Così come Roma non è stata costruita in un giorno, anche il processo di conquista della difesa giallorossa da parte di Federico Fazio si è dipanato nell’arco di un intero girone: è partita da Firenze, dove è sceso per la prima volta in campo da titolare, ed è culminata nel primo gol in Serie A, proprio contro i Viola, nella gara di ritorno.
A poco più di quattro mesi dal suo arrivo in sordina in Italia, Fazio è diventato la pietra angolare del pacchetto arretrato della Roma, protagonista principale della rivoluzionedi velluto della difesa giallorossa, per nulla traumatica, anzi, rasserenante. Ma non per questo meno rivoluzionaria: la difesa a 3, la costruzione dal basso che non dipende più solo dal playmaker ma dai difensori, la capacità di chiudersi e respingere gli attacchi avversari con una solidità - e una tranquillità - inedita negli ultimi anni. Come sempre non può essere merito solo di un giocatore, ma di certo è merito anche di Federico Fazio.
Non è un caso che si sia guadagnato in così poco tempo l’epiteto di “Comandante” all’interno di un contesto, cittadino e più specificamente di squadra, solitamente non incline a concedere con facilità - e rapidità - gradi e galloni.
Prima che Comandante, Fazio è stato - ed è - “La Torre” o “El Flaco”: è stata principalmente la fisicità a connotarlo. La prima impressione che ho, quando entra nella stanza di Trigoria in cui lo sto aspettando per l’intervista, abbassando leggermente la testa per non sbattere contro lo stipite, è che abbia la capacità intrinseca di ridefinire, conferendogli una nuova dimensione, ciò che lo circonda. Tutto ciò che lo circonda - persone, cose, architetture - sono in una scala diversa dal solito vicine a Fazio.
Ecco un esempio tratto dal campo di calcio, uno dei numerosi “Momenti Fazio” (giocate perfette per tributi fondati sullo slancio emozionale, e utilizzabili per successivi derby come meme motivazionali) di questi ultimi mesi: un frammento illuminante di 4 secondi del derby dello scorso dicembre.
Prima amministra un retropassaggio di Emerson Palmieri con tranquillità, poi elude il pressing di Felipe Anderson con qualcosa a metà tra una ruleta e un paso doble tanguero e imposta l’azione.
In Argentina si dice che “el tango se baila de a dos, o no es tango”: il tango, per essere considerato tale, deve ballarsi in coppia. Fazio è arrivato con l’etichetta di giocatore statuario ma lento, avvolto nei cliché che riconosciamo propri di difensori della sua conformazione fisica (scarsa tecnica), ma si libera di Anderson, la cui presenza è fondamentale perché in quel momento rappresenta tutti gli attaccanti rapidi potenzialmente letali per giocatori come Fazio, non solo con tranquillità, ma con una dimostrazione di grande tecnica.
In questa occasione è Felipe Anderson a rimpicciolirsi all’ombra di Fazio. Inutile dire della portata mitica di un gesto del genere all’interno di una stracittadina.
L’arte della copertura reciproca
Federico Fazio ha collezionato 23 presenze in Serie A (29 stagionali aggiungendo Coppa Italia, Europa League e 13 minuti scarsi nei preliminari di Champions League), è stato riscattato dalla Roma e proffonde una sensazione generale, per dirla come la direbbero in Argentina, di buena onda, che è qualcosa di simile al romano presa bene.
Quando gli faccio notare che finalmente può dire a Mariano - suo fratello, che gioca con il Ciampino ed ha fatto gol all’esordio - che non è più l’unico Fazio ad aver segnato in campionato, ride in maniera davvero divertita.
La felicità è sempre figlia dei contesti, e quando è condivisa è come più rilucente: anche se tendiamo spesso a elevare l’individualità, il calcio è un gioco di squadra, e gli ingranaggi funzionano meglio quando anche le teste viaggiano in simbiosi: «Non sono stato solo io a crescere dalla gara d’andata contro la Fiorentina a oggi, ma tutta la squadra, e in molti aspetti: se i giocatori crescono individualmente anche la squadra diventa più unita, acquisiamo più sicurezza e fiducia l’uno nell’altro».
Gli ricordo la frase di Emerson Palmieri, che ha dichiarato di sentirsi più tranquillo quando vede che al centro della difesa c’è lui, e gli chiedo se quella tranquillità casomai non derivi dal fatto di giocare spalleggiato da due centrali molto atletici e rapidi come Manolas e Rüdiger. «Non è solo per Manolas o Rüdiger, ma è soprattutto merito del centrocampo, specie se giocano De Rossi e Strootman. La verità è che siamo tutti in grande forma, e questo permette a ognuno di migliorarsi».
