Un'altra fine del mondo si sta avvicinando: quella del 2013. Per prepararsi alla solita eventuale apocalisse, l'Ultimo Uomo ha chiesto ad alcuni collaboratori di meditare su tutte le cose mortali che si lasceranno alle spalle, e loro si sono confessati classificando il meglio e il peggio del 2013. In questa seconda parte: lo scrittore e critico cinematografico e musicale Federico Bernocchi ha rivelato quali sono i singoli più imbarazzanti che canta di nascosto e a memoria; Valerio Mannucci, Editor-in-chief di NERO Magazine ha raccolto le cose artistiche del suo 2013; Davide Coppo redattore di Rivista Studio ha scelto i migliori portieri che parlano francese; il caporedattore de l'Ultimo Uomo, Matteo Gagliardi, ha scelto i migliori film dell'orrore della stagione; il giornalista Valerio Mattioli ha ripercorso il 2013 in musica, dichiarando anche il suo album preferito; Fabrizio Gabrielli, scrittore e traduttore, con una doppia lista glam ha scelto le migliori esultanze e le peggiori capigliature nel calcio; Clara Miranda Scherffig, giornalista di VICE italia e Rivista Studio ha scritto dell'estetica dell'anno; e infine il giornalista de il Post, Francesco Costa, chiude la nostra seconda parte della lista della fine del mondo con le migliori squadre italiane del 2013. Buona lettura.
Ecco la prima e la terza parte della lista della fine del mondo.
I 10 singoli del 2013 che non dovrebbero piacermi e che invece so a memoria
di Federico Bernocchi (@FedeBBQ)
Da folle ascoltatore radiofonico quale sono, ecco a voi l'utilissima classifica delle canzoni che non dovrebbero piacermi, ma che invece canto di nascosto quando sono in macchina. Ovviamente poi a casa ascolto solo il vinile dei Factory Flow in cuffia, ma ho un cervello particolarmente permeabile a tutto quello che sento, che volete che vi dica. Ecco a voi, senza vergogna alcuna, la mia classifica dell'orrore.
10. Icona Pop - I Love It
La passione per questo singolo delle Icona Pop, che abbiamo scoperto non essere quelle bombe sexy che speravamo dopo averle viste a X Factor Italia, è durato meno di cinque ascolti ma, lo ammetto, è durato. Il beat arrogante è l'efficacia del ritornello sono abbastanza indiscutibili. Peccato che oltre a questo non ci sia veramente nulla e che la noia sia dietro l’angolo.
9. Lana Del Rey – Young and Beautiful
Tratto dalla colonna sonora de Il Grande Gatsby, ovvero uno dei film che più mi ha deluso quest'anno, arriva questo lentone tutto sentimento di Lana Del Rey, la modella di H&M più irritante di sempre. Ma l'arrangiamento cafonissimo con tanto di archi e fiati senza ritegno, mi emoziona come una scolaretta.
8. P!nk feat. Fun – Just Give Me A Reason
Il fatto che P!ink sia sempre stata presentata come la punk del mazzo, quella che faceva i video con la linguaccia di fuori e si faceva vedere mezza nuda, ma con un filo di pancetta per fare quella “una di noi!”, mi ha sempre innervosito non poco. Sarà per la voce altissima del tipo dei Fun o per il fatto che l'ultimo ritornello cantato solo sopra dei battiti di mano è fatto di colla per le orecchie, ma il risultato è che la so a memoria.
7. Katy Perry – Unconditionally
Katy Perry mi fa piuttosto simpatia. Ha dimostrato negli anni un senso dell'ironia (sicuramente finto, ma non è quello il punto) che la distacca dalle sue colleghe e il suo video nel cui finale comparivano Kenny G e Corey Feldman mi ha sempre fatto molto ridere. L’ultimo singolo Unconditionally è insostenibile, ma ha un ritornello che mi ricorda quel periodo buio in cui mi piacevano i Thursday. Il senso di colpa è il medesimo.
6. Bruno Mars - When I Was Your Man
Due anni fa nella mia macchina andava molto forte L'Ultima Notte al Mondo di Tiziano Ferro. Un lento del genere però non esce tutti i giorni. Ci ha pensato il cotonatissimo Bruno Mars a colmare questo vuoto, con un plagio wanna be Elton John da ritiro della patente, ma che mi risulta impossibile non cantare. Mi sarebbe piaciuto mettere il singolo precedente, Locked Out of Heaven, il plagio wanna be Police, ma è uscito nel 2012.
5. John Legend – Made To Love
John Legend ha una bella voce, ma spesso fa delle canzoni deludenti. Un po' come quando il vostro amico sfortunato insisteva nel dire che Alex Britti è un chitarrista blues che levati, ma poi tu ascoltavi La Vasca e piangevi dal nervoso. Made To Love ha invece una produzione stellare e un beat che fa saltellare e muovere le mani a tempo. Tanto basta.
4. Justin Timberlake - Mirrors
C'era grossa attesa per l'uscita del nuovo disco di Justin. Quando uscì il primo singolo di 20/20, Suit & Tie non nascosi una certa delusione. Ma il nostro s'è ripreso alla grandissima con Mirrors, una canzoncina che dopo averla sentita, sei iscritto a una High School americana di Riverdale e stai andando a prendere Brandy a bordo della tua Mustang. E poi la limoni. Al Drive-In.
3. Jason Derulo Feat. 2 Chainz - Talk Dirty
Una canzone zarra come poche, di quelle che vorresti ascoltare alle giostre di domenica pomeriggio con i tuoi amici disadattati tra una rissa e l'altra. Tutto qui? Sì, certo, ma la produzione di questo pezzo mi ricorda quella di Teddy Riley per No Diggity dei Blackstreet. Peccato che lì eravamo nel 1996, ma quell'accenno orientaleggiante ci sta a pennello. Occhio alle liriche di 2 Chainz, che raggiungono livelli di ignoranza piuttosto alti.
2. Miley Cyrus - Wrecking Ball
Mentre trovo pochissimo sexy, se non raccapricciante, l'aspetto da battona della Paullese sfuggita a una retata che ha reso la figlia di Billy Ray Cyrus quello che è oggi, trovo particolarmente orecchiabile il suo singolo. Nel cui video, vale la pena di ricordare, piange mentre lecca un martello.
1. Bastille – Laura Palmer
Mentre Pompeii, il singolone con il coro da stadio che ce li ha fatti conoscere mi risultava indigesto come poche altre cose al mondo, la melodrammaticissima Laura Palmer mi sembra un singolo pop quasi perfetto. E quando la canto al semaforo, quasi non me ne vergogno. Quasi.
Il "=!£ del 2013
di Valerio Mannucci (@neromagazine)
[NOTA]: Le cose elencate qui sotto non rappresentano il meglio del 2013: la lista si è costruita per rimandi diretti e non è stata riorganizzata in ordine cronologico o per genere. Molti dei contenuti riportati nel testo sono stati prodotti o trovati sul web. Per questi motivi, la lista presenta un'evidente parzialità.
