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Fenomenologia di Joel Embiid
07 nov 2016
#TrustTheProcess.
(articolo)
15 min
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«Prima domanda: hai mai messo in dubbio la natura della tua realtà?» domanda il Dr. Bernard Lowe a Dolores. Siamo dentro i laboratori fantascientifici di Westworld. Sullo schermo scivolano le immagini di Joel Embiid che schiaccia in testa al suo allenatore dopo una rapidissima virata. «Alcune persone scelgono di vedere gli orrori nel mondo. La confusione. Io ho scelto di vedere la bellezza» risponde Dolores. Il riferimento va ovviamente a Sam Hinkie e alla sua meravigliosa utopia. Così come Westworld, anche l’organizzazione dei Philadelphia 76ers è andata contro le regole, radendo al suolo tutto ciò che esisteva prima e rifondando da zero un mondo dominato dal caos, al quale, a poco a poco, si cerca di restituire senso. A tracciare la linea guida per attraversare il labirinto dalle rovine fino al Larry O’Brien Trophy era stato incaricato Hinkie, novello Boullée, che però non ha mai visto terminata la sua opera.

La sera dell’ultimo Draft, in cui i Sixers detenevano la prima chiamata assoluta a vent’anni da Allen Iverson, un sognatore ha esposto un cartellone che recitava le seguenti parole: Hinkie Died For Our Sins. Il General Manager si era immolato solo un paio di mesi prima, dopo che la proprietà aveva deciso di affiancargli la famiglia Colangelo al completo con un gesto di cortesia mafiosa. All’ennesima testa di Elton Brand trovata nel letto Hinkie non c’ha visto più, ha scritto una lettera di tredici pagine e se n’è andato a fare snowboarding a Palo Alto.

#HeDied4OurSins

La sua legacy però non è andata perduta. Se Philadelphia, dopo aver vinto 28 partite in due anni, si presenta all’inizio di questa stagione risalendo i ranking dell’hype, lo deve innanzitutto alla lucida follia con la quale ha accumulato scelte al Draft come un bambino caramelle la notte di Ognissanti. Una di queste si è materializzata in Joel Embiid, chiamato con terza scelta assoluta nel lontano Draft del 2014 dopo i nomi Andrew Wiggins e Jabari Parker.

Quando Adam Silver pronuncia il suo nome, Joel non è nella Green Room del Barclays Center di Brooklyn, ma è rimasto a casa per curare la frattura da stress all’osso navicolare che lo ha costretto a saltare tutti gli allenamenti privati con le franchigie. Inquadrato dalle telecamere di ESPN Embiid inizialmente non reagisce e Jalen Rose fuori inquadratura consiglia che qualcuno gli dia del caffè. La regia imbarazzata passa direttamente alle clip che illustrano il furioso potenziale mostrato a tratti nelle sue 28 partite a Kansas, un’esplosione di talento condensata in un corpo longilineo che tende verso il cielo. Jay Bilas la tocca subito piano paragonandolo ad Hakeem Olajuwon e sciorina una lista di cose che può fare in un campo di basket più lunga del verso di KDot in “Control”. Viene pronunciato per la prima volta il nome di Tim Duncan non invano, tutti fanno a gara per dire che è un talento come ne passa uno a decennio, che se non si fosse infortunato due volte, prima alla schiena poi al piede, sarebbe stata la prima scelta assoluta per acclamazione popolare.

Embiid è la reificazione della visione di Hinkie, per Kevin O’Connor su The Ringer è l’incarnazione stessa del #TrustTheProcess, un’incrollabile fiducia verso il futuro e verso il meccanismo perverso del tanking. Una scientifica rinuncia alla competizione in cambio di una bulimica collezione di scelte al Draft, spesso e volentieri spese su giocatori futuribili o da lasciare a maturare oltreoceano, nella convinzione che ad un certo, indeterminato, momento tutto si incastri come un tetris telecomandato. Il pezzo da quattro verticale per chiudere la combo doveva essere proprio Embiid, il progetto più intrigante e allo stesso tempo il più fragile. Funestato da vari infortuni anche nel suo unico anno a Kansas, il camerunense aveva dimostrato nelle poche partite giocate di possedere un talento rivoluzionario, un talento che neanche lui sapeva di possedere realmente. La crescita dimostrata durante la stagione da freshman a Kansas è paragonabile a quella di un bambino che impara prima a gattonare, poi a camminare e infine a correre. E poi diventa Usain Bolt.

