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George Best, l'immortale
19 nov 2015
Un'anticipazione del libro di Duncan Hamilton, edito da 66thand2nd e in uscita oggi, dedicato al leggendario campione nordirlandese.
(articolo)
17 min
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1. A casa, a coloro che amiamo

Era un uomo tozzo, robusto, aveva le spalle curve e non sentiva la necessità di curare il proprio abbigliamento perché lavorava all’aperto e del guardaroba non gliene era mai importato nulla. In questo caso, non era l’abito a rivelare l’uomo.

Si vestiva quasi sempre allo stesso modo: d’inverno un cappotto di lana col bavero largo, una giacca sportiva a quadri e pantaloni scuri di nylon; d’estate pantaloni grigi di flanella, un maglione liso con lo scollo a V e una camicia bianca sbottonata. La sua unica concessione all’eleganza era una cravatta sobria con un nodo Windsor un po’ tirato via. La faccia era piena di rughe, con solchi profondi che si allargavano ai lati delle labbra sottili. Aveva i capelli bianchi, ispidi e cortissimi, che si diradavano sulla fronte in una profonda stempiatura che accentuava i segni dell’età. Gli occhi scuri erano quasi nascosti dalle sopracciglia folte, a cui avrebbe giovato una bella spuntata. Fumava in continuazione. La nicotina gli aveva macchiato le dita e procurato una fastidiosa tosse secca. Chiunque s’intendesse di calcio nordirlandese conosceva Bob Bishop (o «The Bishop», il vescovo, come era affettuosamente chiamato), e Sherlock Holmes avrebbe capito in un nanosecondo che mestiere faceva. A tradirlo era il gesso delle linee del campo sulle scarpe nere e il giornale, sempre aperto alle pagine sportive, che sporgeva dalle tasche inclinate.

Nessuno, nemmeno lo stesso Bishop, era in grado di calcolare il numero di partite a cui aveva assistito né i chilometri che aveva percorso avanti e indietro per il paese. Non guidava e comunque non avrebbe potuto permettersi una macchina. Quindi andava a vedere le partite a piedi o si affidava agli autobus, ai treni e—solo per occasioni speciali—ai taxi. Comunque, con una buona pianificazione strategica e sfruttando i passaggi beccava fino a tre o quattro partite al giorno e lavorava sei giorni a settimana per il Manchester United, senza usufruire quasi mai di un giorno di ferie. Anche la domenica, dopo aver letto e riletto le cronache sportive della sera prima e controllato i resoconti sui giornali del mattino, faceva un giretto a guardare i ragazzini giocare a pallone per strada o nei parchi. «Non si sa mai dove e quando ti puoi imbattere in qualcuno in gamba» diceva, paragonando il lavoro di talent scout a quello di un fiducioso cercatore d’oro.

Lo United raccomandava ai propri osservatori di stare lontani dalle partite professionali, semi-professionali o senior amatoriali. Le disposizioni dell’Old Trafford erano: «Trovate un ragazzo di tredici, quattordici o quindici anni e poi lasciate fare ai nostri allenatori». Per il Manchester United Bishop copriva i quattro angoli dell’Irlanda del Nord: dai tornei di scuole e circoli giovanili alle partite della Boys’ Brigade e dei campionati dilettanti. Si ritrovava puntualmente fradicio. Gelava per il freddo pungente. Stava in piedi a bordocampo in stadi comunali privi di copertura, tormentato da un vento feroce, incessante. Era un lavoro piuttosto noioso, frustrante e spesso inutile. Inoltre, lo faceva più per devozione al calcio che per soldi. Bishop, nato a inizio secolo, era stato reclutato dallo United nel 1950 e riceveva due sterline a settimana più le spese di viaggio e un misero buono pasto di due scellini. La società gli aveva fatto installare un telefono di bachelite nero e gli rimborsava il canone mensile. Bishop faceva il rivettatore al cantiere navale di Belfast, dove lo stridio del metallo, lo sferragliare dei martelli e i tonfi dei macchinari lo avevano reso parzialmente sordo. «A volte bisognava urlare per farsi sentire» diceva uno dei suoi amici. Allenava la squadretta del cantiere e ne organizzava altre al Boyland Youth Club, vicino a casa sua, su Bloomdale Street, nella zona est della città. In un solo weekend al Boyland si giocavano fino a sei partite. Il venerdì i ragazzi affollavano il circolo aspettando che Bishop scrivesse i convocati su una fila di lavagne che venivano tirate su e giù dal soffitto con delle catenelle. Se un ragazzo era stato scelto ma non si era fatto vivo per controllare le convocazioni, Bishop ne cancellava il nome con uno straccio. L’assente poteva metterci un mese e mezzo per riavere il posto in squadra.

