Sono il mister dell’Under-21, vorrei che mi dessi una mano, so che hai il doppio passaporto". Sai che ho fatto io? Non ci ho pensato neppure un minuto, gli ho detto: "Tranquillo mister, vengo subito e ti do una mano", tranquillamente, fino alla fine».

Se Milano fosse un piatto sarebbe il sushi?

Un po’ di tempo fa ho letto un’intervista che un giornalista dell’Eco di Bergamo ha fatto a Ezequiel poche settimane dopo il suo arrivo a Milano, sponda nerazzurra, nel gennaio del 2013. Gli chiedeva: «E nella vita privata ti sei dato una calmata?». L’ho trovata un po’ offensiva, come domanda, e provato compassione per Schelotto quando risponde: «Non so cosa abbiano detto in giro, ma molte cose non sono vere».

Il giocatore che arriva a Milano doveva essere molto diverso dal ragazzo con il quale sono al telefono da quasi un’ora, che sembra quasi soffrire al ricordo dell’avventura con l’Inter. Un’avventura della quale, a memento del quarto d’ora di celebrità warholiano, tutti ricordano soprattutto il gol nel derby del 24 febbraio.

«Mi è capitato di arrivare in una squadra con grandi campioni, dopo il triplete tutti volevano continuare a vincere e invece c’era un allenatore giovane (Stramaccioni, NdR), le cose non andavano bene, a volte si vedeva anche in campo; tutti si ricordano solo del gol nel derby, un gol pesante, certo, ma mi sarebbe piaciuto continuare a giocare lì; purtroppo però non ho avuto la possibilità che hanno avuto altri. È arrivato un nuovo allenatore (Mazzarri, NdR), che aveva le sue idee e che purtroppo a me, sinceramente, non ha dato neppure un minuto per dimostrargli che potevo giocare lì».

«Poi il campo parla e in campo si vede chi aveva ragione e chi no: io sono orgoglioso e contento di quello che ho fatto, magari se mi avessero dato una possibilità magari avrei fatto meglio, o peggio, almeno una possibilità però me la sarei meritata».

Gli chiedo se a questo punto, visto che stiamo paragonando ogni sosta a un piatto, Milano non sia da accostare al classico Sushi Internazionale, che te lo aspetti sempre impeccabile e buonissimo e invece, spesso, delude le aspettative. Fa una smorfia di cui al telefono mi arriva un suono difficile da interpretare.

Se non fosse stato l’unico gol di Schelotto con l’Inter, forse lo ricorderemmo come l’ennesimo svarione difensivo di Philippe Mexès, piuttosto.

Parma - Banfield A/R

«In Emilia Romagna mi sono trovato proprio bene, più di tutti a Parma, dove ho avuto quella possibilità di qualificarmi per l’Europa League; poi il resto, quello che è venuto dopo, è tristissimo. È stato come uno schiaffo in testa, una secchiata d’acqua piena di ghiaccio che non riesci a schivare: ti dicono che tutto quello che hai fatto non è servito a niente».

A Parma, ancor più che a Bergamo, Schelotto è sbocciato. Mi confessa che sono stati gli anni più belli della sua vita, se non calcisticamente da un punto di vista privato. «Quell’anno mi sono sposato, a Cernobbio in comune, perché ho una casa a Cernobbio, e poi sono andato in Argentina e mi sono sposato in chiesa».

Cassano in grande spolvero, Amauri che segna a San Siro di tacco, Schelotto imprendibile. Era l’AC Parma di neppure un anno fa.

In quelle settimane, quelle in cui Ezequiel coronava il suo sogno d’amore nella terra natia, il Banfield tornava nella massima serie argentina. «Ero allo stadio il giorno della promozione, quando il Banfield è salito. Sono andato perché ho molti amici tra i tifosi, e compagni che ancora giocano lì. Almeyda l’avevo incontrato qualche mese prima, a Banfield, ero andato al campo e mi aveva detto: "Ma non ti andrebbe di venirmi a dare una mano?" Gli ho risposto: "Ma vedrai che hai una grande squadra, anche senza di me, e salirete presto in Serie A"». Dev’essere stato davvero molto felice, quel giorno, sulle tribune del Florencio Sola.