Inizio partendo da un'altra lista, messa insieme quest'inverno dall'artista austriaco Oliver Laric: AN INCOMPLETE TIMELINE OF ONLINE EXHIBITIONS AND BIENNIALS. Anche se incompleta, come da titolo, è una approfondita raccolta di informazioni, immagini e progetti online dai primi anni '90 ad oggi. Nella sua semplicità, è uno dei migliori progetti artistici online che si potevano pensare nell'anno 2013. (Laric ha anche un sito personale in cui raccoglie molti dei suoi lavori.)
A proposito di arti visive nel 2013, tra le poche cose memorabili di quest'anno, ricordo la stanza/installazione di Ryan Trecartin all'ultima Biennale di Venezia, (NOT YET TITLED). Il modo in cui Trecartin racconta le sue storie è abbastanza noto, ma in questa installazione tutto si amplifica. Il lato visionario e disumanizzante del suo lavoro si incontra con quello documentaristico: una delle migliori esperienze audiovisive che mi sono capitate negli ultimi anni.
L'unica cosa che forse supera la stanza di Trecartin è PRIMITIVE, l'incredibile mostra di Apichatpong Weerasethakul all'Hangar Bicocca, a cura di Andrea Lissoni. Un viaggio nella narrazione magica del filmmaker thailandese che è veramente oltre ogni possibilità di descrizione.
Parlando di audiovisivi, mi rendo conto del fatto che vado molto poco al cinema: nel 2013 ho visto tanti film, ma quasi tutti dal mio divano e risalenti ad anni precedenti. Gli ultimi due film che ricordo di aver visto al cinema sono Star Trek – Into Darkness (in I-MAX 3D) e Blue Jasmine. In fondo mi sono piaciuti entrambi, per cui direi che sono i miei preferiti del 2013.
La mia relazione con la sala cinematografica mi fa pensare ad un articolo scritto lo scorso marzo da Brad Troemel, artista e teorico americano: THE ACCIDENTAL AUDIENCE Troemel è molto giovane, e a volte i suoi ragionamenti prendono una deriva un po' ambigua. Il pezzo però è interessante e leggerlo vale la pena.
Come controparte al pezzo di Troemel, c'è la risposta pubblica di un altro giovane artista, Ryder Ripps. Si chiama THE ACCIDENTAL ARTIST e fa un po' il verso al precedente.
Proseguendo sulla scia degli articoli interessanti che ricordo di aver letto nel 2013, sempre in relazione a quella che da un po' di tempo chiamano epoca “post-internet” (questa potrebbe essere l'espressione dell'anno 2013, anche se la sua teorizzazione risale a prima del 2010), riporto il link ad un pezzo di Kenneth Goldsmith: THE WRITER AS MEME MACHINE.
Alcuni forse lo conoscono come fondatore di Ubuweb (altra opera che meriterebbe il titolo di miglior progetto curatoriale del nuovo secolo – o anche solo quello di “progetto curatoriale che ha senso oggi”), ma Goldsmith è anche e soprattutto un poeta e teorico della scrittura non-creativa. Un assaggio delle sue idee lo potete trovare nell'articolo appena citato, uscito sul New Yorker lo scorso ottobre; vi consiglio di leggere il suo libro UNCREATIVE WRITING, che risale al 2011 (qui un breve estratto pubblicato sul web). Goldsmith è uno dei pochi che riesce ad analizzare l'attività dello scrivere come un fatto che viene prima di quella costruzione culturale che chiamiamo "letteratura".
Legati in modo diverso a questo discorso post-internet, sono due libri di saggistica che vale la pena citare: THE ECSTASY OF INFLUENCE, NONFICTIONS ETC., di Jonathan Lethem, e CYPHERPUNKS, di Julian Assange, Jacob Appelbaum, Andy Müller-Maguhn e Jérémie Zimmermann.
Il primo è una raccolta di saggi e a articoli non-fiction di Jonathan Lethem, ripubblicati da Vintage Books lo scorso marzo. Tra i tanti articoli, va menzionato almeno quello che dà il titolo alla raccolta: un lungo e coerentissimo saggio sul plagiarismo, che però è di fatto solo un lungo e quasi perfetto cut-up di diversi articoli e saggi già pubblicati in precedenza. Qui trovate una versione risalente al 2007 uscita su Harper's.
Il secondo libro (uscito in realtà negli US a Novembre 2012, quindi di diritto nelle letture del 2013) è la trascrizione di una lunga conversazione tra Julian Assange e altri famosi attivisti del web. A livello teorico non è niente di sconvolgente, ma è un libro importante. È una specie di libello amaro (per niente satirico) che gli autori lasciano quasi come fosse un testamento epocale. Le idee di cui si parla in questo libro sono a volte controverse, ma lo scenario che ne risulta assomiglia ad un brutto sogno, molto semplice e molto reale.
A proposito del concetto di “reale” in relazione alla rete, a un livello più basso e non molto significativo da un punto di vista estetico, mi viene in mente il documentario su The Pirate Bay uscito nel febbraio 2013, TPB AFK. Ovviamente non è andato nelle sale (forse è per questo che l'ho visto) ma è disponibile online gratis. In una scena, i fondatori del sito web più utile del mondo, di fronte alla domanda di un pubblico ministero svedese che, sentendosi molto moderno, chiede quando e come si incontravano IRL (in real life), gli rispondono una cosa tipo “What do you mean with in real life? The Internet is real. We say AFK, away from keyboard”.
(Breve parentesi sull'analisi del reale e sul realismo nelle arti: nel 2013, in Italia, la cosa più interessante scritta al riguardo mi risulta essere il saggio di Walter Siti IL REALISMO È L'IMPOSSIBILE, che, seppur molto intelligente, è tuttavia un punto di vista quasi demodé e un po' troppo “letterario”. Forse è più utile per un manuale di scrittura creativa che per la comprensione del nostro rapporto col realismo, ma leggerlo vale comunque la pena.)
Per chiudere, tornando alla relazione tra tecnologie e possibilità espressive, vorrei ricordare JOYVTL JVBUAYF, la release musicale di Onehotrix Point Never in collaborazione con l'artista americano Cory Arcangel. È una misteriosa traccia musicale in formato Real Audio, con un codec che è quasi impossibile da leggere (quasi). Vedetela come vi pare, può essere un commento sulla fluidità impazzita delle tecnologie o un gioco linguistico sui canali di espressione contemporanei (o un brutto scherzo). Qui potete scaricare il file della traccia, e qui potete leggere l'unico commento sensato che ho trovato online su questa operazione.
