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Fred Perry, Uomo Nuovo
23 mar 2015
L'incredibile storia del primo tennista moderno.
(articolo)
24 min
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Si racconta che l’architetto che ha disegnato il centrale di Wimbledon, nel 1920, abbia posto un disco di carta di dimensioni minuscole al centro del campo e si sia poi assicurato che fosse visibile in modo perfetto da ogni posto dello stadio. È anche per questo panoptismo che si dice che la pressione percepita sul centrale di Wimbledon non si avvicini a nessun’altra esperienza sportiva. Non si tratta di sentirsi addosso gli occhi di una massa di persone, ma di ogni singolo spettatore presente allo stadio.

Il 26 giugno del 1934, alle 15, Fred Perry e Jack Crawford entrano sul campo centrale dell’All England Club per giocarsi la finale del torneo di Wimbledon. Fred Perry ha 25 anni, è alto un metro e 82, indossa pantaloni Daks bianchi, stretti nel punto ideale tra eleganza e praticità, una polo bianca con ampio colletto e un gilet a V. Le scarpe, di pelle di daino, le ha disegnate da sé: «Se ti fanno male i piedi non puoi giocare». Sul polso indossa una piccola striscia di garza, per trattenere le gocce di sudore che possono scivolare verso la mano che stringe la racchetta. È attento che ogni dettaglio del proprio abbigliamento non disturbi la propria prestazione: mantiene comunque un suo stile, ma non al livello del suo avversario.

Jack Crawford ha 26 anni, è alto un metro e 85, ha le gambe affusolate e una presenza eterea. John Meltzer lo definì «il tipo di giovane languido di cui era largamente composta la borghesia degli anni ‘10»; incarna l’archetipo del tennis dei gesti bianchi: indossa una camicia a maniche lunghe fino ai polsi, un gilet di lana intrecciata con cura, una racchetta con un’intelaiatura più spessa della norma, con la testa della racchetta piatta, già allora un po’ old-fashioned. Persino le orecchie a sventola, più che un difetto fisico, sembrano un vezzo aristocratico. L’ossessione degli inglesi per il bello stile lo rendeva il giocatore ideale da adorare: esegue ogni colpo con la stessa leggera perfezione, gioca a rete come fosse dinanzi allo specchio, attento agli archi e alle figure disegnate dal proprio corpo. Al suo cospetto, il tennis di Perry è meccanico: ogni colpo sembra il risultato di un faticoso incastro di gesti leggermente fuori tempo. Henri Cochet lo definì «rude, insolente, infinitamente sicuro di sé: un combattente».

La diversità del loro stile di gioco è il riflesso delle diverse storie personali, del diverso percorso con cui i due tennisti sono arrivati, quel giorno, a giocarsi la finale del più prestigioso torneo al mondo. Per ora basti dire che tra i due quello fuori posto, come avrete capito, è Frederick John Perry.

Colpisci, colpisci, colpisci

John Herbert Crawford nasce a Urangeline, Nuovo Galles, Australia. Lì «in the middle of nowhere», come avrà modo di dire, ha imparato a giocare a tennis nella fattoria di famiglia, al centro di un terreno di 1200 acri. Non solo disponeva di un campo in cemento, ma anche di quattro fratelli con cui giocare e allenarsi. La famiglia, ricchissima, lo ha spedito in Inghilterra a 15 anni e nel 1933, l’anno prima della partita con Perry, vince Wimbledon in finale contro Ellsworth Vines.

Mentre Crawford era ad allenarsi sul campo di famiglia, a sedicimila chilometri di distanza, a Stockport, vicino Manchester, Fred Perry non aveva ancora mai visto un campo da tennis. Il padre Sam è un raccoglitore di cotone, sindacalista e socialista. La carriera politica inizia ad andargli piuttosto bene, tanto che nel 1918 trasferisce tutta la famiglia a ovest di Londra, nella città-giardino di Brentham. Un sobborgo progettato dal Co-operative Party, di cui è membro: villette a schiera, parchi giganteschi, un’urbanistica modellata sull’ideale del villaggio rurale britannico.