Alle radici del processo

Joel inizia a giocare a basket molto tardi. A 16 anni è ancora convinto che diventerà un grande giocatore di pallavolo (come vorrebbe il padre) o di calcio (come fa tutto il resto della nazione). Non gioca in porta, come la stazza lascerebbe presupporre, ma guida il centrocampo. I colleghi della sezione calcio lo definirebbero un centrocampista box-to-box. La grazia con la quale riesce a coordinare le sue infinite leve è stupefacente, la sua capacità di intuire e reagire al contesto viene definita dal suo allenatore creativa come quella di un pittore astratto.

Il primo ad accorgersi che il campo di terra non è il migliore dei mondi possibili per Embiid è Luc Mbah a Moute, il +1 del quintetto dei Clippers, che da anni organizza camp per i ragazzi nel suo paese d’origine. Nel momento stesso in cui Embiid mette piede in campo Mbah a Moute ha già prenotato un volo solo andata per gli States, precisamente per Montverde Academy, la powerhouse tra le powerhouses del basket liceale che anche lui ha frequentato. Embiid ha iniziato a giocare a basket da meno di due mesi.

Il salto dalla realtà africana alla supercompetitività a stelle e strisce è però troppo ruvido e Joel ha difficoltà ad inserirsi nell’affollato roster di Montverde. Decide quindi di trasferirsi a The Rock School, mancando il primo incontro con Ben Simmons che arriverà in Florida subito dopo. In un anno conquista le cinque stelle che marchiano i migliori prospetti liceali e sceglie di accettare la borsa offerta da Kansas e da Bill Self, convinto che resterà a Lawrence il tempo giusto per affinare il suo gioco, ancora molto acerbo e soft, come lui stesso lo definisce. Invece la sua crescita è inarrestabile e a ogni partita stupisce con qualcosa mai mostrato in precedenza. Di notte studia su YouTube le mosse di Hakeem Olajuwon (di cui aveva già ricevuto una cassetta quando era in Camerun), di giorno le replica incantando gli scout NBA che si innamorano perdutamente di lui come Nick Nolte quando incontra Shaq in Blue Chips. Nell’annata di Wiggins e Jabari, il numero uno è lui, un ragazzone africano che gioca a basket da neanche tre anni.

Le ultime partite con la maglia di Kansas sono vere e proprie dimostrazioni di superiorità

Quando la fiaba dell’anatroccolo che si leva gli occhiali da sciatore e diventa cigno sembra essersi avverata, ecco che cominciano i primi guai. Prima la schiena, che lo costringe a saltare la parte più calda della stagione a Kansas, compreso il torneo NCAA; poi la frattura dell’osso navicolare del piede destro proprio durante un workout con i Cleveland Cavaliers, che detenevano la prima chiamata. Gli viene appiccicata sopra la temibile etichetta dell’injury prone, e tanto la franchigia dell’Ohio quanto i Milwaukee Bucks decidono di non rischiare la fiches da un milione di dollari virando sulla sicurezza. Tutto gira a favore di Hinkie: ha davanti a sé un talento inimitabile, infortunato e che non potrà giocare almeno per il primo anno (*qui immaginatevi una emoji di Hinkie con gli occhi a cuore*). È una scommessa di quelle che gli americani definiscono high risk - high reward, ed è esattamente ciò che cercava. Anche nella lettera di dimissioni la scelta di prendere Embiid è l’unica che Il Fu General Manager spiega e difende, invitando i membri del consiglio a separare il processo dal risultato finale.

Così, dopo aver chiamato i nomi di Wiggins e Parker, Adam Silver sale sul palco e pronuncia quello di Joel Embiid, da Yaoundé, Camerun. Embiid in camera rimane congelato come Andreotti a Buona Domenica: c’è chi lo definisce un androide che è stato messo in sleeping mode, chi accusa il lag del satellite. Joele si trova per la prima volta nella condizione che simboleggerà i prossimi tre anni della sua vita. È in ritardo rispetto alle attese.