Nel 1960, dopo la morte del suo predecessore, Bishop venne promosso al ruolo di osservatore capo dello United in Irlanda del Nord. Lo United era rimasto colpito da due caratteristiche. Una era personale. Uomo perbene, di sani princìpi, Bishop non era uno da voltare le spalle o tirarsi indietro. Era puntuale e affidabile. Da scapolo impenitente che viveva con una sorella che non amava il pallone, Bishop sarebbe rimasto sposato sempre e solo con il gioco del calcio. Gli altri suoi interessi erano un parrocchetto blu, che lasciava volare in salotto e gli si posava sulla spalla mentre leggeva, e i collie bianchi e neri. La seconda nota positiva per lo United era di ordine pratico. Bishop disponeva già di una vasta rete di contatti nel taccuino nero dove annotava le impressioni sui giocatori. Non aveva mai giocato a livello professionale (e nemmeno ci era andato vicino), ma riconosceva un potenziale professionista non appena ne vedeva uno, e ripagò in fretta la fiducia che lo United aveva riposto in lui. Gli aveva già mandato Jackie Scott, un’ala che aveva esordito in Prima Divisione a diciannove anni, nel 1952, e totalizzato due presenze con l’Irlanda del Nord ai Mondiali del 1958 in Svezia.

Ogni ora di veglia Bishop la dedicava al calcio. Dalla partita successiva, per modesta che fosse e ovunque si svolgesse, poteva tranquillamente nascere una stella e per niente al mondo se la sarebbe fatta sfuggire. Per sottolineare la propria abnegazione trasformò il suo rifugio del weekend in un campo di addestramento. Molto prima della Seconda guerra mondiale, la predilezione per l’aria di campagna aveva portato Bishop a Helen’s Bay, sulla costa settentrionale della contea di Down. Per cinque scellini alla settimana aveva preso in affitto una casetta piuttosto malandata, con una stanza sola, da tre uomini—tutti e tre ciechi e stufi della vita in campagna. Bishop l’aveva ribattezzata «The Manse», la canonica. Le pareti erano di pietra grezza. La fermata più vicina era a quasi due chilometri, da fare in parte su strada sterrata. Non c’era elettricità, il che significava che questo idillio rurale—il rifugio di Bishop dal frastuono del cantiere navale—era illuminato da lampade a olio. L’acqua la prendeva da un pozzo vicino. Si riscaldava tagliando legna e buttandola in un camino annerito dove bolliva e sfrigolava anche una pentola panciuta. L’assenza di comodità casalinghe era ricompensata dalla solitudine che il posto gli garantiva. Lì pensava, leggeva e beveva tè forte, scuro come il cuoio degli stivali da monta.