Nella sua interpretazione del gioco difensivo - ed è un punto che risulterà evidente per tutto il corso dell’intervista - il ruolo di schermatura del centrocampo è fondamentale. Non è un caso che le principali difficoltà vissute da Federico in Premier League, con il Tottenham, derivassero da situazioni in cui i colleghi della mediana lasciavano la difesa esposta, creando voragini vertiginose di fronte alla linea difensiva.
Sembra che il posto di centrale sia suo da sempre, per la tranquillità con cui lo ricopre. Gli chiedo allora se preferisce giocare in una difesa a tre o a quattro.
«Mi trovo molto bene con la difesa a tre», dice, «o anche con quella a quattro che diventa a tre in fase di possesso: il mister sa sempre qual è il modulo migliore, o più giusto, con cui schierarci anche in base agli avversari».
Ancora: «Non ho una posizione preferita: al centro mi trovo bene, ma per esempio contro il Milan o la Lazio ho giocato centrale di sinistra, e anche con l’Inter o il Napoli laterale». Il polimorfismo di Spalletti sembra andargli congeniale: l’aspetto che sottolinea più spesso, mettendo ogni volta le mani di fronte a sé come chi ti sta consegnando un regalo, è la totale malleabilità alle volontà dell’allenatore.
Con un giovanissimo Gonzalo Higuaín, rivali in Argentina, quando erano ancora in 2D.
«Io giocherei ovunque».
Nel corso della sua formazione calcistica, Fazio ha ricoperto tutti i ruoli della spina dorsale di una squadra: ha giocato da centrale difensivo, da cinco (centrocampista di manovra), da centravanti. «Sapere come si imposta il gioco, la tecnica che ci vuole per fare il cinco, è importante nei compiti di una difesa a tre», dice. «Ma io giocherei ovunque, pur di giocare».
In una delle poche interviste lunghe che ha rilasciato, a El Gráfico, che risale a quasi dieci anni fa, Fazio raccontava i suoi primi momenti in campo con il Sevilla Atlético, la seconda squadra del Siviglia. «Hanno visto che avevo una buona conduzione di palla nell’uscita, che rischiavo molto nella proposizione di gioco e mi hanno messo a centrocampo», diceva.
«Non ci capivo niente, correvo molto più di quanto facessi da difensore, ma mi ha cambiato la visione di gioco, l’approccio anticipato alla manovra».
Giocare in quella posizione, oltre che aprirgli la mente in termini tattici, è servita per affinare la tecnica.
Fazio sembra sapersi adattare con perizia: dà l’impressione di conoscere il tatto e la cura che ci vuole per calarsi in scenari diversi: ha un pragmatismo molto “europeo”, che forse deriva dall’aver abbandonato presto l’Argentina. Quando è sbarcato a Siviglia aveva 19 anni: l’Europa è la sua terra adottiva, ed elettiva.
La sua prima da titolare è stata nella Supercopa de España, al Bernabeu, contro il Real di Raul e Van Nisterlrooy: «Ho guardato lo stadio e ho avuto l’impressione che mi cadesse addosso», dice. Nove mesi prima, faceva due ore di colectivo per andarsi ad allenare a Pontevedra con il Ferrocarril Oeste.
Gli chiedo come sia stato il processo di adattamento alla Serie A, e a Roma.
«La Serie A è molto simile alla Liga, si gioca un calcio molto tattico, che mi piace abbastanza; ma forse è stato più facile per me, perché sono stato avvantaggiato dal tipo di vita che si vive a Roma, dalla cultura; l’Italia per noi argentini è come casa, sono Paesi con caratteristiche molto simili, condividiamo le stesse radici. Roma poi somiglia molto a Siviglia, mia moglie dice che le trova uguali anche se con le dovute proporzioni, ma anche a Buenos Aires: sono città molto futboleras, in cui si vive con grande attaccamento al gioco, anche se poi non saprei dirti bene com’è giocare a Buenos Aires, ho sempre giocato in Segunda e non è proprio lo stesso che giocare in un club grande».
Se c’è un rammarico che mi è sembrato di poter cogliere dalle sue parole, è stato quello di non aver avuto la possibilità di provarsi ad alti livelli in patria. Dopo la prima travolgente stagione da titolare col Ferro, in Segunda, lo cercavano Lanús, Independiente e River Plate: invece arrivò l’interesse di Monchi e Federico scelse Siviglia, che in quel momento lottava per la Liga ed era reduce dalla vittoria dell’Europa League.