Shirley & Riri

Nell’esatto momento in cui Embiid diventava visibile a tutto il mondo e il suo talento si palesa nelle immagini incaricate in qualche modo di raccontarlo, Embiid scompare. Gli infortuni gli impediscono di allenarsi con la squadra, men che meno di scendere in campo e dare una mano ai Sixers che nel frattempo sono diventati la barzelletta della Lega. Una volta costruita un’attesa spasmodica, questa non prende mai forma - anzi diventa gassosa, inafferrabile. Nel frattempo diventa uno schermo sopra il quale i tifosi proiettano la loro filosofia di vita. Come uno Shirley Temple riempito a metà, c’è chi lo vede mezzo pieno e lo aspetta sulla copertina di NBA 2K20 e chi lo indica già tra le peggiori scelte di sempre al Draft.

Mentre i commentatori si dedicano all’antica quanto popolare arte del giudizio aprioristico, Embiid si trasforma in una Creatura dell’Internet. Non potendosi esprimere su un campo da basket estende il suo dominio sui social, dimostrando una grande capacità di sfruttare a suo vantaggio l’aria esotica. Cavalca il cliché del buon selvaggio, da principe africano che cerca moglie, giocando a non comprendere il funzionamento delle diavolerie tecnologiche del mondo occidentale. Embiid è probabilmente il più grande troll del mondo, un ruolo che ha glorificato con i famosi approcci a Rihanna, un chiodo fisso del centro dei 76ers, e il tentativo di recruiting via Twitter di LeBron culminata nella prima stoppata della sua carriera professionistica, molto prima di scendere in campo. O come quando ha cercato di convincere il web e lo spogliatoio di Kansas di aver ucciso un leone da ragazzino in Africa (Manute Bol non è morto invano) fino all’onnipresente #TrustTheProcess, il motto associato a Hinkie e che Joel ha ormai interiorizzato fino a trasformarlo in parte integrante della propria identità. Un termine che porta in sé il carattere metamorfico della sua natura: una definizione che evita di definire.

Blonde on Blonde

Ad oggi infatti nessuno riesce ad afferrare cosa possa essere o diventare Embiid. Fino a pochi giorni fa le uniche prove della sua reale esistenza erano i video di pochi secondi che comparivano sui suoi social. Sono frammenti che lo inquadrano mentre si allena da solo in palestra, a metà tra il guerrilla marketing e The Blair Witch Project.

Per capire meglio se l’attesa di Embiid fosse essa stessa Embiid, ho messo a punto una griglia per illustrare le fluttuazioni dell’hype che ho chiamato la Gaussiana di Blonde, in onore di una delle più sfiancanti suspance che l’uomo abbia dovuto patire dall’invenzione di Snapchat.

Selfie di Embiid sul letto ospedaliero subito dopo l’operazione

Livello: abbiamo ancora la fine di Channel Orange nelle orecchie

Joel e Wiggins mangiano un panino con le jersey delle squadre che li hanno draftati