Quando iniziò a portarci le sue giovani promesse, per allenarle, il cottage era ancora molto spartano. Bishop lo attrezzò con letti a castello e convinse un contadino del posto a lasciargli usare uno dei suoi campi, che battezzò «Wembley Stadium». I ragazzi che andavano lì giocavano a palla sulla spiaggia, facevano il bagno in mare e raccoglievano dalla battigia pezzi di legno per il fuoco. Nel mondo competitivo in cui operava, il cottage era un vantaggio per Bishop. La maggior parte dei ragazzini veniva dai quartieri più disagiati di Belfast ed era cresciuta in famiglie operaie poverissime o al limite della miseria. Alcuni non avevano mai visto il mare prima che Bishop glielo mostrasse. Per loro un viaggio a Helen’s Bay, benché fosse a meno di quindici chilometri da Belfast, era come una vacanza esotica in terre lontane. Anche se, come accadeva spesso, qualcuno doveva dormire per terra a causa del sovraffollamento o perché uno dei cani aveva reclamato un letto e si rifiutava di sloggiare.

Bishop era un tipo taciturno—a conferma del vecchio adagio che vuole che gli uomini di poche parole siano i migliori—e sapeva essere un capo severo, inflessibile e spietato. «Alzati» diceva ai giocatori che credeva fossero crollati troppo facilmente dopo un contrasto. «Se hai una gamba rotta cadrai di nuovo». Anche se sembrava burbero e parlava da burbero, era buono e generoso. Regalava ai ragazzi divisa, scarpini e buoni consigli; rintracciava quelli che si erano sentiti dire dallo United «arrivederci e grazie» e li consolava. Bishop, un protestante che non discriminava i cattolici, sapeva conquistare anche i genitori, che ne avvertivano l’integrità nella schiettezza delle parole.

Aveva talento nell’individuare chi aveva talento. Gli altri osservatori cercavano di scoprire dove sarebbe andato, o dove era stato. Quando Bishop si presentava a una partitella, comunicavano tra loro con cenni e occhiate. Nessuno voleva far trapelare nulla. Studiavano Bishop per provare a carpire da quel volto imperscrutabile l’oggetto dei suoi desideri. Fuori, Bishop non tradiva alcuna emozione. Dentro registrava tutto quello che aveva davanti, organizzandolo mentalmente in colonne del più e del meno. Di solito ci metteva poco a decidere se uno era abbastanza bravo per lo United. Bishop sapeva subito se un giocatore possedeva quello che lui, enigmaticamente, chiamava «quel certo non so che». Con i suoi rivali usava sempre la psicologia inversa, osannando un giocatore che in realtà non prendeva nemmeno in considerazione e sminuendo il suo vero obiettivo.

Il talento di Bishop stava nell’abilità di cogliere quello che sfuggiva agli altri. Guardava il ragazzo e vedeva l’uomo: il giocatore che sarebbe diventato una volta eliminati i suoi difetti. Fu con questi presupposti che riconobbe George Best per quello che era.

Intorno a George Best sono nate leggende arzigogolate. La prima è che Bob Bishop ignorasse la sua esistenza prima di essere costretto a organizzare una partita di prova appositamente per lui. Sciocchezze. Chiunque tirasse un calcio a un pallone a Belfast, Bishop lo conosceva. La seconda è il telegramma di otto parole che Bishop avrebbe mandato a Matt Busby: MI SA CHE TI HO TROVATO UN GENIO. Chi conosceva Bishop dubita che avrebbe mai scritto un telegramma così presuntuoso e audace; non era tipo da vantarsi o darsi delle arie. Tra l’altro, non si rivolgeva mai a Busby direttamente. Bishop seguiva pedissequamente procedure e protocolli, e presentava tutte le sue relazioni all’osservatore capo dell’Old Trafford, Joe Armstrong. Se fosse andato da Busby avrebbe scavalcato il suo capo.

