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Fratelli
10 giu 2015
Che peso ha la fratellanza nello sport moderno? Storie di fratelli, unioni e conflitti.
(articolo)
19 min
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Steph e suo fratello

Durante il discorso per la consegna del premio come MVP, Steph Curry ha rivolto delle splendide parole al fratello Seth:

«Sono fiero di te, fratello. Ci siamo affrontati in tante battaglie crescendo. Ci siamo sfidati ogni giorno quando giocavamo quegli uno contro uno nel cortile. Le nostre partite andavano avanti fino a notte, e potevano concludersi solo per due ragioni: uno, arrivava la mamma a dirci di smetterla perché stavamo disturbando i vicini. Era tardi e se avessero sentito il pallone rimbalzare avrebbero potuto chiamare per dirci di fare silenzio. O due, andavi fuori di testa perché ti stavo battendo, e tu mi accusavi di imbrogliare perché non ti avevo dato un fallo. Allora prendevi la palla e entravi in casa fino a quando non ti richiamavo dicendo: “Va bene, prenditi quel fallo—mettiti in lunetta”. Quelle battaglie, non le dimenticherò mai. È stato molto divertente, anche solo a guardare come siamo cresciuti e dove siamo arrivati. Non c’è limite per te. Continua a fare ciò che sai fare e continua a rendere orgogliosa la tua famiglia».

Seth ha ascoltato piangendo con la testa tra le mani. Commosso per la vittoria di Steph, e forse un po’ invidioso visto che “le tante battaglie” hanno reso il fratello “il miglior giocatore NBA dell’anno” e lui a malapena degno di giocarci in quel campionato (8 minuti quest’anno, 17 in carriera, poi tantissime partite in D-League).

Steph Curry a 14 anni gioca con il fratello Seth e sogna un futuro NBA.

Forse avrà pensato che è comunque un riconoscimento fantastico: lo sparring partner di una vita del miglior giocatore, o forse si chiede cosa gli sarà mancato e se è colpa sua o della natura o del gioco. O forse semplicemente non ha pensato a niente e ha ragione Steph. Ha la coscienza di fare del suo meglio e questo gli basta. Non voglio pensare male per forza, magari è davvero più felice che invidioso.

Impressioni di un padre di figlio unico

Al termine dell’anno scolastico–sportivo mio figlio, 6 anni, ha partecipato a due gare. Ha partecipato a un torneo di tennis con poco più di venti bambini che si è concluso con una finale tra una coppia di gemelli di sesso diverso. E poi ha corso una sorta di corsa campestre con 150 partecipanti che si è conclusa con uno spartano e inutile fotofinish, perché tanto si era già deciso di premiare comunque i primi due. Anche questa gara l’ha vinta una coppia di fratelli, dello stesso sesso stavolta. In entrambe le competizioni hanno vinto i più bravi, non c’è dubbio, ma io ho avuto la sensazione che tutte e due le volte i fratelli fossero i più bravi perché avevano sviluppato già uno spirito di competizione più accentuato degli altri. Avevano più voglia di battersi, e vincere.

La vincitrice del torneo di tennis, dopo la vittoria sul fratello, aveva persino epicamente detto al fratello: «Tu eri il mio unico avversario». La mamma aveva provato a smorzare la cosa avvertendola che avrebbe trovato difficoltà anche con gli altri—e facendo attenzione a farsi sentire dagli altri genitori. Ma in realtà, però, aveva ragione la figlia. Il fratello era davvero il suo unico avversario.

Pau e Marc

A quasi 35 anni e alla quattordicesima stagione NBA, Pau Gasol ha giocato una delle migliori stagioni della sua carriera. Anzi, per alcune statistiche è stata addirittura la migliore in assoluto. (Per esempio ha preso 11.8 rimbalzi a partita contro gli 11.3 della stagione 2009-10). A inizio gennaio, contro i Bucks, ha anche realizzato il record personale di punti in una sola partita, 46. Ci si aspettava una grande stagione dei Bulls, ma non ci si aspettava un Gasol così in palla. Un po’ per le ovvie ragioni anagrafiche; un po’ perché si sapeva che inserito in un contesto con più stelle avrebbe avuto meno tiri, rimbalzi, assist da dividersi; un po’ perché perfino nell’ultima stagione ai Lakers da leader (con Kobe fuori servizio e la squadra nelle sue mani) aveva dato l’impressione di essere nella parabola discendente della carriera.