È qui, al Brentham Institute, che Fred inizia a giocare a tennis, ma nei primi anni pratica soprattutto la sua versione da tavolo. Ancor prima disse a un suo amico di voler diventare un calciatore, più precisamente un-calciatore-dell'-Aston Villa, ma era talmente bravo negli sport individuali, specie in quelli che prevedevano l’uso della coordinazione mano-occhio, che decise di scegliere la strada più facile per il successo: «Ero abbastanza bravo da poter entrare in una squadra di calcio o cricket, ma non lo ero abbastanza per diventare una star».

Lo affascina la complessità del ping-pong: le sottigliezze di ritmo e posizionamento, i misteri dello spin e del contro-spin, ma soprattutto la possibilità di essere totalmente padroni del proprio destino, cosa non permessa dagli sport di squadra.

Nel 1927 si presenta, un po’ per gioco, a un torneo al Memorial Hall. In realtà non conosce bene neanche le regole di un match ufficiale e non riesce a tenere il punteggio. La sua parabola nel tennis da tavolo è raccontata da Ivor Montagu, l’uomo con l’incipit più bello dell’intera Wikipedia: «L’onorevole Ivor Goldsmid Samuel Montagu è stato un regista, sceneggiatore, produttore, critico cinematografico, scrittore, giocatore di tennis tavolo, e spia sovietica durante la Seconda guerra mondiale. Ha aiutato lo sviluppo della cultura cinematografica in Inghilterra durante gli anni 30, ed ha anche fondato la Federazione internazionale Tennis Tavolo».

Montagu racconta che Perry non era un vero giocatore: non aveva nessun colpo tecnicamente impostato, seguiva il gioco semplicemente con l’istinto del ritmo. Perde in finale, non ha ancora imparato a quanti punti finisce un match ma Montagu, all’epoca anche capitano della selezione inglese di ping-pong, lo sceglie per la squadra che gareggerà ai campionati mondiali di Svezia.

Sempre Montagu: «Era come vederlo diventare un campione partita dopo partita. In Inghilterra era un giocatore difensivo, ma durante il torneo ha costruito il proprio gioco e ora ha il miglior dritto del pianeta».

Vince il campionato del mondo senza aver vinto nessun torneo prima. «A vent’anni sono campione del mondo, per cos’altro dovrei competere?» disse al padre, annunciandogli il suo ritiro dal ping-pong, «E cosa ti metterai a fare ora?», gli chiese Sam; «Vincerò la Coppa Davis entro 4 anni».

In un dipinto di Hopper

Nella sua autobiografia del 1986 dal titolo Fred Perry racconta il momento chiave della sua infatuazione per il tennis.

Nell’estate del 1916 è sulla spiaggia di Eastbourne con i genitori quando decide di allontanarsi per una passeggiata. A un certo punto si trova di fronte il Devonshire Park, uno dei più esclusivi circoli d’Inghilterra. Sul campo va in scena la coreografia perfetta di un doppio misto patrizio, incorniciato da un manto incredibilmente verde. Il sole brilla su un mondo perfetto, chiuso nella propria armonia folle ed esagerata. I colori saturi, le linee delicate di un dipinto di Hopper: un universo a parte di salute e levigatezza.

Percy Shakespeare, 1937, olio su tela, collezione privata.

Tornato in spiaggia racconta la scena al padre, e aggiunge: «Tutte quelle belle macchine fuori dal circolo sono dei tennisti? Allora io voglio diventare un tennista».

Lotta di classe

Quello che il Perry quindicenne non aveva capito è che quei tennisti di Eastbourne non avevano comprato le automobili con i soldi del tennis ma con quelli dei titoli terrieri e immobiliari. In Inghilterra, fino al dopoguerra, i tennisti non potevano diventare professionisti: non potevano guadagnare giocando tornei o anche svolgendo qualsiasi attività collaterale al tennis.