I 3 portieri più sorprendenti del 2013 che parlano francese (ma due sono nati in Belgio)
Di Davide Coppo (@davcoppo)
1. Simon Mignolet
È nato nel 1988, ha una laurea in Scienze Politiche, parla quattro lingue e secondo me è anche un bel ragazzo. Il Liverpool l'ha acquistato quest'anno dal Sunderland, che lo acquistò a sua volta dal Sint-Truidense, una squadra belga in cui Mignolet segnò anche un gol. Nelle prime 16 partite di Premier League ha mantenuto la porta inviolata in 5 occasioni. Ha subito 18 gol, che non è poco, ma il Liverpool non ha propriamente una difesa di ferro (come nemmeno l'Arsenal, e come nemmeno il Chelsea; anzi, come nessuno in Premier, basti pensare che la miglior difesa è quella dell'Everton con 15 gol subiti in 16 partite). Due cose notevoli: una tripla parata in casa contro il Southampton, poi persa comunque 0-1, in cui viene bombardato con un tiro che ferma di piede, un mezzo-tiro che lo costringe a uno sforzo addominale straordinario, e nemmeno mezzo secondo dopo un tuffo con i pugni per allontanare il pallone. Tutto questo prima che voi possiate finire di urlare “oh mio dio!” dopo la prima delle tre parate. Poi un rigore parato contro lo Stoke City, quando prima si lancia sulla sua destra a fermare con il guantone destro un tiro calciato molto bene e angolato dall'attaccante avversario, poi si rialza in piedi e respinge la ribattuta con i piedi. Finirà 1-0 per i Reds, ed è uno dei clean sheet di questo inizio stagione di “Migno”. Il coro della KOP per lui è basato sulla canzone The Lion Sleeps Tonight dei Tokens, e fa così: «he's our keeper / our Belgian keeper / he's Simon Mignolet», e invece del coretto «ohim'bube / ohim'bube» si canta qualcosa come "a-Mignolet / a-Mignolet".
2. Hugo Lloris
Al Tottenham, la scorsa stagione, aveva iniziato con buoni alti ma qualche basso. Poi si è ripreso, e quest'anno, vista anche e soprattutto la disgraziata stagione degli Hotspurs, Hugo è decisamente da considerarsi uno dei migliori giocatori in rosa. Nella stagione 2013-2014, su 15 partite giocate in Premier, ha mantenuto 7 clean sheet, una percentuale pari a quasi il 50%. È vero, certo, che nelle rimanenti 8 partite ha subito 21 gol, ma insomma. È nato a Nizza da una famiglia molto altolocata, la madre era avvocato (è morta nel 2008) e il padre un banchiere di Montecarlo. Hugo è educato e lo si vede anche in campo, dove si agita il necessario, tutto il contrario di quel cliché noioso e volgare (originario degli altrettanto volgari primi anni di vita del gioco del calcio, in cui il portiere veniva visto come un freak che poteva “salire” fino a centrocampo con la palla tra le mani, come se fosse rugby) che vuole dipingere il portiere come una specie di pagliaccio o istrione. Durante la partita Spagna-Francia del 16 ottobre 2012 Hugo para un rigore a Fàbregas, si alza in piedi e non si scompone, concentrato sul fatto che la partita non è affatto finita, e tutti lo abbracciano ma lui si limita ad applaudire e spronare i compagni a non mollare, in modo molto decoroso e urbano. Non compare quasi mai nelle interviste, e i suoi capelli ordinari e lontani da ogni moda calciatoriale testimoniano la sua schiatta upper-class ulteriormente. Nell'ultima grande sconfitta di Villas Boas, 0-5 contro il Liverpool, riesce a fare un miracolo tristemente vanificato dall'incapacità difensiva dei restanti 10 giocatori del Tottenham: para un 1 contro 1 a Henderson, con uno scatto di reni para anche la ribattuta di Suarez, ma la palla torna a Henderson che segna il gol dello 0-2.
3. Thibaut Courtois
Nasce nel 1992 ed esordisce nel Genk a sedici anni, a diciotto è titolare e vince il primo campionato. Alla fine di quella stagione, la 2010-2011, vince il titolo di miglior giocatore del Genk e quello di miglior portiere della Jupiler Pro League belga. Il Chelsea lo compra nel luglio 2011 a 9 milioni di euro, e lo manda (un giorno dopo!) in prestito all'Atlético Madrid. Qui è subito titolare, ed esordisce in Liga a 19 anni. La prima stagione gioca 37 partite con 15 clean sheet, la seconda ancora 37, ma questa volta i clean sheet sono 20. Significa che il 54% delle volte l'Atlético Madrid del ventenne Thibaut Courtois non subisce gol. Significa che se giochi contro l'Atletico Madrid, per sapere se la tua squadra non solo vincerà, ma riuscirà a segnare un goal, tanto vale tirare una monetina in aria. Anche se sei il Barcellona: nella gara di ritorno della Supercopa de España del 28 agosto 2013, terminata 0-0, Courtois si trova di fronte, cioè sul dischetto del rigore, Lionel Messi. Messi è alto 1 metro e 69 centimetri, Thibault 1 metro e 99, e anche con un'inquadratura della telecamera ampia, la differenza si vede. Messi calcia centrale e forte, Courtois non si butta, non del tutto, e con una mano riesce a toccare la palla che finisce sulla traversa. È probabile che il tiro, un tiro molto forte, sarebbe andato lì lo stesso. Ma la statistica – grande nemica, anzi nemesi dei portieri – dice che il tiro è stato parato. L'altezza è ciò che rende Thibaut Courtois un portiere molto efficace (può parare con i piedi ciò che molti altri portieri si sognerebbero di parare, o parerebbero con le mani) ma anche poco spettacolare: non ha un grande bisogno di lanciarsi, è “lungo” e quindi “pesante”: il tipico-video-Youtube delle sue migliori parate è incredibilmente (dal punto di vista acrobatico) noioso, se confrontato con la media acrobatica degli altri tipici-video-Youtube dei colleghi portieri. Nella stagione in corso ha giocato (in Liga) finora 16 partite, con 8 clean sheet. Dalla sua, oltre alle statistiche impressionanti, ci sono i premi vinti in questi pochi anni di vita e di carriera: nominato Man of the match nella finale di Copa del Rey del 2013, vinta proprio contro il Real Madrid: la prima vittoria dell'Atlético in un “derby” dopo 14 anni. La miglior ratio tra partite giocate e gol subiti durante la stagione 2012-2013 (37 / 29 in Liga, 46 / 35 in tutte le competizioni) gli ha fatto vincere il Trofeo Zamora. A 21 anni. Altra statistica: è il più giovane portiere di sempre a vincerlo.
I 5 film horror visti al cinema nel 2013
Di Matteo Gagliardi (@stai_zitta)
Finita l’era dei grandi film dell’orrore degli anni novanta, Scream e Ringu su tutti—che univano allo spavento trame rivoluzionarie che non si sfilacciavano dopo mezz’ora (momento in cui arrivano gli imbarazzanti spiegoni che ti fanno sprofondare nella poltrona)—quest’anno, come negli ultimi dieci, abbiamo guardato film meno profondi ma con jumpscares sempre più curati. Prima di iniziare a leggere la classifica, un consiglio: per i link al pezzo lo schermo deve essere intero e il volume a cannone. Questa non è una classifica sui film dei Dardenne. Non abbiate paura.