Un anticipo seguito da una proiezione offensiva visti dalla curva dell’Etcheverri, ai tempi del Ferrocarril Oeste.
Più o meno seguendo la stessa dinamica, due anni più tardi sarebbe arrivato a Siviglia anche Diego Perotti. Gli chiedo quanto peso specifico abbia avuto la presenza dell’ex compagno di squadra e connazionale nella decisione di scegliere Roma. «Ero venuto già a trovarlo a marzo scorso», mi racconta, «era qua da un mese soltanto ma si trovava già molto bene; sono venuto a vederlo a Trigoria, agli allenamenti, Roma mi ha colpito da subito e quando è uscita fuori la possibilità di venire qua è stato facile accettare».
Che ragazzini.
Si dice che tutte le strade portino a Roma: Fazio ne aveva due aperte, perché oltre Diego c’era anche Spalletti, che lo aveva già cercato nel 2015 per portarlo allo Zenit, quando era chiaro che l’esperienza al Tottenham non avrebbe avuto un grande seguito.
«In effetti c’è più di una casualità…», riflette. Gli suggerisco che due indizi sono una coincidenza, ma se ce ne fosse un terzo allora sarebbe una prova. «A Roma ero già venuto anche sette anni fa con Diego… Poi lui ci è venuto a giocare, e quando sono venuto a trovarlo, quel fine settimana proprio qua a Roma ho chiesto a mia moglie di sposarmi».
Il Paese che ti merita
Con Perotti, Fazio condivide anche un destino decisamente avverso in quanto a rapporti con la camiseta albiceleste.
Entrambi in una maniera o nell’altra nei piani di Maradona, entrambi convocati da Batista per una serie di amichevoli di preparazione alla Copa América 2011, insieme hanno totalizzato la miseria di 300 minuti in campo (225’ Fazio, addirittura solo 75’ Perotti). Eppure una figura come quella di Fazio avrebbe fatto molto comodo alle recenti difese della Selección.
«Sì… no… qué sé yo, sono cose che succedono» dice. Quella del tentennamento è una grammatica che conosciamo tutti: è solo quando ci sforziamo di essere sinceri che ci viene da alternare dei sì, dei no, dei non saprei. Si capisce che non è un argomento che lo mette a disagio, ma al contempo si percepisce il rammarico per non essersi potuto giocare le sue carte. «Ci sono allenatori che hanno i propri giocatori preferiti, che li conoscono per averli già seguiti nelle loro squadre, ci sono molti casi che possono influire».
A ridosso del Mondiale del 2014 ha avuto una specie di beef con Sabella. Disse: «Comincio a dubitare che mi chiami: sono regolarmente tra i titolari a Siviglia, riconosciuto in Spagna, mi sento in forma, mi piacerebbe avere almeno una chance, ma da quando c’è Sabella questa chance non è mai arrivata». Quando divenne chiaro che non avrebbe fatto parte della spedizione disse di averla presa come «una mancanza di rispetto».
Insisto un po’: ma non è almeno strano essere stato così completamente dimenticato? (Anche se Bauza lo sta tenendo sotto controllo, ed era all’Olimpico per la gara contro la Fiorentina). Al terzo utilizzo dell’aggettivo raro la risata è più un gesto di resa, come a voler suggerire che sì, sembra strano anche a lui, alla fine. Ma da cosa può dipendere?
«Magari adesso non tanto, dopo dieci anni di carriera finisci per essere più conosciuto, ma prima forse venivo dalla Segunda, non sono passato per un club importante in Argentina, magari la gente non aveva avuto modo di conoscermi davvero…».
Ma ci crede ancora? «Mi dispiace non aver avuto l’opportunità di dimostrare il mio valore. Ci sono molte partite, eliminatorie, amichevoli, mondiali: forse però uno vuole avere il suo gruppo ben formato. Anche se se stai facendo le cose per bene un premio, insomma fa sempre piacere ricevere un riconoscimento al lavoro che stai facendo…».
Poi aggiunge: «L’importante è sempre guardare al futuro, per la Nazionale… chissà, pure per quella italiana».
La risata con cui accompagna quest’ultima frase, con in più una strizzata d’occhio, dovrebbero restituire il senso di battuta; ma dopotutto Fazio non ha giocato nessuna partita ufficiale con l’Argentina, il nonno era italiano e i criteri di eleggibilità sembrano davvero esserci tutti.
Chissà se Ventura ci ha mai pensato.
Una delle pochissime occasioni in cui ha vestito la Albiceleste. Qué lástima.