I commentatori sono concordi nel limitare a due le ragioni principali dell’ottima stagione di Gasol: le motivazioni e i compagni. In breve, essere inserito in un contesto adatto alle sue caratteristiche e competere di nuovo per il titolo gli ha ridato l’entusiasmo degli anni dei titoli ai Lakers. A me piace credere che ci sia un’altra ragione fondamentale nella stagione straordinaria di Pau e cioè la stagione fenomenale di Marc Gasol, il fratello di Pau. Marc, a lungo, è stato addirittura in lizza per vincere il premio di MVP della stagione (non è successo, ma già che fosse tra i papabili era inimmaginabile). E nell’ultimo All-Star Game Pau e Marc sono state le C titolari della partita, Pau per l’Est e Marc per l’Ovest, un po’ come se due fratelli americani fossero i due centravanti della finale di Champions League.

«Pau e Marc potevano finire per assaltarsi alla gola anche sfidandosi a chi faceva rimbalzare di più un sasso sul’acqua, a Uno o a bocce. “È nel nostro DNA”, dice Marc, "perché non è qualcosa che possiamo cambiare. Non è neanche una cosa che c’entra con la pallacanestro. Non ci piace perdere uno contro l’altro in qualcosa. Qualsiasi cosa a cui giochiamo. Ci piace da matti giocare a Hungry Hippo ma anche lì odiamo perdere. Sì, una volta abbiamo passato tutta la notte giocando a Hungry Hungry Hippos—un gioco da tavolo in cui lo scopo del gioco è mangiare più biglie di ogni altro ippopotamo. Iniziammo facendo una partita, poi diventò al meglio delle tre partite, che poi diventò al meglio delle cinque, che poi diventò una partita al meglio delle sette. Fu come una finale NBA, ma con gli ippopotami"». Da questo fantastico articolo sulla storia di Pau e Marc.

In questo video, in cui per la prima volta i due giocano nello stesso All-Star Weekend (Marc nella sfida dei rookie) si nota l’estremo imbarazzo che hanno a parlare l’uno dell’altro.

Una motivazione in più rispetto al solito riscatto sociale?

Ho ripensato all’idea della competizione tra fratelli leggendo un’intervista di Emanuela Audisio a Roberto Durán, su La Repubblica.

Tra le altre cose, il pugile raccontava: «Mia mamma ricordò a un reporter quanto fosse stata dura la nostra vita e che da piccolo le avevo detto: non preoccuparti, quando sarò grande tutto cambierà». Mi è sembrata una risposta efficace ma, tutto sommato, facile. Non voglio dire che sia necessariamente falsa, ma è una risposta facile perché la più attesa. Tra tutte le motivazioni citate dagli atleti per raccontare il proprio successo, infatti, quella del risollevare la famiglia da una condizione di miseria è una delle più comuni e commoventi. L’idea del sacrificio con un obiettivo è molto efficace. Si simpatizza facilmente con essa.

Non è l’unica motivazione, ovviamente. Anzi, c’è una letteratura sterminata di motivazioni più o meno abbozzate per raccontare il successo sportivo: il desiderio di essere sempre primi, il talento naturale, la predisposizione, lo spirito competitivo, voler rendere felici i propri genitori, guadagnare, sconfiggere la noia, trovare un’occupazione nobile all’interno di un contesto difficile, voler emulare i propri miti, sfogare la propria rabbia, sfogare la propria frustrazione, sfogare anche solo il desiderio di muoversi.

Javier e Sergio Zanetti.

Ma a me sembra manchi una componente fondamentale che nella crescita di ogni adolescente non figlio unico, e quindi di molti talenti dello sport, è fondamentale ed è quella che conferma Steph Curry tra le righe: voler battere il proprio fratello o sorella (da ora in poi per semplicità lo chiameremo solo fratello), essere più bravi e migliori di lui. Perché fare meglio di tuo fratello, quotidianamente, in qualsiasi sport, in qualsiasi attività, ai rigori, ai videogiochi o nel tiro della cartaccia nel cestino, è per chiunque abbia un fratello una costante della crescita.