L’amatorialità rendeva il tennis una faccenda quasi esclusivamente aristocratica, legata al prestigio degli istituti scolastici, dei circoli, di chi riusciva a permettersi le varie spese che gravitano attorno allo sport: le tasse di ingresso ai tornei, i viaggi in treno e i soggiorni in hotel. Nel 1929 il tennis è lontano dall’aprirsi alla classe media, ma Sam Perry incoraggia comunque il figlio: la lotta per la sua affermazione sarà anche la lotta per i suoi ideali politici, quelli secondo cui un uomo può diventare esattamente ciò che vuole.

Grazie a una serie di espedienti e amicizie influenti Fred inizia a partecipare ai tornei, anche se non potrebbe, visto che non fa parte di nessun circolo prestigioso. Uno dei suoi primi maestri sosteneva che Perry avesse una predisposizione naturale alla lotta di classe nello sport: «Voleva gareggiare con i giocatori più ricchi e batterli, o almeno dimostrare di essere alla loro altezza».

Nel 1955 la scrittrice Nancy Mitford teorizzò l’uso dell’accento in Inghilterra come strumento di distinzione sociale: l’accento “U” distingueva l’upper class da quello “Non-U” della middle class. Il campione statunitense Bill Tilden ricorda come Perry fosse l’unico tennista inglese a non possedere l’accento “U”.

Il fatto di non appartenere all’aristocrazia lo metteva però nella condizione di dover lavorare per guadagnarsi da vivere. Per un periodo è stato fattorino alle poste, poi commesso al negozio della Spalding, dove spendeva quasi tutto lo stipendio in racchette, borse e uniformi da gara. Nel 1930, alla vigilia del torneo di Bournemouth, si trova di fronte a un bivio: Fred è già iscritto, ma anche il suo capo vuole andare, per assistere, e qualcuno deve rimanere al negozio. Torna a casa e ne parla col padre, che lo esorta a lasciare il lavoro e dedicarsi completamente al tennis, assicurandogli sostegno economico. Quella di Fred Perry in fondo non è un’epica del proletariato, ma al massimo quella della nuova borghesia in una società rigida e incredibilmente retrograda come quella inglese di inizio ‘900.

Il tennista moderno

All’inizio Perry è un buon giocatore da quarti di finale, niente di più. La svolta arriva grazie agli allenatori che gli si affiancano, e che lavorano sulla sua grandissima voglia di migliorarsi. All’inizio Pops Summers, dell’Herga Club, che lavora sugli aspetti psicologici e che lo rifornisce di materiale tecnico grazie a un contratto con la Slazenger; poi Don Maskell, che invece inizia a lavorare in modo deciso sul suo gioco.

Alla fine degli anni 80, intervistato dalla BBC, dice: «Il segreto del successo sta nella sensibilità delle mani. I pianisti e i violinisti ce l'hanno. È il dono del 'tocco'. Senza è difficile avere successo nello sport». Ma Perry non era quel tipo di tennista, il suo gioco era una forma di improvvisazione, un ibrido tra il ping-pong e gli insegnamenti mirati di Don Maskell. Tilden lo definì «il migliore dei peggiori, o il peggiore dei migliori».

Teneva la racchetta con una presa “ad ascia” poco ortodossa, in controtendenza con quelle insegnate nei circoli di tennis: in seguito la presa venne standardizzata col nome di “continental” e forse non sarebbe mai nata se Perry avesse frequentato una scuola di tennis. L’impugnatura veniva dal ping-pong, così come la particolare forza impressa sul dritto: saliva con il polso sopra la palla, come se la racchetta pesasse cinque chili in meno e il campo fosse molto più piccolo dei suoi 20 metri.

Dan Maskell intuisce questo strano potenziale e ci lavora, con un’idea precisa di come avrebbe dovuto giocare Perry. Il modello del dritto è quello del francese Henri Cochet, che colpiva la palla in anticipo, ancora in fase ascendente. Così in anticipo da sembrare quasi una demi-volée: «Colpiva la palla così in anticipo che sembrava quasi scorretto. Sembrava violare quella coreografia ortodossa e rigorosa che i tradizionalisti consideravano il tennis» disse Peter Ustinov. Nella sua autobiografia Perry descrive come "magica" la mattina precisa in cui imparò il colpo: «Ho sentito come un click nel cervello, i miei movimenti si erano sintonizzati nel giusto flusso, e da quel momento non sbagliai più un dritto». Il dritto di Perry è stato di gran lunga il suo colpo più iconico, quello che ha avuto un maggior impatto nell’evoluzione del tennis: il modo in cui anticipava il colpo, in modo secco, scattante, era legato a una forza di polso fuori dal normale.