Studiare i “classici”
Uno dei suoi primi modelli è stato Walter Samuel. Anche e soprattutto perché troneggiava al centro della difesa Albiceleste. Quando gli faccio notare quanto sostanzialmente fossero giocatori molto diversi, preferisce mettere l’accento sul carattere etereo dell’idolo: «In quegli anni, al Mondiale del 2002, quando lo seguivo, anche qua a Roma e prima nel Boca, di cui ero tifoso, pensa che in quel periodo neppure giocavo come difensore. Però aveva un modo di essere leader, Samuel… Non era tanto il suo ruolo in campo, che mi attraeva, ma il ruolo nella squadra, da leader».
«Mi piaceva per la stessa ragione pure Batistuta, per dire», aggiunge con un po’ di piaggeria romanista, forse. O forse Roma è stata fortunata ad avere in squadra due idoli assoluti per i giovani argentini.
Mi incuriosisce sapere quanto spazio occupi il calcio al di fuori della sua quotidianità professionale, oltre gli impegni del campo. E mi trovo, con un po’ di sorpresa, di fronte a una figura a metà strada tra il nerd e lo studioso vero e proprio. «Mi piace vedere molte partite, di quelle vecchie, le squadre enormi, giocatori e nazionali e stili di gioco di altre epoche, mi piace molto. L’Olanda del ’74, il Milan di Sacchi: mi guardo i video su YouTube e cerco di capire come si sia sviluppato, evoluto il gioco. Guardo anche le giocate dei singoli, Zidane, Ronaldinho, ma mi affascina di più vedere com’è cambiato il calcio. La mia preferita è Italia-Brasile, la finale del ’94: rende bene l’idea di come il calcio non sia qualcosa di statico, ma un concetto in costante evoluzione».
E che ne pensa, di questa evoluzione? «Oggi il calcio è sempre più fisico: ci si allena in maniera diversa, ma soprattutto si preparano giocatori pronti a correre per 90 minuti senza stancarsi. È un gioco sbilanciato sulla parte atletica».
Poco prima avevamo parlato di Riquelme: quando è arrivato a Roma, nelle prime interviste aveva descritto “El Mudo” come il suo idolo. Dieci anni prima, all’arrivo a Siviglia, alla stessa domanda aveva risposto con il nome di Maradona.
Quando gli faccio notare che forse questo calcio è diventato qualcosa di diverso da quello in cui Riquelme sapeva eccellere, mi risponde «ma lui avrebbe saputo dire la sua anche in questo, di calcio».
Uno degli aspetti che sottolinea più volte è l’orgoglio per aver fatto parte della stessa squadra di Riquelme. Nella fattispecie, quella Olimpica che vinse l’oro a Pechino. C’erano anche Messi e Mascherano.
Ancora Fazio su Riquelme: «Ho giocato con lui più volte, mi guardo spesso le sue partite, come quando ero piccolo, lo guardavo lo guardavo e non mi stancavo mai. La partita contro il Real Madrid! Il suo manifesto. C’erano giocate, nella sua testa, che nessun altro sapeva vedere. Anche in questo calcio si sarebbe potuto adattare: perché aveva una visione totale del gioco, e la capacità, in un secondo, di cambiare una partita».
La Premier League è noiosa
A questo punto dell’intervista è chiaro che tipo di calciofilo sia Federico Fazio, e non è esattamente quello che mi sarei aspettato. Al dolore del ritorno, che è poi l’etimologia corretta della parola nostalgia, preferisce il progresso. L’evoluzione. Oltre il passatismo, ma anche oltre la faciloneria dei luoghi comuni.
Della Premier League, della sua breve e tutto sommato infruttuosa parentesi al Tottenham, non parla spesso. Accettare Londra è stata una sfida: i migliori centrali difensivi argentini dell’ultimo ventennio si sono fatti onore in Spagna o in Italia, mai nel Regno Unito. Gli chiedo cosa l’abbia spinto a mettersi alla prova in Premier League.
«Mi è sempre sembrato un campionato vistoso», risponde. «La guardavo in tv: l’ambiente mi attraeva molto, l’atmosfera. E poi il fatto che ci fosse un ct argentino (Pochettino era appunto appena stato nominato ct degli Spurs) è stato un incentivo per scegliere il Tottenham quando ho deciso di cambiare club».
El Kun Agüero preparò per Fazio, al suo esordio in Premier League, una specie di cesto della frutta di quelli che si regalano ai nuovi arrivati, ma pieno di frutta marcia. Fallo da rigore ed espulsione.
«Il primo anno ho giocato 33 partite, mi sentivo bene. Non al livello top, però insomma. Poi, dopo dieci anni di carriera, per la prima volta già prima dell’inizio della nuova stagione (quella 2015-16, NdA) sapevo che non avrei giocato mai, perché mi hanno comunicato che non rientravo nei loro piani».
