Tutto iniziò con Spacewar, un videogioco prodotto nel 1962 dal Massachussets Institute of Tecnhology in cui lo scopo dei due giocatori era guidare delle navicelle spaziali attratte da un buco nero luminoso posto al centro della mappa con l’intento di distruggersi a vicenda. Nel 1972 l’Università di Stanford organizzò un torneo di Spacewar tra i suoi studenti. Numero di partecipanti: 24. Primo premio: un abbonamento annuale a Rolling Stone.
Com’era giocare a Spacewar, mezzo secolo fa.
43 anni dopo, al KeyArena Center (Seattle), circa 17mila posti a sedere, si tiene la quinta edizione di The International, il campionato mondiale di Dota 2, videogioco prodotto da Valve. I biglietti sono stati messi in vendita il 27 marzo del 2015 e sono finiti nell’arco di cinque minuti. La diretta dell’evento viene trasmessa in streaming online e in 400 cinema in tutti gli Stati Uniti. Le finali vengono viste da circa quattro milioni e mezzo di persone. Primo premio: oltre sei milioni e mezzo di dollari. Montepremi totale: circa 18 milioni di dollari.
In mezzo c’è tanto. C’è la diffusione dei videogiochi tra gli hobby della classe media occidentale, l’esplosione di internet, l’organizzazione su scala globale di tornei professionistici. Ma soprattutto una parola: sport, o meglio esports. Quella parola, che inizia ad affermarsi solo con il nuovo millennio, è il motivo per cui ne parliamo qui. Possiamo considerare il gaming, se condotto a livello agonistico, un vero e proprio sport?
Com’è un torneo di esports, oggi.
Uno degli approcci alla questione è quello che definirei numerico, o economico. Un approccio che viene ben riassunto dall’articolo di Gordon Hayward su The Players’ Tribune: “The Case for Gaming”. La sua tesi è contenuta proprio nella domanda: “Il gaming è uno sport?”. La risposta di Hayward è: Why does it matter? Per Hayward gli esports (inizialmente avevo scritto “videogiochi”) vanno seguiti per il semplice fatto che sono divertenti, complessi e soprattutto seguiti da un numero sempre più grande di persone.
Ma, al di là della crescita di un fenomeno, cosa trasforma un hobby in uno sport? Dobbiamo abbandonarci all’idea che sia la grandezza dell’audience a definire cosa sia uno sport o meno?
Per cercare di sciogliere questi nodi ho deciso di affidarmi a chi il mondo degli esports lo ha vissuto fin dall’adolescenza, passando per tutti i suoi livelli. Ho intervistato Andrea Bonifazio, che è stato prima pro-gamer di League of Legends e poi coach e manager di altri videogiocatori. Oggi fa parte del GEC (Giochi Elettronici Competitivi: l’organizzazione, riconosciuta ufficialmente dal CONI nell’ottobre del 2014, che si occupa di esports in Italia), occupandosi di progettazione, creazione e svolgimento dei tornei professionali di esports in Italia, e dei rapporti con le community di tutti i vari titoli.
Iniziamo con il tuo passato: vorresti ancora fare il gamer? Intendi partecipare a dei tornei quest’anno?
No, ormai no. Ad una certa età basta.
Perché basta?
Perché quando si parla di videogiochi, si parla di ore spese e volontà. Quello che non passa spesso al pubblico è lo stress a cui sei sottoposto che, secondo me, è la parte più devastante. Non c’è uno stress fisico, o meglio, lo stress fisico ti viene da quello mentale. Hai ricadute a livello fisico, fai più fatica. Il problema, però, è a livello mentale perché è un carico di lavoro che hai sempre, quotidianamente, che devi imparare a gestire. E poi devi affrontare tutti quei problemi che derivano da domande come ‘Che fai?’ - ‘Gioco’. Magari viene visto come un buttare il tempo e devi combattere anche con quello. Per quanto mi riguarda io non ho iniziato con League of Legends ma con World of Warcraft. Lì non la prendevo troppo seriamente, ero piccolino, penso avevo 16-17 anni, non di più. Aveva iniziato mio fratello, lo vedevo giocare a Diablo o Warcraft e mi era sempre piaciuto. Con World of Warcraft ho iniziato a capire che mi veniva fuori tranquillamente, ho fatto dei risultati decenti sia in PVP (player vs player, ndr) che in PVE (player vs environment, ndr). Ho partecipato con delle gilde importanti. E usciva fuori questa mia vena competitiva: mi veniva facile e rapido, era stimolante, mi piaceva, c’era curiosità a riguardo. Da lì ho iniziato a giocare, mi sono fatto degli amici che a volte ancora sento. Poi mi sono stufato, ho cambiato titolo, non mi soddisfaceva più.
E quando hai iniziato a giocare a livello sportivo?