Livello: Frank Ocean compare in “Sunday” di Earl Sweatshirt

Joel da solo in borghese negli spogliatoi mentre i compagni sono in campo

Livello: Frank rinuncia a suonare al FYF Festival di Los Angeles

Video di Embiid che schiaccia passando la palla in mezzo alle gambe

Livello: Frank posta una foto con il magazine di Boy’s don’t cry

Embiid travestito da gallina del Cioni con Ben Simmons

Livello: Frank in studio con Lil B The Basegod

Video di Joel che domina contro allenatore di 170 cm

Livello: Frank compare alla presentazione di TLOP con i vocals su Wolves

Embiid mostra i muscoli in palestra con Okafor e Grant

Livello: James Blake rivela di aver ascoltato il disco

Media Day con Dario Saric

Livello: Chance The Rapper ammette che il disco è una bomba

Joel per la prima volta in campo in Preseason

Livello: Il New Yorker annuncia che tra quattro giorni uscirà il disco su ITunes

We’ll let you guys prophesy

We gon’ see the future first

Living so the last night feels like a past life

#TrustTheProcess

Ora che è finalmente sceso in campo, Embiid deve dimostrare di essere dominante in campo almeno quanto lo è su Twitter. Per più di due anni abbiamo accarezzato l’idea che Embiid in realtà non esistesse, che fosse una inception piantata giù giù nel nostro cervello, uno squarcio nell’infinita mutazione dell’essere umano in generale e del giocatore di basket nel particolare. Si sussurrava che fosse una creatura mitologica invisibile ai fallaci occhi umani, ancora più rara del playmaker classico.

Ma proprio quando eravamo ormai certi di non esser degni di vederlo con una palla in mano su un campo da basket ecco che dagli spogliatoi esce un tronco di 220 centimetri scolpito nell’ebano dell’Africa Nera. Non più l’esile giunco mosso dal vento del Kansas, ma finalmente un uomo riappropriatosi della sua piena fisicità.

Annunciato a piena voce dallo speaker del Wells Fargo Center come Joel “The Process” Embiid (*emoji di Hinkie con aria soddisfatta*) è l’ultimo ad entrare nel rettangolo di gioco. L’atmosfera sprigiona un carico di elettricità che a Philadelphia non si percepiva da anni. Le stagioni precedenti, l’infortunio di Simmons e poi quello di Noel, per un momento tutto scompare. Embiid sembra atterrato da un’ astronave aliena. È il più alto di tutti, il più grosso, con l’afro appena accennato a ribadire le sue origini. Quando segna il prima canestro svitandosi all’altezza del gomito destro con un movimento da Bolshoi il pubblico esulta come ad un gol alla finale del Mondiale. Nel possesso successivo stoppa Westbrook apparendo come Ufo Robot dal lato debole. È un baccanale.

A chi mi chiedeva che fine ho fatto gli ho risposto con un sorriso

Nei possessi decisivi Phila si affida in post basso a Joel gettando sulle sue spalle un mantello con su scritto “Salvaci o salvatore del Mondo”: lui infila due jumper su isolamenti Anthoniani, e dagli spalti si alza il coro #TrustTheProcess. Ovviamente arriva la sconfitta, perché il processo è fatto soprattutto di esperienze di crescita. Joel chiude con 20 punti, 7 rimbalzi e 2 stoppate in 22 minuti di gioco. Tre giorni dopo ne gioca 15 contro Atlanta e Dwight Howard, ne segna 14 compresa la tripla sul primo possesso della partita. Contro Orlando arriva la prima doppia doppia, 18+10. La prima di molte, sperano nella Città dell’amore Fraterno.

Futura Free

Siete abbastanza fomentati o avete bisogno di ulteriori prove prima di abbracciare la Chiesa di Joel e cambiare il vostro stupido nome su Twitter con TheProcess? Nessuno? Allora, nella vostra tranquillità piccolo borghese, saprete sicuramente indicare quali statistiche appartengono a Joel e quali a Anthony Davis.

Embiid è ancora sotto un limite di minutaggio, ma le proiezioni su 36 minuti sono da dominatore dei quattro elementi (*emoji di Hinkie che fa l’occhiolino e linguaccia*). Nonostante abbia giocato solo 21 minuti di media nelle prime quattro partite, guida di gran lunga i rookies per media punti lasciando intravedere lampi di pura onnipotenza. Qui siamo alla prima partita ufficiale in NBA, sfida in uno contro uno un difensore arcigno come Steven Adams e lo batte con una rapidissima virata sulla linea di fondo conclusa con tocco dolcissimo da appena dentro il pitturato. Permettetemi di sottolineare la coordinazione che serve per effettuare un movimento così complesso per un corpo così grosso e la sensibilità per rilasciare il pallone mentre è ancora soggetto alla forza cinetica che lo spinge verso il fondo del campo.

La timidezza dell’esordio si nota tutta, specialmente quando si rivolge ad Adams con un eloquente “Non può marcarmi!”