Come molti giocatori attuali, Perry costruiva i punti su questo colpo. Aveva un servizio leggero, che gli serviva solo a entrare nello scambio, e il rovescio era il punto debole su cui provavano a lavorare i suoi avversari; Don Maskell gli aveva insegnato a giocarlo “bloccato”, e nel corso di una partita entrava in condizione e riusciva a trovare efficacia. «Avevo una specie di tennis a tutto campo. Non serve & volley come quello di Ellie Vines. Tutto era costruito sull’idea che prima o poi il mio avversario avrebbe accorciato sul mio dritto. E quella sarebbe stata la fine del punto».

Questa costruzione meticolosa del proprio gioco—anche la sola idea di una costruzione del gioco—oggi così naturale, all’epoca non era affatto scontata. La dimensione amatoriale alimentava l’idea che il tennis fosse una forma d’arte, esclusivamente legata alle doti naturali. Le racchette in legno e le palle morbide favorivano un approccio più artigianale alla disciplina, dove gli atleti potevano ancora pensare alla ricerca del bel gesto. Non c’era una vera idea di agonismo, e in questo Perry ha rivoluzionato in profondità la concezione del tennis, avvicinandola alla modernità. Al di là degli aspetti tecnici, di Fred Perry sono sempre state lodate le qualità mentali: «Aveva una straordinaria sicurezza in sé stesso, non voleva mai perdere, era sempre concentrato su ogni punto e non perdeva mai quelli importanti» disse di lui Kramer, una descrizione che potremmo tranquillamente applicare a Rafael Nadal senza alcuna forzatura.

Perry è stato il primo a pensarsi come atleta nel tennis: nel 1933, dopo una serie di risultati poco incoraggianti decide di migliorare la propria condizione fisica; all'epoca è un’idea così controintuitiva che non può contare nemmeno su dei preparatori atletici. Allora va ad Highbury, Londra nord, e chiede all’Arsenal di potersi allenare con la squadra.

Solo vicino ai calciatori Fred riesce ad apparire il più elegante.

Con queste premesse, dal ’33 la carriera di Fred Perry ha preso tutt’altra piega. Tra il 1933 e il 1936 manca solo 2 finali Slam su 12 (entrambe causa infortuni), vincendone 8 e imponenendo un dominio nel circuito tennistico mai visto prima.

La sera prima del suo primo trionfo in uno slam, gli US Open del ’33, un cronista del Telegraph lo rinchiude in questo quadretto: «Mr. Perry è seduto tranquillo sulla terrazza del Madison Hotel di New York. Sotto una luna che sembra una zucca, Miss Gran Bretagna sotto un braccio, Miss Scozia sotto l’altro, con un sottofondo di musica languida. Parlano di tennis».

Annusare l’aria del centrale

Dobbiamo fare un passo indietro e tornare al 1930, quando Perry partecipa al suo secondo Wimbledon, perché al terzo turno gioca la partita che in seguito verrà ricordata come “il punto di svolta della sua carriera tennistica”.

È al campo 3, Perry è il numero 7 al mondo e di fronte ha il Barone Uberto De Morpurgo, passaporto italiano ma nato a Trieste (all’epoca impero austro-ungarico). Nella Grande Guerra viene inquadrato nell’aviazione austriaca e si guadagna la fama di pilota intrepido. È il tipo eccentrico che potete immaginare, fiero rappresentante di quella aristocrazia europea che ha contributo ad attribuire al tennis la sua immagine blasé. In altre parole è esattamente il tipo che avrebbe mostrato diffidenza verso uno come Perry. Lui e tutto il suo entourage, che comprendeva: una stupenda moglie viennese, un mastino tibetano di nome Tchao, il suo compagno di doppio “il signor Gaslini”, il suo protégé Giorgio De Stefani (che diventerà poi noto per giocare due dritti, con la mano destra e la sinistra).