Quel che è certo (benché ora sembri assurdo) è che tantissimi concorrenti di Bishop avevano visto Best al Cregagh Boys Club e avevano concluso che era troppo mingherlino per essere ingaggiato. Nemmeno i selezionatori delle scuole maschili lo avevano segnalato. Era alto 1,60. Pesava 47 chili. Costole e vertebre sporgevano dalla pelle giallognola. Braccia e gambe erano esili come canne di bambù. Best si vergognava del proprio corpo. Era stato autorizzato a indossare un gilet durante l’ora di ginnastica per nascondere meglio il suo fisico scheletrico. Riteneva il proprio corpo «un’area disastrata»: «Ero secco come un chiodo». E così gli osservatori seguitavano a venire e ad andarsene subito—scout del Glentoran, una delle squadre per cui Best faceva il tifo, e del Wolverhampton Wanderers, un’altra delle sue preferite per via delle maglie color oro. «Alle partite c’era sempre qualcuno delle grandi squadre irlandesi o inglesi» avrebbe raccontato Best, pensando al Tottenham, al Chelsea, e anche al Burnley che aveva vinto il campionato del 1960. Perfino il Manchester City perse l’occasione di accaparrarselo prima dei cugini.

Sembrava uno stecchino che poteva spezzarsi da un momento all’altro—finché qualcuno non gli passava un pallone. La sua supremazia nelle partite del Cregagh, nelle quali costruiva e finalizzava le azioni, era evidente.

Lo spogliatoio del Cregagh era un deposito sotto una casa, con una sola porta di legno fradicio e niente finestre. Le panche erano fatte di assi grigie e imbarcate le cui schegge finivano invariabilmente nelle cosce o nel sedere di qualcuno. Come appendiabiti c’erano dei chiodi piantati nelle pareti di cemento. Il campo era fangoso e pieno di solchi, e Best raccontò che dopo la partita c’era un secchio di acqua fredda a disposizione per «togliere il primo strato di fango». Non importava: «Non appena ci mettevamo a giocare pensavamo di essere le stelle del momento». Li allenava Hugh «Bud» McFarlane, un tizio magrolino con pochi capelli che, come Bishop, aveva trovato nel calcio l’amore della sua vita. Al Glentoran era stato promosso, come allenatore, dalla quarta alla seconda squadra, e stravedeva per Best. Tartassava gli osservatori perché lo andassero a vedere. Scriveva alle altre squadre per osannarne le virtù. Diceva a tutti che Best sarebbe cresciuto e avrebbe fatto strada. Il messaggio di McFarlane era: Lasciate perdere com’è e concentratevi su quello che fa. Best lo avrebbe ricordato con affetto: «Non smetteva mai di dirmi che, malgrado il mio fisico, un giorno ce l’avrei fatta». Siccome Bishop sentiva regolarmente McFarlane lamentarsi degli scettici che non gli davano retta, sapeva di avere tutto il tempo per mettere sotto contratto Best.

Quella tra Cregagh Boys e Boyland Youth, nell’aprile del 1961, non fu una grande partita. La giocarono prima di tutto per passare una giornata che altrimenti sarebbe stata vuota per entrambe le squadre, e poi per mostrare a Bishop un Best non ancora quindicenne alle prese con rivali di quasi diciott’anni. Best non sapeva chi fosse Bishop, né aveva idea del mestiere che faceva. Per lui era l’ennesimo vecchio signore con cappotto e cappello. In quel pomeriggio limpido e pungente Best segnò due gol. Il secondo lo vide convergere al centro dalla fascia sinistra, scartare tre avversari e fare un uno-due prima che un tiro in diagonale rasoterra facesse la barba al palo e finisse in rete. Anni dopo, Best non ricordava più se il Cregagh avesse vinto 4-1 o 4-2. Ricordava, però, che McFarlane si era mostrato stranamente entusiasta del risultato. Nel suo discorso al Boyland, Bishop aveva parlato del «piccoletto là davanti» e aveva ordinato esplicitamente ai suoi di non essere indulgenti, lasciandoli liberi di usare la forza per fermarlo. «Nel primo tempo nessuno fu abbastanza veloce da andargli vicino» disse poi Bishop. «Nel secondo evitò con un salto la maggior parte dei contrasti».