C’è qualcosa di inspiegabile nella coordinazione e nel lavoro di piedi di questo 2.18 che tutti davano come pieno di potenziale ma ancora tutto da sgrezzare. Se ci fosse ancora del margine per poter evolvere, Embiid inizierebbe a fare più paura di Godzilla tra i grattacieli di Tokyo. Qui finta il tiro da tre su Paul Millsap, lo batte a sinistra, in due palleggi si mangia il parquet fino ad estendersi al canestro evitando Moose Muscala con un controllo del corpo da stuntman professionista e concludendo con la presunta mano debole.

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La mobilità e la coordinazione applicate su quel corpo lo rendono letale in attacco quanto illegale in difesa. Qui intrappola Elfrid Payton sul pick and roll chiudendolo nell’angolo e costringendolo alla palla persa. Se questo è il suo reale livello di aggressività e coinvolgimento anche fuori dal pitturato, io se fossi un playmaker non vorrei più uscire di casa.

Ammetto che un lungo capace di muoversi così sul perimetro e poi di terrorizzare al ferro mi fa ringraziare di aver rinnovato anche quest’anno il League Pass. Va bene che stiamo parlando di un campione che non ha rilevanza statistica, ma gli avversari con lui in campo per ora tirano da due con il 38%. Meno di Rudy Gobert, per far capire che razza di impatto difensivo può avere.

Oltre la galleria di stoppate in aiuto che ha già messo su in sole tre partite qui imbarazza in single coverage Vucevic in post basso. Lo scivolamento, il timing, la rapidità con la quale va su e cancella quel fastidioso mezzo gancio sinistro. La sufficienza con la quale esegue il tutto. Sembra come se giochi contro un bambino. Cioè, sembra.

Sempre per la collezione “statistiche che non hanno valore statistico ma che vi faranno volare” Embiid è, percentuali alla mano, il miglior tiratore da tre della lega tra chi ha tentato più di otto conclusioni nella stagione. Con il 66.7% su 2.3 tentativi a partita, è ben più affidabile di Kevin Durant, Klay Thompson o Steph Curry. La mattonella preferita è quella situata sulla punta, sulla quale arriva a rimorchio pronto a rilasciare una parabola morbida e rotonda, se non fosse che uscendo da quelle mani assomiglia più all’incipit di una distopia nucleare che ad un comune follow through. Contro Cleveland ne ha prese quattro e segnate quattro, tutte identiche tra loro se si eccettua la variazione di tabella.

Ma la qualità più spaventosa di Embiid rimane il modo in cui assorbe ogni cosa che vede intorno a lui. Nella partita contro Atlanta, Dwight Howard lo ha battuto correndo il campo e ha preso subito posizione sotto il canestro segnando comodamente; due giorni dopo Embiid ha fatto la stessa identica cosa contro Vucevic. Nell’intervista rilasciata a Lee Jenkins ha affermato di aver imparato a tirare guardando i vecchi bianchi al campetto, perché loro usano molto bene il gomito. Nel podcast con Zach Lowe, Jenkins ha detto che negli ultimi due anni Embiid ha visto le partite dei Sixers insieme a Hinkie, chiamando i mancati cambi difensivi e apprendendo nozioni tattiche avanzate. Siamo di fronte ad un replicante la cui curva di apprendimento non è una curva, è una fottuta retta. Molti lunghi dominanti hanno iniziato a giocare tardi a basket (Duncan e Olajuwon ad esempio) ma Embiid non solo gioca da poco tempo, ha giocato anche poco negli ultimi anni a causa dei continui infortuni. E nonostante ciò eccolo infilare una tripla sull’altra, spostare veterani a spallate, sformare camere d’aria nei pressi del ferro con la naturalezza di chi ha vissuto di pane e basket per tutta la sua vita.

Il processo è appena iniziato e non da segni di volersi fermare. Perché mentre io scrivo e voi leggete alla Hinkie Inc. stanno già lavorando per migliorare l’hardware e allo stesso tempo facendo l’upgrade alla sua AI. Voi non lo sapete, ma Sam ha lasciato il basket per dedicarsi alla costruzione di Westworld. E gli abitanti saranno tutti come Joel Embiid.

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