5. Insidious II
Cominciamo con James Wan. Nato registicamente con Saw (di cui ha girato il cortometraggio nel 2004, che gli ha permesso con un budget alla sua altezza di dirigere il primo lungo degli otto della serie), ha diretto un sequel molto atteso dagli amanti del genere: Insidious II.
Appena saputo dell’uscita non ho indugiato un attimo: per quanto la saga non sia niente di eccezionale qualche sorpresa il talento di Wan la riserva sempre.
Gran parte di Insidious II, molto più del capitolo precedente, è girato dentro “l’altrove”, una sorta d’inconscio dell’infestato di turno, un trucco di sceneggiatura che crea numerose occasioni di infarto. Se il secondo capitolo ha chicche meno fresh rispetto al primo, e la sceneggiatura risulta ripetitiva, i jumpscares sono potenti. Già all’inizio, il film parte col botto, coatto come solo Sam Raimi;e in un “altrove” suggestivo, in blu e nero, del sano intrattenimento fa godere con eleganza.
4. Sinister
Il film di Derrickson, regista di The Exorcism of Emily Rose, èuscito in Italia con poca fortuna. Proiettato un anno dopo rispetto al resto del mondo, tenuto in programma per una settimana e soltanto in multisala di centri commerciali fuori dal raccordo anulare, Sinister è stato snobbato senza motivo.
La trama è la solita: Ellison Oswalt è uno scrittore d’inchiesta in declino che per ritornare nel giro giusto, si traferisce in una piccola città della Pennsylvania per indagare sull’omicidio irrisolto di un’intera famiglia. Ethan Hawke è perfetto nella parte del mezzo fallito. La casa dove lo scrittore si appoggia è chiaramente la stessa dove è accaduto il massacro. Zero sceneggiatura, ma esteticamente la pellicola ha trovate mostruose. Girato con mini budget—sono a favore quando è uno stimolo per far lavorare al doppio della velocità il cervello del regista—due scene sono veramente scary: quando Ethan va in soffitta e quando si decide di copiare haneke.
Sono contro il low budget se in un film dell’orrore del 2013 i bambini sono truccati con gli aquacolor, una roba da videoclip indie della peggior specie.
3. World War Z
Sul podio dei film horror più spaventosi dell’anno c’è l’ultima opera dell’orso d’argento Marc Forster. (C’è da dire che per premiarlo col terzo posto ho dovuto urlare in sala per non sentire la voce fuori campo degli ultimi minuti di film.) WWZ parla di zombie, ma ha qualcosa in più rispetto alle altre copie di Romero che sono uscite nell’ultimo decennio: spacca. Le scene di massa, in cui compaiono orde infinite di contagiati, non le ho mai viste prima al cinema. Se nell’immaginario collettivo gli zombie sono dei lenti, troppo metaforoni per fare davvero paura, in WWZ l’idea è tanto semplice quanto efficace: corrono più di quelli in salute. Le scene d’isteria collettiva sono un splendido caos indistinguibile, e non te ne frega più un cazzo di chi sono i buoni e chi i cattivi. Tifi il fomento. Il film non ha molti jumpscares (a parte questa che non può non meritarsi il terzo posto della classifica) ma mantiene un livello di tensione per due ore molto alto. Sale l’ansietta nelle riprese notturne, nel laboratorio pieno di zombie, quando scappano da Gerusalemme e pure per le sorti di Pierfrancesco Favino. Più riuscito di così.
2. La Madre
Quando Guillermo del Toro ha visto il corto Mamadi Andres Muschietti è rimasto felicemente colpito dalla bellezza di quei tre minuti a tal punto da produrre la versione lunga. Guillermo è un malato, e c’è da fidarsi: la Madre fa davvero paura. Oggetto di subitanee prese per il culo da parte di Scary Movie è diventato un cult del genere in poco tempo. La sua opera prima non può non meritare un secondo posto: è uno jumpscare continuo, e anche se dal trailer non si capisce, quando la Madre compare è sempre un brivido. Extra: Ci sono due Jaime Lannister per le spettatrici più esigenti, e quella Dio di Tree of life.
1. The Conjuring
Un altro film di James Wan. Il miglior film horror dell’anno è il suo capolavoro (fino a qui). La storia si basa su fatti realmente accaduti. I Warren, una coppia di svitati ricercatori di fenomeni paranormali, sono chiamati dalla solita famiglia trasferita da poco in una casa di campagna alle prese con apparizioni inspiegabili e morti canine improvvise. La bellezza del film di Wan non sta tanto nella trama, ma nel virtuosismo alla regia. Ambientato nel 1971 Wan gira in maniera volutamente datata con continui zoom e una ricerca dell’effetto spaventoso affidandosi a semplici trucchi sonori, senza troppo gore o effetti speciali. È un film antico. Se all’inizio tutte le scene ripetono gli stilemi classici del genere, il basement delle case di campagna, il buio improvviso, i quadri che cadono dal muro, poi hanno sempre un risvolto imprevedibile. Quando mi sono messo alla ricerca di Bathsheba per prevenire la botta, era già troppo tardi.
Il 2013 in musica
di Valerio Mattioli (@thalideide)
A proposito di musica pop, il fenomeno che più mi ha incuriosito in questo 2013 è stato il tentativo dell'industria discografica (in primo luogo americana) di resuscitare categorie che credevamo estinte assieme alla liquefazione più o meno totale dell'immaginario pop mainstream. Un caso da manuale è quello del... come vogliamo chiamarlo? Disco-evento? Überdisco? Per capirci, è quel tipo di lavoro il cui impatto travalica il dato meramente musicale per imporsi come fatto di costume, anche grazie a una serie di manovre promozionali che ne amplificano il carattere diciamo così universale, se non propriamente innovativo/rivoluzionario. È una categoria che a suo modo definì quell'ormai lontana golden age in cui la musica pop era ancora un linguaggio di massa (e in cui il formato-album ancora non era stato annichilito dalla volatilità on line), ma che era sembrata eclissarsi con la proliferazione delle famigerate nicchie, senza dire della crisi dovuta al consumo di musica in rete e alla concorrenza di altri, meno imbalsamati fenomeni generazional-identitari. Non so se sono stato chiaro. Mi riferisco ai dischi “di cui tutti parlano”, ok? Una volta esistevano, sul serio. Quest'anno sono tornati, perlomeno per come una cosa del genere può tornare nel 2013.
Per dire, l'anno è iniziato con un'operazione che ha pochi precedenti persino nel per nulla vergine mondo del binomio musica-marketing: prima ancora che un disco, Random Access Memories dei Daft Punk è stata una campagna raffinatissima, spudorata e totalizzante, prontamente replicata in chiave guerrilla dal Kanye West di Yeezus. Dopo la pausa estiva è toccato invece a due nomi tra loro diversissimi come Arcade Fire e Lady Gaga, coi primi che con Reflektor hanno virato l'approccio barricadero dello stesso Kanye in chiave indie-chic (messaggi cifrati sparsi per il globo, uso disinibito di social network quali Instagram, proiezioni on site ecc), e la seconda impegnata in una più tradizionale operazione del genere alto vs. basso, esplicitata d'altronde sin dal titolo del suo ritorno: Artpop. A chiudere il cerchio, Beyoncé pubblica proprio in questi giorni un nuovo album che di fatto ribalta in maniera speculare l'approccio inaugurato dai Daft Punk e contemporaneamente accelera in maniera disinibita su alcuni degli aspetti più qualificanti del consumo musicale ai tempi della Rete: il binomio audio-video (il disco è un “visual album” per quattordici brani e diciassette video) e la simultaneità acrona del pop up (l'album è comparso a sorpresa e senza alcun tipo di anticipazione: particolare che da solo garantisce all'uscita del disco la qualifica di evento). In dodici mesi, dalla guerrilla marketing siamo insomma passati al flash mob.
