Per salutare al meglio il 2017 abbiamo raccolto le fotografie dei momenti più intensi dell'anno, per archiviarle nel nostro album dei ricordi. Dopo l'oro di Federica Pellegrini oggi parliamo di un momento più tragico, cioè di quando i tifosi della Juventus si sono ritrovati a Piazza San Carlo per guardare la finale di Champions della propria squadra ed è diventato un dramma. Buona lettura, e buon anno.
Da mesi ho in testa quest’immagine di Marchisio che sta per entrare in campo: è stata l’ultima volta che ho guardato il maxischermo.
Sono al centro di Piazza San Carlo, finalmente fuori dalla calca, anche se vicino al luogo dal quale sembrava arrivare la bomba, l’attentatore, il van, il gas, il nulla di nulla, alla fine, probabilmente. Era stata la paura a far impazzire tutto. Un’arma anche quella, in questo periodo molto incline a innescarsi. Intorno a me migliaia di persone stavano tentando di uscire il più rapidamente possibile da uno spazio impreparato e inadeguato a quel genere di esodo disperato. Persone pigiate su altre persone da altre persone ancora. Persone in piedi sopra ad altre persone distese sopra a bottiglie rotte, zaini, buste di plastica, scarpe, sciarpe della Juventus.
Avevo spinto e sgomitato controcorrente per trovarmi lì nel mezzo, al centro della piazza, finalmente con dello spazio attorno, da solo. Mi ero mosso in maniera controintuitiva nella direzione da cui tutti stavano scappando, proprio per separarmi dal panico. Gli amici con cui ero andato a Torino per vedere la finale di Champions League erano spariti nel giro di pochi secondi dal mio radar, avevo percezione solo di gente, ostacoli, suoni, sangue, urti, urla.
Vedo Marchisio che sta per entrare, un prato verde, uno stadio: mi sembra un’altra dimensione, avevo dimenticato perché mi trovavo lì. O forse mi aspettavo che l’ordine delle cose avesse lasciato il posto al caos anche a Cardiff, come a Piazza San Carlo. Due luoghi così legati, con il primo che aveva aspettato il secondo per tutto il giorno e adesso è un macello, mentre l’altro continua indifferente. In un mondo così connesso, con eventi che causano reazioni in tempo reale dall’altro lato del pianeta, è come se fosse caduta la connessione, saltata tutta la grammatica dei racconti sportivi televisivi in cui al gol del campo c’è la reazione della piazza; perché abbiamo scoperto che al caos della piazza il campo non risponde niente, tutto prosegue.
Inizio a correre – che bella sensazione poter correre – verso via Maria Vittoria, poi continuo a destra per un paio di isolati, rallentando al rarefarsi di gente, sangue, pianti, telefonate. Mi guardo indietro, voglio trovare gli altri. La rete telefonica è sovraccarica e non c’è verso di chiamare, creo un gruppo WhatsApp con gli amici dispersi, titolo: “Troviamoci”.
Poi sento un nuovo boato di panico e vedo la strada piena di un’onda che scappa verso di me, mi metto a correre di nuovo, lontano da non so cosa, corro e basta. Su via Bogino giro a destra e la risalgo un po’, mi ci nascondo dentro. Ci sono poche altre persone, sembrano al sicuro.
Qualcuno alla finestra guarda giù e chiede a noi là sotto cosa sia successo, non lo sa nessuno.
Foto di Marco Bertorello / Getty Images.
Compro dell’acqua da un venditore ambulante, scappato lì anche lui, non mi fa pagare. Sul gruppo non ho inserito un compagno disperso perché non ho il numero, lo cerco su Facebook e inizia un altro viaggio surreale tramite un’interfaccia che mi restituisce il suo mondo accuratamente ovattato e amichevole, quando io voglio solo entrare in contatto con una persona nel più breve tempo possibile.
Gli chiedo l’amicizia, gli invio un messaggio.
Non sei amico con questa persona, mandagli un saluto. Gli mando un saluto, senza neanche pensarci.