La partita prende dei contorni emotivi enormi e la folla attorno al campo continua ad aumentare: finisce 10-8 4-6 6-1 6-2, e un membro della Lawn Tennis Association (LTA), che intuisce il dispendio di energie nervose del giovane, si avvicina a Perry in tono severo: «Devi aspettarti conseguenze nella prossima partita. Non sorprenderti se giocherai terribilmente male». E in effetti Perry giocò male e perse al quarto turno.

Due giorni dopo, il 28 giugno, Fred Perry deve giocare per la prima volta sul Centrale, contro Colin Gregory. Il giorno prima della partita l’arbitro del torneo Frank Burrow lo accompagna a fare un giro sul centrale. Perry racconta di una passeggiata sul Centre Court deserto, del silenzio irreale che gli stava quasi provocando una crisi di panico, Burrow a un certo punto tira fuori una racchetta e una palla da tennis e gliele porge: «Tirala dall’altra parte, vedrai che è un campo da tennis come tutti gli altri».

Il giorno dopo Perry è sulla soglia del campo, appena dietro Colin Gregory: non sa nulla del complicato protocollo di ingresso, così si tiene attaccato all’avversario, ne segue ogni passo e virata, fino all’inchino di fronte al Royal Box. Perde malamente: «Altro che come tutti gli altri. La linea di fondo mi sembrava sproporzionata: il campo era lungo e stretto, Gregory dall’altra parte era solo un puntino lontano».

Rivoluzione borghese pt. I

Nel ’31 il Re di Svezia Gustavo V, grande amante del tennis, organizza un incontro amichevole fra il suo paese e l’Inghilterra. Fred Perry alloggia direttamente nel palazzo reale, ospite del monarca e ne diventa grande amico. Il figlio di un raccoglitore di cotone, amico del Re di Svezia.

L’estate successiva Perry è ad allenarsi in Costa Azzurra quando riceve la chiamata del Re: c’è da giocare un torneo di doppio con montepremi e lo vuole al suo fianco. Il Re gareggia sotto lo pseudonimo di Mr. G. e insieme vincono due tornei; il Re intasca il montepremi (Perry, da amatore, non poteva) e promette al tennista una “generosa ricompensa”. Qualche mese dopo apre la posta e trova la sua ricompensa: una foto di sua maestà, autografata.

Gustavo V è quello che pesa 40 chili e indossa un cappello sul suo metro e novanta.

Nel ’32 compie il primo viaggio negli Stati Uniti con la squadra di Davis. La federazione è preoccupata e durante il viaggio in nave gli mette dietro Leslie Godfree, un tennista ancien régime che deve assicurarsi che Perry non si comporti come un selvaggio. Ogni giorno, alla stessa ora, si presenta nella cabina di Perry, prepara il tè e gli spiega come bisognerebbe vivere.

Una sola parola fuori posto e si ritorna a Londra.

Nel 1933 vince la Coppa Davis che mancava in Inghilterra dal 1912. La finale ha la cornice leggendaria di Parigi, come avversaria la Francia dei 3 moschettieri (Cochet, Borotra, Brugnon), che sono però in una fase crepuscolare della carriera.

Nelle celebrazioni Bunny Austin e Perry vengono portati da Henri Cochet a fare il giro dei bistrot sugli Champs Élysées. A ogni locale la Coppa viene accuratamente riempita (e svuotata) di champagne.

Un filmato incredibile.

La mattina seguente trovano una lettera di ringraziamento firmata da Giorgio V. Tornano in treno, sulla leggendaria Flèche d’Or, al loro passaggio le stazioni si riempiono di migliaia di persone. Quando arrivano a Victoria Station ad attenderli c’è Suzanne Lenglen, la divina campionessa francese: «Sono venuta a Londra per elaborare il lutto della sconfitta. Non sapevo come altro fare».