L'altra categoria che credevamo estinta assieme ai bei tempi della musica giovane & universale è quella del personaggio-mondo, vale a dire musicisti che non sono solo musicisti ma in primo luogo icone culturali, costruttori di immaginari al tempo stesso autoriferiti e inclusivi, e infine promotori di se stessi in quanto se stessi. È una categoria in cui le astuzie promozionali si mescolano a una serie di valori genericamente “artistici” e in cui nulla può il marketing senza lo spessore pregresso del personaggio (che infatti di solito viene ascritto all'esclusiva cerchia degli artisti a tutto tondo), e che generalmente si esplicita in una studiata serie di sconfinamenti linguistici dichiaratamente extramusicali. Esempio: la Lady Gaga che in Artpop flirta in maniera esibita e pure un po' pedante con la cosiddetta cultura seria, è innanzitutto l'esito “alto” di un percorso che già si era concretizzato nelle pose glamour-shock di Born This Way, ma resta prima di tutto una variante sul tema della popstar che concettualizza quella stessa cultura di massa di cui è veicolo e portavoce. In questo senso, quasi tutto in Lady Gaga rimanda a Madonna, prima (e ineguagliata) popstar femminile a reinventarsi manager di se stessa e a suo tempo personaggio-mondo senza eguali nel panorama mainstream; ma le sbandierate trovate highbrow di Artpop (la collaborazione con Marina Abramović; la copertina firmata Jeff Koons; il titolo wharoliano; ecc ecc), fanno anche inevitabilmente pensare ai Beatles che si facevano firmare gli artwork da Peter Blake e Richard Hamilton e al Bowie che negli anni '70 intervista Burroughs e intitola le canzoni a Andy Warhol. Lady Gaga insomma ci prova, e quantomeno tenta di rinverdire una tradizione che ha più volte reso la sedicente musica commerciale una faccenda quantomeno interessante. Ho qualche dubbio però che ci riesca, se non altro perché, al di là degli exploit di immagine, il suo resta un dance pop tutto sommato convenzionale. Uno legge le sue interviste, guarda i video con Marina, la ascolta che legge Solaris, studia la copertina, poi ascolta il disco e fa: embè, tutto qui?
Più interessante è il caso di Kanye West, maniacalmente intento a cucirsi addosso un personaggio certo bigger than life, ma sempre ai fini di una rispettabile (per quanto, ohibò, provocatoria) aura intellettuale. West è più audace e anche più irregolare di Lady Gaga: passa con disinvoltura dalle chiacchierate radiofoniche con Bret Easton Ellis alla moda, dalle lezioni alla scuola di design ai contratti con Adidas, e a livello di contenuti musicali ha intrapreso, quantomeno con Yeezus, una strada assai più impervia del rassicurante artpop Germanotta-style. Anche qui però, il caso West poggia su una tradizione gloriosa anche se un po' appannata: nella sua variante più nobile, il personaggio-mondo non è solo quello che nelle interviste cita come nulla fosse artisti contemporanei e registi più o meno d'essai; è anche quello che alza l'asticella del discorso musicale e che quando vuole è capace di vere e proprie opere di rottura. Per restare ai nomi sopra citati, gli esempi di scuola sono i Beatles del Sgt Pepper's o il Bowie della trilogia berlinese; in tempi meno lontani, un altro caso di artisti mainstream che spiazzano il pubblico con un lavoro “d'avanguardia” furono i Radiohead di Kid A. Sono tutti esempi molto controversi (alcune tipiche obiezioni: il Sgt Pepper's fu veramente di rottura? Da chi ha copiato Bowie? Prima dei Radiohead non c'erano già [inserire un gruppo post-rock a caso]?), e che obbligherebbero a riesumare l'annosa questione del mainstream che saccheggia l'underground, ma non è questo il punto: quello che conta è che la mitografia pop ha elevato questi momenti a passaggi fondanti della sua stessa epica. Ed è un'epica che da qualche tempo sembrava come in affanno: fino a Yeezus, appunto. Unico caso, in questo 2013, di disco-evento che aspira ad essere anche disco-mondo.
Con Yeezus, Kanye West resuscita – almeno nelle sue intenzioni – quell'ansia epifanica di cui il mondo del pop è rimasto orfano dopo quindici anni di nostalgie retromaniache e nicchie evanescenti: anche Yeezus è stato presentato come un disco “difficile”, “di rottura”, “d'avanguardia”. Lo è? Va bene, diciamolo subito: no, non lo è, e appena pubblicato sono fioccati paragoni con una lista di precedenti praticamente infinita; la sensazione semmai è che West non abbia realmente pensato a Yeezus come a un lavoro ambizioso, quanto come a un'affermazione egotica funzionale all'aura del personaggio, di volta in volta imprevedibile, pretenziosa, beffarda e non di rado arrogante. Come nel caso di Lady Gaga, gli slanci “verso l'alto” restano come in superficie, non vanno granché oltre una fila di dichiarazioni roboanti e un po' crasse, e nel suo caso lasciano la sgradevole impressione di avere a che fare con una versione hip-oriented e pure un po' isterica di un Jay-Z qualunque. Però bisogna dirlo, a dosi controllate è anche divertente. L'ultimo video l'avete visto?
Non so, forse il personaggio-mondo più interessante del panorama mainstream resta M.I.A., che quest'anno è tornata con un disco dalla scarsa fortuna commerciale. Anche lei, coi suoi flirt col mondo della moda e dell'arte, aspira implicitamente a quell'ideale rinascimentale che per decenni si è intestardito a emancipare la musica per le masse dallo status di espressione artistica di serie B, e i suoi (grossolani) proclami “politici” la rendono quantomeno una presenza problematica anche se maldestra. Musicalmente è forse l'unica che riesce a restituire una certa idea di contemporaneità, e l'ultimo Matangi mi è capitato di descriverlo come un guazzabuglio di “informazioni ai tempi di twitter, conflitti interculturali e NSA”, il che suppongo sia un complimento. E però in fondo M.I.A. resta una musicista di nicchia, come di nicchia sono Kanye West e persino Lady Gaga: nessuno di loro può catalizzare le aspettative del tanto agognato pubblico universale per il semplice fatto che... be', che quel pubblico lì non esiste più, e se da qualche parte esiste alla musica proprio non ci pensa. Persino i dischi-evento raccontati in apertura assomigliano a fantasmatici simulacri di quello che fu; immagino non sia un caso che gli unici a riuscire veramente nell'impresa di piegare l'immaginario collettivo alle proprie gesta, siano stati proprio i Daft Punk con un brano che sembra uscito trent'anni fa.