E i fratelli sfigati?

Oggi nella maggioranza delle scuole italiane si cerca, a differenza del passato e nonostante a volte sia perfino antieconomico, di non lasciare che i bambini studino con le stesse maestre dei propri fratelli per fare in modo che loro non si facciano condizionare dalla competizione. Ed è un accorgimento che tiene conto di quanto i paragoni possano mettere a rischio la crescita di un ragazzo. Con lo sport, però, non si va altrettanto per il sottile. Per carità, il bravo insegnante spiega che in fondo i bambini vengono divisi per età diverse e dunque la competizione, quella deleteria, tra fratelli non esiste. Ma non può essere del tutto così.

Se immagino Eddy Baggio, Max Vieri, Hugo Maradona, Digao (il fratello di Kakà), tutti fratelli minori nello specifico, non riesco a credere che essere in un gruppo anagrafico diverso da quello dei fratelli possa averli distratti. O che il loro desiderio di essere più bravi si sia esaurito nel battere i compagni durante gli allenamenti e non, anche, nei pomeriggi a casa con i fratelli.

Andre e Philly Agassi.

Ovviamente, esistono anche fratelli maggiori che hanno avuto meno successo sportivo dei rispettivi minori, tipo Sergio Zanetti, Beppe Baresi o Philip Agassi. Ecco qualche riga di Open in cui Andre Agassi racconta un dialogo che può lasciarci immaginare cosa passa per la testa di Steph Curry quando deve decidere se e come ringraziare pubblicamente il fratello:

«È Philly a rispondere [al telefono, ndr]. Allora, dice. Ti è arrivata una lettera dell’ATP»

«Ah sì?»

«Vuoi conoscere la tua posizione in classifica?»

«Non lo so, dovrei?»

«Sei numero 610»

«Davvero?»

«Seicentodieci al mondo, fratello»

«Il che significa che ci sono soltanto seicentonove persone più brave di me nel mondo intero. Sul pianeta Terra, nel sistema solare, sono il numero 610. Batto il palmo sulla parete della cabina telefonica e urlo di gioia»

«Dall’altra parte c’è silenzio. Poi, in una specie di sussurro, Philly domanda: "Che effetto fa?"»

«Non riesco a credere di essere stato così egoista da gridare nell’orecchio di Philly mentre lui deve sentirsi amaramente deluso. Vorrei potergli gettare sul petto la metà dei miei punti ATP. In un tono di grandissima noia, soffocando un finto sbadiglio, gli rispondo: "Sai che ti dico? Non è niente di che. È tutta una montatura"».

Il lato positivo della competizione

I manuali per allenatori, e con manuale intendo un genere quanto mai eterogeneo di insegnamenti, suggeriscono sempre di porre degli obiettivi minimi all'atleta in modo che nel provare a raggiungerli e nel sapersi sempre superare possano rinnovare quotidianamente il desiderio di migliorare. Uno schema facilmente sovrapponibile a quello dei videogiochi: così come il videogioco offre difficoltà sempre maggiori, intervallate a momenti decisivi, così l’educazione sportiva trova motivazioni alternando allenamento e gare. Perché non solo le gare, come appare scontato, rispondono a questo genere di motivazioni, ma anche gli allenamenti attraverso un lavoro noioso e invisibile devono saper offrire stimoli.

Se però la competizione è davvero, come accettato da ogni maestro, una componente necessaria dell’affinamento delle proprie capacità, allora non esiste nessun tipo di competizione più coinvolgente di quella contro un fratello. Perché da ragazzini nessuna vittoria è coinvolgente quanto quella su un fratello. Perché puoi crearti un acerrimo nemico, un compagno prediletto, un avversario da abbattere, ma tuo fratello (esagero, eh) ti ruba l'amore dei genitori, ti ruba l'attenzione degli altri, vuole i tuoi giochi, ti interrompe mentre racconti le tue imprese per rilanciare con le sue, cena a casa con te, è quello che ti fa scoprire cos’è la gelosia.