Bishop conosceva le altre risposte che il Manchester United voleva su Best. Busby era devoto a casa e famiglia. Per lui i legami tra genitori e figli erano importantissimi e voleva che lo fossero anche per i suoi giocatori. Busby si aspettava di apprendere, tramite Armstrong, tutti quei dettagli con cui Dickens aveva riempito pagine e pagine raccontando di David Copperfield: il suo passato, il suo carattere, la mentalità dei genitori e il loro stile di vita. Veniva da una famiglia unita e presente? I Best erano bravi lavoratori, gente onesta? Gli avevano dato un’educazione solida? Busby voleva saperlo perché era convinto che buoni genitori crescessero buoni giocatori. «Se un ragazzo viene tirato su come si deve, devi solo insegnargli il calcio» diceva. Bishop chiese a McFarlane le informazioni di cui aveva bisogno, e quello che sentì gli piacque. Il padre, Dickie, aveva quarantadue anni e lavorava al tornio nei cantieri navali. Fino a trentasette aveva giocato a calcio a livello amatoriale, perlopiù come terzino sinistro, e non aveva mai avuto paura di usare i tacchetti. Il gene sportivo comunque gliel’aveva passato la madre, Ann, vicina ai quaranta. Una donna molto raffinata, educata e dolce, vestita sempre in modo impeccabile e ancora attraente, con gli occhi neri e i capelli corvini—George, senza dubbio, doveva a lei il suo aspetto. Ann era stata una promessa dell’hockey, avrebbe potuto arrivare perfino in Nazionale se Hitler non avesse sconvolto il calendario degli eventi sportivi e gli anni della guerra non avessero troncato sul nascere la sua carriera. Aveva fatto mille lavori diversi, dall’operaia nelle fabbriche di sigarette e di gelati alla commessa in un fish and chips. Sul lavoro era precisa e scrupolosa e dai figli pretendeva lo stesso. Marito e moglie si erano conosciuti a un ballo nel 1939 e si erano sposati nel 1945. George era nato nel maggio del 1946. Aveva due sorelle: Carol, nata nel 1947, e Barbara, nata nel 1952 (altri tre fratelli sarebbero venuti dopo: due gemelle, Julie e Grace, nel 1963, e Ian, nel 1966). I Best erano liberi presbiteriani praticanti, erano cordiali, attenti e benvisti dai vicini. La casa, perfettamente tirata a lucido, era lo specchio del loro orgoglio e dell’impegno di Ann come casalinga. La soglia (un punto d’onore per le matriarche) era sempre immacolata, tanto era spazzata e strofinata. Le tendine erano bianche come la neve. A forza di olio di gomito, il pavimento di legno splendeva come uno specchio. Quando non era a lavoro, Ann si dava da fare con torte e crostate, o cuciva e lavorava a maglia, col morbido e veloce ticchettio dei ferri che si diffondeva in tutta la casa.

Best si chiamava come il nonno materno, George Withers, che aveva una panca personale in chiesa ed era il capo spirituale della famiglia. Era per via del nonno che il ragazzo frequentava regolarmente il catechismo, a volte sia la mattina che la sera. L’uomo che Best avrebbe poi definito «il mio primo eroe» aveva i capelli color argento e portava occhiali scuri. Il nipote pensava che fosse «un uomo di mondo, a modo suo» e che quando entrava in una stanza la sua fosse «una presenza speciale».