Perry inizia una breve relazione con Marlene Dietrich. Nella biografia scritta da Maria Riva, figlia della diva, vengono raccontati alcuni dettagli: «Insegnò a giocare a mia madre con tanta pazienza e molti piccoli abbracci, intervallati da rapidi baci tra un tiro e l'altro. Temevo che, da un momento all’altro, sarebbe arrivata l’amante spagnola di mia madre (Mercedes de Acosta, ndr) a montare una scenata, ma mia madre era molto attenta a non lasciar sovrapporre i propri amanti». Una nota foto li ritrae a Santa Monica, sul muretto di un giardino: quel giorno erano presenti sia Mercedes che il regista Rudi Sieber, è l'ottobre del 1934, poco prima che Fred partisse per l'Australia per difendere il proprio titolo.

Gli anni 30.

Eroe fuori posto

Quando il 26 giungo del 1934 Perry e Crawford iniziano a scambiare i primi colpi della finale di Wimbledon non è chiaro per chi tiferà il pubblico del Centrale. Eppure non dovrebbe esistere incertezza: Fred Perry ha appena vinto di nuovo la Coppa Davis, per il secondo anno consecutivo; insieme a Bunny Austin ha dato una nuova dimensione al tennis inglese, spazzando via i complessi di inferiorità che aleggiavano sugli atleti britannici. Ma non basta. Jack Crawford, come detto, incarnava un’ideale di classicità a cui il tennis volgare di Perry non poteva avvicinarsi. Nonostante fosse australiano, possedeva due doti molto apprezzate dal pubblico dell’All England Club: lo stoicismo e i favori della regina.

Per quanto riguarda la prima dote basti sapere che spesso, al cambio campo, Crawford beveva un sorso di whiskey mentre, fuori dal campo, fumava 30 sigarette al giorno nonostante l’asma lo tormentasse. Ai quarti di finale di quello stesso torneo si infortuna alla spalla durante il secondo set, sembra dover abbandonare, invece rimane in campo, recupera lentamente le forze e vince. Senza neanche fare una smorfia. E il pubblico lo adora.

L’anno prima, durante la cerimonia di premiazione, il re gli domanda che età avesse, la regina risponde rubandogli le parole di bocca: «Ha compiuto 25 anni il 22 marzo». Pare che la regina Mary, durante il torneo, abbia violato il protocollo lasciando il Royal Box per andare ad assistere a un incontro dell’australiano sui campi secondari. Il pubblico, fedele alla regina, ne asseconda i gusti.

Quelle due settimane a Wimbledon c’era stato un sole inusuale, che aveva fatto sparire quasi del tutto il manto erboso, ridotto a un giallino stinto.

Dopo l’iniziale svantaggio di 1-3 Perry vince dodici game consecutivi e va due set a zero. Prima che ricominci il terzo set Crawford rinuncia ad andarsi ad asciugare e rinfrescare: rimane fermo impalato sulla linea di fondo, con le mani sui fianchi e la testa bassa, come a cercare di escogitare qualche rimedio. Ma Perry gioca un tennis irreale, mai visto prima. George Lott arrivò a scrivere: «Quel giorno, in quel match in particolare, ho visto un atleta in condizioni perfette giocare la partita perfetta... quel giorno Perry raggiunse l'apice del proprio gioco». Vince 6-3 6-0 7-5: il pubblico applaude, ma la gioia è più temperata del previsto. Perry si accorge di essere adorato molto meno di quello che sente di meritare.

Fa caldo e persino l’imperturbabile Crawford deve concedersi delle volgari maniche arrotolate.

Tornato negli spogliatoi dovrebbe ricevere la visita dell’ufficiale George Hillyard, che da tradizione deve consegnargli la cravatta ufficiale dell’All England Club. In realtà trova la cravatta appoggiata sciattamente su una sedia, per il corridoio sente Hillyard dire a Crawford la storica frase: «Oggi non ha vinto il migliore».

Dietro però l'intransigenza gerarchica di Wimbledon, Perry si accorge di essere amato dal resto della nazione: l'Inghilterra può per la prima volta apprezzare una figura più normale, non appartenente a una classe sociale in tutto e per tutto aliena. Questo senso di vicinanza viene riassunto bene da diverse prime pagine di giornali della sera della vittoria, che titolano molto semplicemente: "Fred".