Un messaggio che non trasmette niente di quello che vorrei, dell’urgenza, della preoccupazione. Un messaggio grottesco, frustrante, preimpostato per una realtà nella quale non ci è più possibile illudersi di essere.
Poi lo chiamo. Non risponde. Gli mando un messaggio vocale e aspetto. Intanto sull’altra chat qualcuno finalmente si è fatto vivo.
Che cazzo succede?
Arriviamo tutti a piazza Carlo Felice, uno per volta, ognuno da solo, dopo un tempo indefinito. Parliamo poco, non sappiamo che dire, ci manca un pezzo, la causa scatenante.
Su internet, in quelle ore, quanto ci siamo sentiti soli, tra i felici e gli infelici non trovavamo posto. Poi l’attentato del London Bridge era arrivato prima e di Piazza San Carlo onestamente non si capiva niente. Non lo avevamo capito noi, figuriamoci i media.
Che titolo dai? Di cosa si tratta? Attacco, attentato, scontri? Dentro a quale narrazione si inserisce? Terrorismo? Violenza da stadio?
Ci sono solo numeri che salgono rapidamente. Alla fine, 1527 feriti e una donna, Erika, che se ne è andata dopo 12 giorni di terapia intensiva. Prendo i miei ricordi: essere stretto e intrappolato tra altri intrappolati come me, sentire la mia cassa toracica comprimersi e combattere per proteggerla e consentirle di aprirsi e far entrare aria; il rumore del metallo delle transenne che si piegano, si contorcono, si spezzano, i tonfi sordi delle persone che cadono sulle scale sottostanti che conducono al parcheggio sotterraneo – non ho distinto questi suoni sul momento, ma è come se li avessi registrati; la vista delle transenne divelte e del sangue sulle vetrine rotte, il giorno dopo, quando sono tornato sul posto con i miei amici, come a voler ristabilire un contatto con quello spazio.
Metto insieme tutto questo e lo moltiplico, lo rendo inesorabile, invincibile, ed è il mio modo di vedere e non dimenticare in che modo orribile è finita la vita di Erika.
Dei miei amici, uno ha zoppicato per settimane. Un altro si porta nel 2018, e probabilmente in tutti gli anni a venire, alcune cicatrici sotto il ginocchio, tagli da vetro. Noi siamo quelli fortunati.
Foto di Marco Bertorello / Getty Images.
Ho una sensazione, anche se forse è solo uno scherzo della mia testa: che il risultato parziale della partita, in quel momento, sia stato un fattore. Che tra l’1-3 e quel disastro ci sia una continuità. Che sull’1-1, qualunque cosa sia successa, non sarebbe successa, non in quel modo. Che il panico è scoppiato anche perché eravamo tristi e scoraggiati, e qualcuno ha sentito la morte vicina e per gli altri è sembrato credibile. Forse, quando stai bene, è più difficile spaventarti, credere al peggio. Forse l’idea di una bomba non basta, ti serve una bomba vera.
Quando oggi mi dicono ‘Cardiff’ la mia prima immagine, molto prima di qualunque ricordo sportivo, è Marchisio a bordocampo che aspetta di entrare, sul quel maxischermo.
Vòltati Claudio, per favore. Gìrati, guarda in camera e calmaci.
Férmati Marcelo, aspetta un attimo, sta succedendo un casino e non possiamo più seguirvi.
Il 3 giugno, a Torino, l’evento sportivo più importante dell’anno è stato ingoiato dalla paura, dall’irrazionalità del comportamento umano che ci ha investito rammentandoci della nostra vulnerabilità dimenticata, della distanza irrisoria che c’è tra passare una sera d’estate in piazza e morire. Piazza San Carlo per me sta ancora là in un limbo indefinito tra il tragico e il grottesco, il surreale e l’orribile.
Non c’è mai stato nessun sollievo, perché non c’è stato nessun pericolo. Sopravvissuti a niente, o forse a noi stessi.