P.S. Il mio disco del 2013 comunque è quello di James Holden. A ruota i Master Musicians of Bukkake.
P.P.S. Nel 2013 è morto Lou Reed.
Le 5 migliori esultanze e le 5 peggiori capigliature calcistiche del 2013
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)
Le esultanze:
5. Daniel Sturridge (Liverpool FC). 19 Gennaio 2013. Avversario: Norwich City.
Significato dell'esultanza: non ha un significato vero e proprio. Così come la carriera di Sturridge fino all’arrivo a Liverpool. Cresciuto nel Manchester City, ha lasciato l’Etihad Stadium proprio nel momento in cui da quelle parti si cominciava a respirare aria di vittorie. Si è trasferito al Chelsea, dove non è mai riuscito a sfondare del tutto. Sulle rive del Mersey, dove è arrivato il 2 Gennaio dell’anno che sta per finire per 12 milioni di sterline, ha già messo a segno 22 reti in 30 partite, media invidiabile. E Sturridge, fino a quel momento una promessa solo parzialmente realizzata, quando ha segnato il suo primo gol con la maglia dei Reds all’esordio ad Anfield Road ha pensato d’esultare così, sotto la Kop.
Per riprodurre l’esultanza: agitare le braccia all’altezza della testa, un po’ walk-like-an-egyptian, un po’ electro-wave e abbandonarsi all’estasi del momento.
Non tutti sanno che: Ride the wave è il nome che FIFA14 ha dato all’esultanza di Sturridge, fedelissimamente riprodotta.
4. Muteba Kidiaba (TP Mazembe) 20 Gennaio 2013. Avversario: Ghana.
Significato dell’esultanza: dopo averla già proposta durante la semifinale del Mondiale per Club del 2010, quando il suo TP Mazembe aveva sconfitto per 2 a 0 l’Internacional di Porto Alegre, Kidiaba è tornato ad esibirsi nel ride the cat nella sfida tra la Nazionale del Congo, di cui difende i pali, e il Ghana disputatasi al Nelson Mandela Bay Stadium di Port Elizabeth durante la Coppa d’Africa 2013. Un festeggiamento che contiene in nuce tutti gli stereotipi del portiere spericolato, un po’ mattacchione, pieno di sicurezza e verve, fatalmente istrionico, estremo difensore d’una compagine non forte ma simpatica e agguerrita.
Per riprodurre l’esultanza: sedersi in terra e saltellare sul deretano avendo cura di non poggiare a terra i talloni e di esercitare il movimento servendosi di ripetute sollecitazioni dei reni. Sconsigliato a chi sta intraprendendo trattamenti terapeutici per sintomatologie emorroidali.
Non tutti sanno che: TP in TP Mazembé significa Tout-Puissant, Onnipotente. Molte squadre congolesi si ispirano all’ambiente clericale: c’è una società di prima divisione, ad esempio, che si chiama Don Bosco.
3. Cristiano Ronaldo “Hic et Nunc” (Real Madrid C.F.) Svezia-Portogallo 2-3, 19 Novembre 2013, gara di ritorno del playoff per la Qualificazione ai Mondiali di Brasile 2014.
https://www.dailymotion.com/video/x17e3td_cr72_sport
Significato dell’esultanza: immaginate di essere il miglior calciatore al mondo e di non essere mai stato riconosciuto formalmente (ancora) come tale. Avvertirete subito un’incontrollabile smania di gridare la vostra presenza, di reclamare a gran voce i riflettori solo e soltanto su di voi. All eyes on me dopotutto fa rima con Yo estoy aquì.
Per riprodurre l’esultanza: corricchiare lungo l’out laterale incitando alla calma, poi rivolgere le punte delle falangi verso il proprio petto e subito dopo puntarle verso il basso dimostrando il proprio attaccamento all’hic et nunc della rispettiva epoca storico-calcistica. Prestate però attenzione, perché in determinate serate particolarmente squallide lo stesso gesto può essere interpretato come irrimediabile ancoraggio a una realtà di provincia.
Non tutti sanno che: in portoghese hic et nunc spesso viene tradotto hic et nunc.
2. Thierry Henry “Henrying” (New York Red Bulls) 16 Settembre 2013, NY Red Bulls vs Toronto. 400esima rete in carriera di Thierry Henry. Uno dei casi di viral meme più perniciosi della storia recente dell’internet futbolistico.
Significato dell’esultanza: ti chiami Thierry ma per tutti sei Titì. Hai solcato i campi di tutta Europa, vinto molto, segnato tantissimo, 399 reti in carriera. Contro una squadra canadese t’arriva un cross dalla destra, teso il giusto, veloce il giusto. Hai i tempi perfetti, puoi chiudere con il sinistro. Devi solo piegarti un po’ sulle ginocchia e accompagnare la palla col piatto. Scivoli contro il palo, quasi ci sbatti, mentre il sacco si gonfia. È la Quattrocento. Il pubblico ti sta acclamando, mentre ti rialzi. Diventare un viral meme: non hai la più pallida idea di come si faccia, o cosa significhi.
Per riprodurre l’esultanza: cercare qualcosa cui appoggiarsi, qualsiasi cosa. Poi bisogna reclinare la testa, come in un’espressione di disillusione, o stanca rassegnazione. La mano destra va a poggiarsi sul fianco destro, o la sinistra sul sinistro. La gamba del versante sul cui fianco è poggiata la mano fa da perno piantato al suolo, l’altra incrocia con la punta del piede a fare da puntello.
Non tutti sanno che: il plurale di meme è memi.
1. La squadra di Tahiti (FTF) - 17 Giugno 2013, Estadio Mineirao, Belo Horizonte. Prima giornata di Confederations Cup.
Significato dell’esultanza: a quanto pare dev’esserci un certo ormone che sviluppano le squadre senza-niente-da-perdere, un enzima che le spinge a inscenare esultanze spiritose, pittoresche ma soprattutto collettive quando il risultato raggiunto va ben oltre le più rosee aspettative (mi viene in mente il trenino del Bari, ad esempio). Tahiti, durante la Confederations Cup, ha raccolto la palla dal sacco per ben 24 volte, una media di 8 volte a partite. Nell’esordio, contro la Nigeria, sotto di tre reti ha segnato il gol della bandiera (che riapriva la gara? nah) al 54° minuto con Tehau. E ha festeggiato come? A colpi di pagaia.
Per riprodurre l’esultanza: come rituale melanesiamo comanda, radunarsi tutti in circolo con le tasche piene di franchezza, guardandosi negli occhi per accertarsi di essere davvero la squadra materasso; ma davverodavvero, nessuno che spicchi sugli altri. Ecco, in quel momento verrà naturale remare all’unisono. Non foss’altro per spirito di metafora, se è vero com’è vero che volenti o nolenti alla fine della fiera si è tutti sulla stessa barca.