Bishop venne a sapere che Best era anche uno studente promettente. Aveva passato gli esami della scuola primaria e ottenuto una borsa di studio alla Grosvenor High School, dove si giocava a rugby. Il primo giorno di scuola (anzi, proprio alla prima ora), Best però si confuse: convinto che il professore sapesse già che lui era seduto al suo posto, non rispose all’appello e quando alzò gli occhi vide l’uomo incombere furibondo sopra di lui, con la toga e tutto il resto. «Picchiò fortissimo sul banco e cacciò un urlo ancora più forte: “Best!”, facendomi morire di paura» raccontò. «Quando risposi con un filo di voce, mi domandò gridando se per caso avessi perso la lingua e mi spedì fuori». Essere umiliato a quel modo, nemmeno fosse lo scemo del villaggio, segnò per Best l’inizio di un periodo difficile e tormentato. Ogni trimestre era un purgatorio. I sentimenti negativi verso la scuola e il corpo docente «divennero quasi patologici». Si sentiva fuori posto e non aveva amici perché «nessuno dei compagni del quartiere andava a scuola lì». Per fingersi malato comprò alcuni pacchetti di caramelle gommose e succhiò tutte quelle rosse finché la gola non gli diventò scarlatta, in modo da simulare una tonsillite. Un dottore, abboccando allo stratagemma, gli fece togliere le tonsille. Le pagelle di metà anno furono sconfortanti: i giudizi erano concordi nel concludere più o meno velatamente che «doveva fare di più». Best però non voleva fare di più. Voleva trasferirsi all’istituto tecnico della zona, la Lisnasharragh High School. «Là giocavano a calcio ed era vicina a casa» disse. I genitori cedettero, non vedendo il motivo di prolungare la sua agonia.

Bishop capì che Dickie e Ann erano un marito e una moglie capaci di fare un passo indietro per il figlio. Il padre evitava di andare a vederlo giocare col Cregagh per paura di metterlo in agitazione. La madre preparava il brodo col dado e gli spicchi d’arancia per lo spuntino dell’intervallo. Faceva a turno con le altre mamme nel lavare le maglie verdi della squadra, strofinando la stoffa pesante prima a mano e poi sull’asse. In virtù della sua educazione, Bishop poté aggiungere un’altra crocetta vicino al nome di Best. Gli erano state insegnate le buone maniere e il rispetto verso anziani e superiori. Bishop lo paragonò al piccolo Lord. Mancava solo un dettaglio. Per capire se Best sapeva stare insieme agli altri, oltre che per conoscerlo meglio, Bishop invitò il bambino prodigio al cottage di Helen’s Bay. «Parlammo di calcio senza interruzione… tipo fino alle tre del mattino» raccontò Best. «Era come se Bob ci stesse indottrinando, inculcandoci il suo punto di vista sul calcio». Bishop voleva che i suoi calciatori facessero una corsa prima di colazione. Best pensò che si trattasse di una corsetta al massimo di un chilometro. All’alba, al canto dei galli delle fattorie, fu svegliato per una corsa campestre così dura da sembrare una maratona. Non avrebbe mai scordato come Bishop li costrinse a correre «fin quasi allo svenimento» e di come lui fosse poi «indolenzito, acciaccato» e zoppicante per la fatica. Bishop aveva visto abbastanza. Nel giro di quarantotto ore preparò un contratto preliminare per ingaggiare Best, che piegò e ripose nella tasca interna della giacca. «Andai a casa sua,» avrebbe poi raccontato «ma non c’era. Fuori era buio pesto. Da qualche parte sentivo rimbalzare un pallone, e allora seguii quel rumore». Bishop trovò Best e tornò con lui in Burren Way, dove il contratto venne accettato senza esitazioni. Poi pronunciò la sua frase di rito: «Ti ho portato all’Old Trafford,» disse «ma se ci resterai o meno non dipende da me».

Nel salotto dei Best c’era una targa appesa al muro, con dei versi che sembravano fatti apposta per chi parte in cerca di fortuna:

PER QUANTO LONTANO SI GIUNGA

OVUNQUE ARRIVIAMO

I NOSTRI PENSIERI VANNO

A CASA, A COLORO CHE AMIAMO

Presto, il sentimento racchiuso negli ultimi due versi avrebbe parlato a Best come mai prima di allora.

© Duncan Hamilton, 2013

© 66thand2nd 2015

Il libro "George Best, l'immortale" è edito da 66thand2nd e potete acquistarlo qui.

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