Reggie e Cheryl Miller.

Racconta Federico Buffa in Black Jesus un episodio celebre della vita di Reggie Miller, uno dei migliori realizzatori d’ogni epoca nella NBA, nonché fratello minore di una giocatrice entrata nell’Hall of Fame, che può rendere bene l’idea di cosa sia questa sfida quotidiana: «Avrete probabilmente sentito cento volte della storia di quando un trionfante Reggie diventò giocatore, tornò a casa e a volume alto come quello dell'arrotino che passa la mattina "... papà, papà, ne ho messi 39, dico 39 susine!". "Grande Reg, davvero. Ah, dimenticato... sisterona 105!". "Quanti?". "105"».

Sensi di colpa

Ci sono poi contesti più chiusi, come quello degli sport invernali, in cui il professionismo sembra quasi l’evoluzione delle sfide o dei fine settimana in famiglia sulla neve tale è la frequenza di fratelli professionisti. Per limitarci alla sola Italia, i fratelli Moelgg, Pramotton, Valbusa, Di Centa, Fanchini, Bergamelli (quattro professionisti!). E in effetti, a prima vista, potrebbe sembrare più semplice valutare la competizione con un fratello all’interno di uno sport individuale visto che, come dice Steph Curry, ciò che conta per la crescita è la sfida giornaliera, gli uno contro uno al canestro appeso sul retro della casa.

Una cosa simile potrebbe essere la rete del tennis e una vicenda esemplare in tal senso potrebbe essere questa: nel 1991, mentre il fratello John è in parabola discendente già da qualche anno (si ritirerà l'anno successivo) Patrick McEnroe comincia a fare sul serio. Arriva in semifinale agli Australian Open e questo risultato (peraltro rimasto ineguagliato) gli dà molta fiducia perché gli permette di entrare nei primi cento al mondo. Il mese successivo si presenta al torneo di Chicago ancora carico e arriva in finale. La prima finale della sua carriera nel circuito professionistico, prima di allora non c'era arrivato neppure vicino. E indovinate un po' chi si ritrova in finale? Il fratello. Che nell’ultimo anno e mezzo aveva vinto solo un torneo (il 98.esimo della sua carriera).

Finale Open di Chicago, 1991, John McEnroe vs. Patrick McEnroe.

McEnroe grande si impegna alla morte e vince. E questo di Chicago sarà l'ultimo torneo vinto in carriera da John. Patrick dovrà aspettare altri quattro anni per giocare un'altra finale, e vincerla stavolta. Quando l'ingombrante fratello si sarà ormai ritirato. Può essere stato casuale, per carità. Però non è assurdo pensare che John abbia tirato fuori del suo meglio proprio quella settimana dopo anni e per l’ultima volta nella sua vita proprio per sfidare il fratello.

Ma per non accusare John di crudeltà ecco di nuovo Agassi: «È un match d’allenamento, niente di che, e io sono molto più forte del mio avversario, ma gli do una mano, tiro per le lunghe i punti, faccio sembrare l’incontro più duro di quanto non sia. Uscendo dal campo 7 del Cambridge mi sento distrutto perché il mio avversario appare distrutto. Vorrei aver perso apposta. Odio perdere, ma odio anche aver vinto, perché questa volta l’avversario sconfitto è Philly» (pag. 48).

Tuttavia, pur essendoci decine di casi anche nel tennis—i fratelli Emilio e Javier Sánchez si diedero parecchio da fare per superarsi fino a che la sorella, Arantxa, fece molto meglio di entrambi; lo Zimbabwe ha i suoi tre fratelli tennisti, Wayne, Byron e Cara Black (nonostante il cognome, bianchissimi); le sorelle Williams non servirebbe neanche citarle; i gemelli Bryan che hanno segnato il doppio negli ultimi anni; e anche l’Italia ha i suoi fratelli Panatta—sono del tutto inutili a un’indagine di qualche tipo. Le storie di fratelli e sport ci affascinano ma è difficile che riescano a superare lo “strano ma vero”. Diventano argomento di curiosità, confronto, fonte di storie, materiale pubblicitario e di racconto, ma non di statistiche e men che meno di studio.