Non tutti sanno che: era tahitiano Charles Ariiotima, arbitro che condusse Serbia-Tunisia ai giochi Olimpici di Atene nel 2004. All’80° minuto ha concesso un rigore ai maghrebini che ha fatto ripetere sei-dico-sei-ripeto-sei volte (il povero rigorista era Jadidi). Dalle sue parti, ha spiegato, repetitahiti iuvant.
Le capigliature:
5. Nathan Rutjes (MVV Maastricht)
Descrizione: mullet 2.0 (quando il classicismo del taglio unnico incontra la metrosessualità dello spiky)
Centrocampista ex Sparta, la seconda squadra della città che ha dato i natali alla musica techno, Rotterdam, è famoso in Olanda e non solo per tenere in vita la seducente e anacronistica arte della manutenzione del mullet.
Non tutti sanno che: ‘mullet’ letteralmente significa cefalo, e non triglia come erroneamente viene tradotta l’espressione ‘like a stunned mullet’ (come una triglia stordita). Il taglio è altresì conosciuto col nome di capelli da giostraio.
4. Aristide Bancé (FC Augusta)
Descrizione: rasatura alta, ciuffi ossigenati di dreadlock disordinati, parvenze di fritto misto gamberi e patatine.
Cognato di Aruna Dindane, il burkinabé (o meglio, l’ivoriano naturalizzato burkinabé) presentandosi col capello color platino alla Coppa d’Africa 2013—che ha visto il Burkina Faso a un passo dalla vittoria finale, sconfitto solo all’ultima partita dalla Nigeria—ha fatto il suo ingresso honoris causa nell’XI dei blonde-haired blackies, formazione che annovera tra gli altri James, Abel Xavier, Sagna, Isaac Vorsah, Djakaridja Kone, Ba, KP Boateng, Diouf, Djibril Cissé e Sibassio Zuma. Un undici niente male, per altro.
Non tutti sanno che: il Burkina Faso è l’unico Stato al mondo che cita indirettamente un membro del gruppo Elio e le Storie Tese.
3. Karim Benzema (Real Madrid CF)
Descrizione: doppio taglio rasato nell'emisfero sinistro, a destra capello medio lungo leccato.
Il centravanti francese non ha mai brillato per sobrietà dell’outfit. Ma se la rasatura completa, completata dalle due unghiate di leone che garantivano aereodinamicità, era quantomeno passabile, il look sfoggiato a inizio stagione in corso lasciava decisamente interdetti. Una riga in mezzo molto marcata alla destra del quale penzolava una sorta di toupé biondiccio tutt’avvoltolato su sé stesso con afflati rockabilly.
Non tutti sanno che: nonostante tutto, Karim e il suo hairstylist sembrano essere davvero molto amici.
2. Simeone (Giovanni, River Plate)
Descrizione: tonsura romana con rimasuglio di coda (Giovanni).
È stato il (falso) gossip dell’estate 2013: ma che capelli s’è fatto Giovanni el cholito. (figlio di Diego, che di suo sfoggia una classica leccata all’indietro con copioso uso di brillantinaGomina Brancato). Il fatto è che nel River, quando dalle giovanili sali in prima squadra, c’è un destino che ti tocca, in una maniera o nell’altra: la tonsura. E quello che il primo giorno appare come un taglio sbarazzino, buffo, ridicolo, già il giorno dopo si trasforma in rasatura totale. E dal terzo in poi, c’è da iniziare a buttar sudore, come rinati. Simeoncito quest’anno con la gloriosa casacca dei millonarios ha già giocato 11 partite e segnato 2 reti (questa e quest’altra) Per quanto riguardo il cholo senior, invece, la lunga—ma non propriamente folta—chioma non è dettata da un atto di nonnismo; sembra più una diretta emanazione dello spirito di Carlos Gardel.
Non tutti sanno che: nella sua prima uscita in assoluto, nel 1904, il neonato River Plate venne sconfitto da una selezione di studenti universitari in medicina. Autore di una doppietta fu Bernardo Houssay, poi Nobel per la Medicina nel 1947.
1. Raheem Sterling (Liverpool FC)
Descrizione: basette Del Piero 1999 + Ronettes + Mike Tyson + James Brown = Raheem Sterling.
Un risultato che neppure nella più lisergica delle sessioni di edit di Pes.
Non tutti sanno che: Sleigh Bells—conosciuta anche come Jingeling Tingeling—è stata cantata sia delle Ronettes che da James Brown. Non è nota la versione intonata da Raheem Sterling.
L'estetica dell'anno: Pacific Rim
di Clara Miranda Scherffig (@cmirffig)
Il giorno in cui i robottoni hanno fatto coming out era una bella serata d'estate e io ho comprato una busta small di popcorn che si è rivelata inadeguata alle dimensioni di una “piccola ragazza” come me. Il pacchetto di popcorn è rimasto diversi giorni sul piano della mia cucina, svuotato a piccole manciate mentre cercavo di capire cosa mi aveva colpito di quel bel filmone chiamato Pacific Rim. All'inizio mi sono concentrata sui colori: avevano qualcosa di ulteriore, come un iPhone taroccato in Tailandia o una confezione di evidenziatori Stabilo se li avessero venduti a Woodstock. In giro avevo letto che il “color palette” di Pacific Rim era come quello di Spring Breakers, ma non ero d'accordo perché i colori del film di Harmony Korine sono rintracciabili storicamente nel feticcio dei ciucci o nella versione pastello delle nuance da rave primi anni Novanta; portano con sé dei riferimenti puramente culturali e non “meccanici”. Era proprio il dettaglio meccanico, organico, quello che mi aveva colpito—e infatti rivedevo i colori acquosi delle lotte tra Kaiju e Jägers in un film come Enter the void, dove la luce proviene dal neon splendente e distorto dalle allucinazioni del protagonista. Come Guillermo del Toro, Gaspar Noé usa una tavolozza che ha origine nella realtà (i bulbi accesi delle insegne luminose, il scintillio elettrico della corrente) ma che la percezione umana distorce per abitudine—quanto, oggi, le macchine che usiamo sono protesi, piuttosto che semplici ingranaggi? Ecco dunque, che Pacific Rim era una specie di allucinazione della meccanica moderna, le cui forme vantano una fabbricazione analogica ma una fruizione digitale e quasi ideologica. Infatti conviene notare che le due parti, i Kaiju e gli Jägers, prendono il proprio nome da due delle nazioni più all'avanguardia per quanto riguarda l'industria pesante e la produzione di apparecchiature tecno-elettrodomestiche, il Giappone e la Germania. Del resto una lotta Toshiba contro Bosch avrebbe fatto quasi lo stesso effetto! Punto finale di questa elucubrazione alquanto spericolata sono stati i titoli di coda di Pacific Rim, forse momento migliore di tutto il film (dai che l'abbiamo visto tutti per le figure, non per la storia!). La corazza e gli ingranaggi tutti smussati sono esposti come merce preziosa, come una torta farcita sul piano girevole di una pasticceria di lusso, mentre la martellante colonna sonora contrasta con i movimenti fluidi della ripresa.