Gli chiedo se è riuscito a capire cosa possa essere successo. «Non lo so», risponde, ma ne avrete parlato, incalzo: «Non ti dicono mai la verità, o qual è il problema, o perché vogliono cambiare. Non si sa mai». Gli chiedo se pensa possa essere dipeso da Pochettino, o dalla società. Ci pensa un po’, riflette. Un’idea se la sarà fatta senz’altro, ma non me la dice. «In ogni caso quando me l’hanno comunicato c’era ormai troppo poco tempo per cercare un’altra squadra, ad agosto ormai sono tutti quasi già organizzati, è più difficile. Sapevo solo che mi sarei dovuto fermare sei mesi, senza giocare. Pensavo spesso alla prima stagione».
Perché paradossalmente l’anno più duro è stato il secondo. «Ambientarsi alla Premier League è più difficile: si gioca un calcio molto diverso da tutti gli altri. Ci sono più 1 contro 1, più ribaltamenti di fronte, molti più spazi, meno tattica, molta poca tattica. Anzi, diciamo che non ci si lavora proprio sulla tattica. È tutta questione di fisicità. La squadra deve prima di tutto star bene fisicamente, la differenza poi la fa quello che un giocatore sa fare di per sé, il suo livello tecnico. La verità è che tutte le partite si giocano allo stesso modo, non si studia il rivale: ogni squadra ha il suo stile e rispetta solo quello, senza troppa attenzione al resto, senza cambiare mai».
E qui, Fazio, arriva al punto: «È divertente vedere le partite, ma solo per il tifoso, per gli spettatori che sono sugli spalti, per le occasioni da gol… Ma è sempre la stessa cosa. Non c’è tattica, non c’è pianificazione». E ancora: «Praticamente il centrocampo non esiste: stai attaccando, termina l’azione e già stanno attaccando te». Un tipo di gioco che non corrisponde alle sue ambizioni come giocatore: «È un po’ noiosa, per un calciatore. Non hai margine di crescita, non impari a studiare, fai sempre le stesse cose. Non cambi posizione, non apprendi nulla tatticamente».
La dimensione di Fazio
Silenziosamente - a Roma, città non abituata ad apprezzare le persone silenziose - Fazio ha iniziato a mostrare le sue doti di leadership (o di liderazgo, se preferite). Javi Navarro ha raccontato che ai tempi del Siviglia nello spogliatoio era il più guardingo: «Guardava e analizzava tutto».
Fazio ha ben chiaro, dopo una carriera in cui nel giro di sette anni è diventato il decano dello spogliatoio del Siviglia, cosa serva per essere un leader: «Bisogna avere ambizione, e poi consapevolezza. Fare tesoro delle cose che ti capitano. Aiuta certo anche aver giocato, in carriera, con altri leader: capire qual è il loro ruolo, apprendere quanto più puoi. Poi in realtà è qualcosa che devi avere dentro: non ci si sveglia la mattina dicendo voglio essere un leader, e quando sei giovane devi osservare e capire chi è che comanda, apprendere da lui, seguirne i consigli».
L’ambizione è il motore principale della sua visione del mondo. Quando gli chiedo le prime tre cose a cui pensa quando si alza, risponde con una soltanto: «Energia. Come averla e in che modo canalizzarla. E poi come fare per poterla avere tutto il giorno, per sfruttare le occasioni che ti capitano e superare quel che c’è da fare».
Fazio non è un personaggio barocco, non si perde in rivoli, sfumature, sottigliezze: il suo pensiero, come se fosse conformato alla stregua della sua fisicità, è un blocco monolitico. È semplice, ma non semplicistico. Quando gli chiedo, prima di salutarci, quale sia il suo punto di riferimento fuori dal calcio, mi dà una risposta sorprendente. Ci riflette sopra un bel po’, poi dice: «Mio fratello più piccolo, che ha dodici anni».
Ma Federico Fazio è esattamente questo: ambizioso ma anche timido, raffinato studioso e difensore roccioso, privo di fronzoli ma anche incline alla bellezza del gesto tecnico, con due idoli agli antipodi come Riquelme e un fratello di dodici anni. L’impressione avuta all’inizio dell’intervista, vedendolo entrare nella stanza, viene rafforzata dalle sue parole: Federico Fazio ci costringe davvero a rivedere i nostri rapporti di peso abituali, le dimensioni delle cose che lo circondano; che siano avversari, compagni, il nostro modo di pensare calcio.