Claudio e Adriano Panatta

Il giornalista Federico Ferrero suggerisce, a proposito di Claudio e Adriano Panatta, che la presenza di un fratello maggiore in gamba in un determinato sport di fatto imponga quella scelta anche al fratello minore e ne determini il successo. E suggerisce anche qualcosa più difficile da accettare, ma non per questo meno probabile e cioè che il tennis abbia perso molti Claudio Panatta, vale a dire ottimi ma non eccelsi giocatori, che non sono stati avviati allo sport perché non avevano Adriano in casa. (Nel caso dei Panatta, tra l’altro, c’è anche da aggiungere che il padre dei due era custode di un circolo del tennis).

Claudio Panatta vince il torneo di Bologna.

Claudio Panatta la racconta così: «Ero molto contento e molto orgoglioso che mio fratello fosse più forte di me. Non mi sono mai sentito in competizione con lui, un tennista è in competizione con sé stesso. Ognuno fa la propria carriera e cerca di fare del proprio meglio. È chiaro che io avevo un fratello molto bravo, ma questo mi faceva solo piacere perché era mio fratello. Molte volte questa cosa forse è stata travisata dalle persone e da chi magari ci doveva giudicare, facendo dei paragoni inutili. Ogni giocatore è diverso, anche se è un fratello è un giocatore diverso, quindi sinceramente non ho patito molto questa cosa».

Dà quindi ragione a chi si commuove guardando la commozione di Seth Curry e conferma quanto gli atleti abbiano l’intima necessità di raccontare certe parti della propria carriera nella maniera più piana e liscia possibile. Anche in questa risposta, però, resta inevasa l’altra questione: pur ammettendo che l’avviamento allo sport ricalca la scelta del fratello maggiore quanto conta lo stimolo e quanto è efficace positivamente questo stimolo?

Sulla stessa barca (letteralmente)

In definitiva le ipotesi sono quattro:

1. Marc Gasol o Max Vieri sono diventati giocatori migliori potendo confrontarsi con i fratelli.

2. Digao o Eddy Baggio sono diventati atleti peggiori di come sarebbero potuti diventare se non avessero dovuto confrontarsi con i fratelli.

3. La presenza dei fratelli non influisce sulla carriera di nessuno.

4. È tutto casuale. Ci sono tanti fratelli sportivi perché coincidono dna e ambiente.

Potrei andare avanti un pezzo con storie analoghe a quelle citate: i gemelli de Boer, che hanno probabilmente risolto le proprio controversie scegliendosi in campo due ruoli diversi; i Miami Heat, che hanno in squadra i fratelli Goran e Zoran Dragic; i Phoenix Suns, che hanno i fratelli Morris; i fratelli Klitschko, pugili e poi politici e uomini d’affari; i fratelli Manning nel football, con Peyton riconosciuto tra i più forti di sempre, ma Eli più vincente; i Boateng, che si allontanano con Jerome che sceglie la Germania e diventa campione del mondo mentre Kevin-Prince preferisce la casa del padre e gioca nel Ghana; i fratelli Tourè, con Yayà sicuramente più forte di Kolo ma Kolo più simpatico grazie ai facts in stile Chuck Norris (“quando Steve Jobs ha inventato l’iPhone si è trovato sulla segreteria telefonica due messaggi di Kolo Tourè). Per non dire delle decine di parentele vere e presunte dei wrestler.

Goran e Zoran Dragic.

Ma quelli che forse rappresentano meglio l’efficacia, la contraddizione e il successo della competizione sono probabilmente i tre fratelli Abbagnale. Carmine e Giuseppe, che condividevano la stessa canoa, sono sicuramente i due più noti canottieri della storia d’Italia, il terzo fratello Agostino ha vinto una medaglia d’oro olimpica in più rispetto ai fratelli maggiori, ma ha avuto una popolarità sicuramente inferiore agli altri, solo perché gareggiava in equipaggi “di sconosciuti”.