Allora mi sono ricordata di due precedenti identici, riportabili alla stessa estetica (e alla stessa rappresentazione uomo vs/♥ modernità). La sequenza di apertura di The girl with the dragon tattoo (2011) hanno una fattura similissima, solo con maggiore liquidità, come se il materiale utilizzato nel 2013 per la saldatura degli Jäger fosse all'epoca ancora allo stato di prototipo, di esemplare di prova. C'è infatti un video di diversi anni prima, del 2009, che sembra porre le basi di questa ondata di futurismo analogico, dove l'elettricità non basta più per alimentare il cuore della meccanica, e il nucleare diventa la nuova energia pulita.
Il video si chiama User Group Disco ed è un lavoro dell'artista inglese Elizabeth Price, che ha vinto il Turner Prize l'anno scorso con un pezzo molto simile e altrettanto sconvolgente (The Woolworth Choir of 1979, da vedere!). In User Group Disco l'artista si cimenta con il nostro attaccamento alle cose, e analizza visivamente la superficie varia e porosa dei beni a cui teniamo. Questi oggetti sono installati su spirali e cerchi rotanti quasi fossero ad una fiera espositiva e mostrano la propria consistenza lucida, a metà tra vetro e ceramica cromata. Schiudendosi sullo schermo, un po' come “uova di Alien”, questi corpi hanno la qualità della materia prima e sembrano costituire le basi per un rapporto uomo/macchina che non è più conflittuale.
Anzi, l'interazione tra il cuore e il frullatore, tra la mente e l'etere del wifi, sembra qui come in Pacific Rim, assumere le forme armoniose di una nuova estetica. Insomma, se un giorno ci saremo finalmente sbarazzati di quell'etica vecchia e infondata per cui uomini e macchine non vivranno mai in equilibrio, sarà anche grazie ai mostri giganti di Guillermo del Toro.
Le 5 squadre italiane del 2013
Di Francesco Costa (@francescocosta)
Non sono necessariamente le più forti, non sono necessariamente quelle che hanno vinto di più: sono quelle che quest'anno non lo dimenticheranno.
Trapani
Il 2013 per il Trapani è iniziato come squadra neo promossa in Lega Pro Prima Divisione ed è finito a metà della classifica della Serie B. In mezzo c'è stato un girone di ritorno senza sconfitte e un campionato chiuso col miglior attacco. Il tutto a dieci anni dal fallimento e dalla rifondazione che hanno fatto ricominciare tutto da capo, con una rosa composta in gran parte da calciatori siciliani e trainata da un 28enne attaccante sardo, Matteo Mancosu, che ha segnato 15 gol nella stagione di Lega Pro conclusa nel 2013 e ne ha già segnati 12 in questi primi mesi di Serie B, diventando il momentaneo capocannoniere del torneo. Nel frattempo, sedicesimi di finale di Coppa Italia giocati a San Siro contro l'Inter: ciliegina sulla torta.
Il momento dell’anno: 4 dicembre 2013
Come se giocare a San Siro contro l'Inter non fosse già di per sé un fatto abbastanza gigantesco, il Trapani va sotto di tre gol e nel secondo tempo ne segna due. Una festa
Juventus
È stata la squadra di Serie A a fare più punti nell’anno solare, ha vinto il suo secondo Scudetto consecutivo e si trova nella migliore posizione possibile per vincere anche il terzo: solo l’esagerata partenza della Roma tiene leggerissimamente aperto un campionato che altrimenti sarebbe già blindato, dopo aver 14 vittorie, un pareggio e una sconfitta nelle prime 16 giornate di campionato. Semplicemente la squadra più forte d’Italia. Una sola macchia fin qui: l’eliminazione anticipata dalla Champions League rischia di incoraggiare le squadre pretendenti ai suoi calciatori migliori e rendere più complicati gli investimenti sul mercato. Ma questo in fin dei conti renderebbe il 2013 ancora più irripetibile.
Il momento dell’anno: 10 novembre 2013
Vincere contro una diretta avversaria, con una mano dietro la schiena, e con un gol così
Sassuolo
Ha dominato il campionato di Serie B dall’inizio alla fine ed è stato promosso in Serie A per la prima volta nella sua storia: con un gol in casa al 96’, come nei film. Ha un allenatore promettente e una delle migliori giovani punte mancine in circolazione, Domenico Berardi. In questo momento in Serie A si trova di poco fuori dalla zona retrocessione, con buone possibilità di giocarsela fino alla fine del campionato—ed è stato bravo a rimettersi in piedi, visto che aveva iniziato questa sua prima stagione in Serie A con quattro sconfitte consecutive.
Il momento dell’anno: 18 maggio 2013
Il gol decisivo sul triplice fischio
Salernitana
È stata un piccolo pezzo di storia del calcio italiano degli anni Novanta: Delio Rossi e Salvatore Fresi, Franco Colomba e Marco Di Vaio, Gennaro Gattuso e David Di Michele, Francesco Oddo e quell’incredibile rimonta mancata nel 1999. Poi è precipitata dalla B alla Lega Pro, dal fallimento alla radiazione. È ripartita nel 2011 grazie a una singolare coppia di proprietari—Claudio Lotito, Marco Mezzaroma—e ha iniziato il 2013 in Lega Pro Seconda Divisione col record di vittorie consecutive. Ha continuato l’anno col record di partite senza sconfitte, la sua seconda promozione consecutiva, la vittoria della Supercoppa di Lega e l’inizio del campionato in Lega Pro Prima Divisione. Trovare un’altra promozione quest’anno sarà complicato, ma quella è una questione che riguarderà il 2014.
Il momento dell’anno: 25 maggio 2013
La vittoria del primo trofeo della storia della Salernitana
Roma
Ma come, l’anno del Famigerato Derby Perso In Finale Di Coppa Italia? Sì. Non che non conti, anzi: proprio perché conta. Fate uno sforzo di fantasia: la Roma vince il derby e la sua decima Coppa Italia, schianta la Lazio, euforia suprema. Con ogni probabilità Andreazzoli viene confermato allenatore, forse persino a furor di popolo. E poi? Oltre a Marquinhos e Lamela probabilmente viene ceduto Pjanić, forse anche De Rossi. Per comprare chi? E per trovarsi dove, alla fine del 2013? In che condizioni? Guai a pensare che sia stato giusto così—le finali si vincono e basta—ma è indubbio che sia stato il disastro del 26 maggio a innescare quel meccanismo per cui la Roma sceglie Rudi Garcia, cambia direzione sul mercato rispetto alle due precedenti stagioni e mette insieme una squadra che—bum!—neanche il tempo di partire ed entra subito nella storia del calcio italiano.
Il momento dell’anno: 26 maggio 2013
La fine e l’inizio di tutto
Credito immagine di copertina: Trittico del Giudizio Universale di Hans Memling, dettaglio, olio su tavola, 1467-1473 circa, Muzeum Narodowe, Danzica.
Ecco la prima e la terza parte della lista della fine del mondo.