Era però altrettanto evidente che l’establishment tennistico era disturbato dal fatto che un borghese come Perry potesse arrivare al vertice del sistema. Nonostante il giorno dopo fosse stato invitato ad assistere alla finale femminile insieme ai reali, quello strappo diplomatico nei sotterranei del centrale anni dopo venne definito da Perry «una ferità che non si è mai rimarginata».

Self-made man

Durante uno dei suoi viaggi a Los Angeles Harpo Marx chiese a Perry: «Ma con la gloria ci compri il pane?». Il tennista aveva esposto ad Harpo il dubbio se diventare professionista e trasferirsi negli Stati Uniti o rimanere in Inghilterra e restare amatore, continuando però a vivere sulle spalle del papà.

Tra il 1933 e il 1936 Perry vince tre volte la Coppa Davis per l’Inghilterra e tre volte Wimbledon: è di gran lunga lo sportivo più popolare del Paese ed è naturale, allora, che i suoi dubbi sul passare professionista siano una questione nazionale.

Fino al dopoguerra (e in certi casi anche con diversi strascichi successivi), l'Inghilterra era molto rigida nel mantenere uno statuto separato tra amatorialità e professionismo, non solo nel tennis ma anche nel cricket, nel calcio e nel rugby, dove gli scontri tra amatori e professionisti erano caratterizzati anche da spogliatoi ben separati. In questo c’entra soprattutto il complicato rapporto della cultura inglese di inizio Novecento con i soldi. Il denaro era percepito come una cosa volgare, che non doveva avere a che fare con qualcosa di nobile come la gloria sportiva.

Perry però nutre la speranza che l'eccezionalità della propria condizione, un campione nazionale che però non ha la possibilità di autosostenersi, portasse delle modifiche al regolamento. E la LTA per un certo periodo gli dà segnali incoraggianti, promettendo che non gli sia vietato di partecipare come attore nei film che cominciano ad essergli offerti. Alla fine però le promesse non vengono mantenute. Perry a quel punto sente di non aver ricevuto quanto merita: ha scalato il sistema fino ai suoi vertici, ma non ne ha cambiato la natura profonda. Capisce che l’Inghilterra vorrebbe che lui rimanesse un’eccezione, non un esempio. Dichiara: «Per la LTA sembravo morto, e la prospettiva non sembrava dispiacergli».

Nel 1937 parte per gli Stati Uniti e firma il primo contratto da professionista, a quel punto la LTA gli revoca la tessera dell’All England Club e gli vieta di partecipare a Wimbledon. Se in Inghilterra l’ideologia aristocratica vede il denaro come una forma di imbarbarimento dei valori morali, negli Stati Uniti l’ideologia borghese vede nel denaro il mezzo della propria realizzazione esistenziale.

Perry è un eroe borghese: per lui i soldi non sono un semplice mezzo di sostentamento ma anche di emancipazione, di affermazione nel mondo. In un’intervista di quegli anni, interrogato sullo statuto da professionista del partner Ellsworth Vines, dice cose importanti: «C'è Vines il professionista e poi c'è Mr. Vines, e personalmente preferisco il primo, quello che guadagna soldi reali per prendersi cura di sé stesso e della propria famiglia. Questo Vines è una persona più interessante, più sicura di sé, che ha capito che guadagnare dei soldi lo fa essere su un piano paritario con le altre persone. Sa che significa molto quello che sta facendo, e che il suo nome ha finalmente un proprio peso nel mondo».

Rivoluzione Borghese pt. II

Inizia il tour da professionista insieme a Ellsworth Vines, che significa soprattutto: comprare un’enorme Buick nera e battere le città del nuovo continente: New York, Las Vegas, Washington, Houston, Portland, Cleveland, Los Angeles. E poi Cuba, Panama, Giamaica, Trinidad. Gioca a tennis per rilassarsi, per il resto pensa più che altro a godersela.