Nessuna delle ipotesi elencate sopra è verificabile. Anzi il dubbio è che la presenza di un fratello sia sottovalutata proprio perché è impossibile stimarne esattamente l’incidenza all’interno della crescita di un atleta. Se fosse così, però, non sarebbe altrettanto vero che l’ossessione per la misurazione e per la certezza della misurazione ci toglie a volte il piacere di trovare risposte? Allo stesso tempo non è allora proprio questo che ci affascina quando leggiamo la storia di fratelli sportivi? L’idea che esista una profondità e un tormento sotterranei, e un’invidia e un ammirazione per il fratello campione che poi non sono altro che la stessa di noi appassionati, solo molto più viscerale?

Una breve postilla

Se consideriamo la fratellanza in senso lato il discorso assume un senso completamente diverso. Che la fratellanza sia, infatti, un elemento fondamentale dello sport è chiaro fin da de Coubertin. Lo sport moderno è stato da subito definito come la massima espressione di competizione e fratellanza. Popoli che gareggiano ad armi pari con il desiderio di primeggiare, atleti che vogliono battersi l’un l’altro senza mai trascendere le regole, non da nemici ma, appunto, da fratelli.

Accettando il salto logico della “fratellanza” possiamo arrivare a definirne molto meglio l’influenza. C'è uno stra-abusata citazione di Umberto Saba: «Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli». Secondo me in quest’affermazione è nascosto uno dei segreti del successo degli italiani negli sport di squadra. Dove, infatti, la fratellanza è più forte che altrove, la fratellanza come conflitto intendo, allora le squadre nazionali riescono meglio.

Franco e Beppe Baresi.

Mi sono sempre chiesto perché le Nazionali nate dall’esplosione della ex-Jugoslavia abbiano un tale successo. Delle sei europee qualificatesi agli ultimi Mondiali di basket, tre provenivano dalla ex-Jugoslavia (Serbia, Slovenia e Croazia). Ce ne saranno cinque agli Europei. Agli ultimi Mondiali c’erano due squadre, Bosnia e Croazia, rispettivamente al 31.esimo e 30.esimo posto per numero di abitanti. Al precedente Mondiale di calcio c’erano Slovenia e Serbia. Alle ultime Olimpiadi, a Londra, tre delle squadre arrivate ai primi quattro posti nella pallanuoto, Serbia, Croazia e Montenegro, arrivavano dalla ex-Jugoslavia e, sempre dalla pallanuoto, ma femminile, è arrivata la prima medaglia olimpica della storia del Montenegro (il paese con meno abitanti ad averne mai ottenuta una negli sport di squadra).

E perché, per esempio, la Cina che ha dominato nel medagliere le ultime edizioni dei giochi olimpici estivi è così scarsa nei giochi di squadra? Sì, certo, c’è la tradizione, le strutture, le scelte dei comitati olimpici, ma la tradizione non c’è neppure nei centodieci ostacoli o nel sollevamento pesi eppure perfino da questi sport i cinesi conquistano medaglie d’oro a profusione. Non negli sport di squadra. Perfino nell’edizione di Pechino, dei 51 ori vinti dai cinesi, neanche uno arrivava dagli sport di squadra. Ma come spiegare la fratellanza necessaria a costruire una squadra vincente in una nazione di figli unici. In Chi è il mio prossimo Adriano Sofri contestava la violenza dell’imposizione del figlio unico in Cina proprio a partire dal concetto che non si può insegnare la fratellanza e l’altruismo a un popolo che non sa cosa vuol dire avere un fratello. E cosa sono le squadre se non un meccanismo piccolo e complesso di altruismo in cambio di un obiettivo comune?

Viceversa, tornando alla ex-Jugoslavia, qual era il motto, scolpito in ogni lapide? "Bratstvo i jedinstvo", cioè Fratellanza e Unità. Che suona, sì, tragicamente, alla luce del disastro delle guerre civili degli anni Novanta, ma è allo stesso tempo fondamentale. La Jugoslavia che fu costretta dagli eventi a mancare le Olimpiadi del ’92 è forse la più forte squadra di basket mai esistita (escluso il primo Dream Team, d’accordo). E come si intitolava quel capolavoro di documentario su Vlade Divac e Drazen Petrovic? Once brothers. Una volta eravamo fratelli.

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