Verona = Amarone

«A Verona quest’anno le cose stanno andando bene. Qua la gente ha capito il mio modo di essere, all’inizio era normale che non mi conoscessero; dopo l’infortunio alla caviglia che mi ha tenuto fermo tre mesi sono stato in difficoltà, dovevo fare la preparazione in fretta, non riuscivo a esprimermi bene, ma ora sono più sereno. Maran mi sta dando fiducia, mi ha messo in un ruolo in cui non pensavo di poter giocare, quello di terzino; però lui dice che in quel ruolo ce ne sono pochi, come me, e che mi posso riconquistare grandi palcoscenici giocando così, la Nazionale; e siccome lo rispetto molto, gli do ascolto».

Gli chiedo se questo arretramento sulla linea dei difensori, per lui che è sempre stato un terminale offensivo, abituato a essere al centro della manovra, non coincida con un atto di umiltà, simile a quello del cuoco che a differenza dello chef abituato alla luce della ribalta arriva a convincersi che il vero lavoro è quello di brigata, nelle retrovie. «È un paragone chiaro, preciso, dici bene. Mi è capitato di giocare in questo ruolo, pensavo davvero di non farcela, ma forse è il più adatto per le mie caratteristiche: Maran me lo dice sempre, te arrivando senza palla ti puoi portare via tutti».

Aggiunge: «Se il Chievo fosse un vino sarebbe l’Amarone, perché mi piace tantissimo: quasi meglio della Quilmes, in accompagnamento all’asado».

Minuto 3:14: Ezequiel riceve palla sulla sua trequarti e si invola verso la porta avversaria, poi l’inquadratura stacca su Maran: in realtà la progressione di Schelotto lo porterà al limite dell’area dell’Hellas, da lì crosserà per un compagno, che fallirà l’occasione del 3-2.

In conclusione, delle domande a risposta chiusa

Bilardista o Menottista, Ezequiel?

«Bilardista!». Devo confessare che non me l’aspettavo.

Boca o River?

«Banfield, ma tutta la vita».

Piadina o empanada?

«Empanada». Ma come, Ezequiel? Tutto l’amore per l’Emilia Romagna tradito per un’empanada? «Se ti metto davanti una piadina e un’empanada tu che scegli?». Touché.

Messi o Maradona?

«Messi». Però cincischia un attimo, ci ripensa subito. «No, no aspetta no. Maradona. Prendo Maradona, ma per un motivo: Messi ormai ha superato tutti i record, è il più grande in tutti i sensi, però scelgo Maradona perché era fantastico. Mi guardavo le cassette quando ero piccolo, chiedevo a mio padre proprio di andarmi a comprare le cassette. Io non ero ancora nato, in quel periodo lì non è che avevi l’iPad o il pc: allora guardavo le cassette, e c’erano tre ore della prima parte della carriera di Maradona: voglio dire, avevo cinque cassette, ognuna di tre ore su Maradona. Era fantastico. Come calciatore, ovviamente, dico».

Mate o fernando (che è la bibita tipicamente argentina, ottenuta da una miscela di fernet—due dita—ghiaccio—due cubetti—e coca-cola)?

«Fernando! Il mate lo bevo tutti i giorni, ma il fernando mi piace di più. E sai come dovresti farlo? Ti svelo un segreto. Prendi una bottiglia vuota di coca-cola di plastica, la tagli a tre quarti, togli la parte di sopra, la riempi di fernet, coca e ghiaccio e te la porti in macchina quando vai a ballare o quando devi fare un viaggio lungo. Lo chiamano fernando viajero».

Quando ci salutiamo, con Ezequiel, e chiudo la chiamata, ho la tentazione di tagliare una bottiglia di Coca a tre quarti e riempirla di fernet. Il pomeriggio è ancora lungo, e l’intervista non si scrive mica da sola, su questo terrazzo assolato.

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