Una delle prime cose che fa negli Stati Uniti è comprare il Beverly Hills Tennis Club insieme a Ellsworth Vines. Lo inaugura con un doppio che prevede questi schieramenti: Fred Perry+Charlie Chaplin vs Ellsworth Vines+Groucho Marx.

Si era fatto amici abbastanza simpatici.

Prende la cittadinanza americana ed è costretto ad arruolarsi durante la Seconda guerra mondiale come preparatore atletico delle truppe. Si sposa un numero non ricostruibile di volte, si narra di 5 matrimoni con 4 donne diverse.

Tibby Wegner, ex calciatore e sarto viennese d’origine ebraica, si mette in testa di creare una nuova linea d’abbigliamento sportivo dedicata soprattutto ai tennisti. Fa una cosa semplice: va da Lillywhites, megastore di articoli sportivi tutt’ora al centro di Piccadilly Circus, e compra una polo Lacoste. Tornato a casa la riproduce identica: ora c’è solo da scegliere il nome, il logo e il principale testimonial. È indeciso tra Jack Kramer e Fred Perry. Alla fine sceglie quest’ultimo, se non altro perché può vantare tre Wimbledon nel suo palmarès, e insieme iniziano a discutere sul logo. Fred vuole metterci una pipa, da sempre vezzo non solo suo ma di molti tennisti di alto livello di quegli anni; Wegner gli fa notare che così non sarebbe piaciuto alle ragazze e alla fine scelgono la corona d’alloro, ispirati da un blazer da gara di Perry.

Rispetto alla Lacoste però non si limitano a cucire esternamente il logo, ma lo ricamano internamente. La nascita della linea Fred Perry non ha niente di particolarmente eccezionale, tranne il fatto che, una volta cucite le maglie, Perry avvia una vera e propria campagna di marketing e comunicazione 50 anni avanti sui tempi. Va a Wimbledon e regala le sue maglie a tutti i tennisti e agli addetti ai lavori, poi le regala a tutti suoi amici dello show business, che a loro volta li regalano ad altri amici potenti, in una catena che arriva fino alla principessa Grace di Monaco e a JFK, che indossa una Fred Perry al comizio precedente la sua elezione.

Qualche giorno dopo la distribuzione Perry riceve la telefonata del direttore di Lillywhites: «Mr. Perry, qui tutti ci chiedono “le maglie dei tennisti”».

Nei suoi ultimi anni Perry dichiarò: «Ormai so benissimo che mi conoscono più per le mie polo che per la mia carriera di tennista». Per una strana ironia storica le sue polo divennero un’icona della cultura mod, e cioè di tutti quei giovani generalmente appartenenti al proletariato o alla piccola borghesia urbana che utilizzavano l’abbigliamento come elemento di emancipazione rispetto alla classe d’appartenenza.

Per molti anni commenta il tennis alla BBC, tenendo uno stile di commento caustico e ironico: ama peraltro criticare molte innovazioni tecniche che lui stesso ha contribuito a introdurre.

Nel 1992 subisce un intervento al cuore a seguito del quale dichiarerà: «Sono a posto, non c’è da preoccuparsi, per questo bypass mi hanno detto di aver usato alcune parti di un maiale che ora sono nel mio cuore, ma l’unica cosa che ve ne farà accorgere sarà che ogni tanto grugnirò come Jimmy Connors al servizio». Muore 3 anni dopo, il 2 febbraio del 1995, mentre è a Melbourne ad attendere l’inizio degli Australian Open, 20 anni fa quasi esatti.

Nel 1984 presso l’All England Club era stata eretta una statua a grandezza naturale in suo onore, durante la cerimonia in lacrime aveva dichiarato: «Quella con Wimbledon è stata la storia d’amore più importante della mia vita», dimenticando tutti gli screzi passati, dimostrando ancora una volta quel rispetto che i suoi detrattori non gli hanno mai riconosciuto. La Gran Bretagna, per accettare completamente la sua figura, ha dovuto aspettare mezzo secolo: a quel punto il tempo trascorso le ha permesso di trasformare Fred in una statua di bronzo con la racchetta, un’istituzione come un’altra da onorare e rispettare.

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