Con League of Legends ho fatto lo stesso. Ho fatto il primo anno che giocavo ma non lo prendevo seriamente. Non mi sono chiesto se davvero potesse diventare una professione, anche perché non c’erano le strutture, non c’era niente. Non c’era tutta questa audience a guardarsi le partite. Se penso al primo Mondiale della prima stagione di LoL: il gioco era in piedi da circa un anno e mezzo e l’hanno giocato al DreamHack (una LAN che viene svolta in Svezia, un po’ il tempio dove tutti si riunivano e facevano tutti i tornei più importanti) in una stanza che sarà stata quattro volte questa (indica il piccolo bar in cui siamo, ndr). Il pubblico non ha superato il milione. Non era qualcosa di eccezionale però comunque nella prima stagione io sono arrivato 23esimo in Europa. Quindi lì ho cominciato a vedere qualcosina.
Di cosa parliamo quando parliamo di League of Legends.
E quanti anni avevi?
Parliamo di 4-5 anni fa, quindi 19-20. Che poi è già tardi per uno che vuole fare una cosa del genere. Sarebbe il momento in cui dovresti già iniziare a dimostrare qualcosa. Hai fatto tutto il lavoro di preparazione prima e lì è il momento in cui scoppia il giocatore. Esce fuori per bene.
Intorno ai vent’anni, quindi.
Sì, perché inizi ad averci una solidità mentale, fisica, di carattere. Inizi a rallentarti. Non hai più gli scatti dell’adolescenza. Quindi intorno a quel periodo, alla seconda stagione, comincio a prenderla più seriamente, prendendomi una squadra (il Team Redbyte Italia) e iniziando a girare. Io ho fatto due LAN importanti in quell’anno, a parte quelle italiane che lasciavano il tempo che trovavano (erano molto divertenti ma erano più d’aggregazione che di vera competitività). La prima è stata l’Insomnia, a Telford, una piccola cittadina vicino Birmingham dove ogni anno fanno tre edizioni. Per renderci conto: se in Italia non c’era ancora niente in quattro anni, lì stavano intorno alla 40esima edizione. La squadra ci paga tutto (viaggio, albergo, entrata). Parliamo di un premio intorno alle 10mila sterline. Quella è stata la prima uscita importante che ho fatto. E anche la più divertente perché conoscevo tutti i giocatori più importanti in Europa ma non avevo avuto mai modo di vederli dal vivo. E in Italia ero l’unico.
Quindi in Italia tu sei stato il primo?
Su questo titolo (League of Legends, ndr), sì. Per altri titoli c’è altra gente che viene molto prima di me.
E com’è andata?
Siamo arrivati quinti. Non è andata male, abbiamo avuto anche un po’ di sfortuna al bracket perché abbiamo incontrato la squadra che poi ha vinto. Non è una giustificazione per me, però era la prima uscita ed è andata fin troppo bene. Poi siamo tornati in Italia e abbiamo fatto le qualificazioni per i World Cyber Games nazionali al Romics. I World Cyber Games era una competizione che oggi non c’è più, organizzata da Samsung, lo faceva un po’ per auto-promozione.
A proposito, ho visto che c’è un rapporto molto stretto negli esports tra case produttrici e federazioni.
In realtà non si può parlare di federazioni. L’unica vera federazione è la KeSPA, la federazione coreana. Tant’è vero che alcuni giocatori coreani hanno la carta d’identità segnata insieme all’account. Lì è arrivato a quel livello: la tua identità fisica coincide con la tua identità virtuale. In America (il videogiocatore, ndr) è stato riconosciuto come atleta. Il resto del mondo sta ancora un pochino più indietro. Ma la direzione comunque è quella di creare una federazione. Ed è anche quello che vorremmo fare noi nel GEC, creare una federazione per regolamentare e promuovere nella maniera sana quello che si va a svolgere.
E ti dà fastidio questo rapporto?
No, non è invasivo. Non va ad intaccare i giocatori su quel livello. Non ci stanno quasi mai screzi a riguardo, per lo meno finora. Poi si parla sempre di soldi.
Perché negli sport tradizionali il rapporto tra sponsor e competizione è sempre molto discusso. Cioè quanto influiscono gli sponsor nello schierare determinati giocatori o nella scelta di un determinato allenatore.
No, su quello no. È ancora piuttosto indipendente, magari perché ancora non si parla di cifre così importanti da smuovere anche a quel livello. Però ci sono casi di giocatori che si sono venduti le partite. La polizia coreana, ad esempio, ha creato un suo corpo che vigila solo su questi casi. Un giocatore è stato arrestato circa un mese fa e non è il primo. C’è stato un ragazzo che aveva tentato il suicidio perché era entrato all’interno di una squadra e il suo manager gli aveva promesso sponsor e cose del genere. Arrivarono ad una partita molto importante e lui gli disse: “Voi questa partita dovete perderla”. Perché c’era un giro di scommesse dietro e doveva rientrare di un bel po’ di soldi. I ragazzi, pensando che se non l’avessero persa avrebbero detto addio al mondo del gaming, l’hanno fatto però alcuni di loro poi hanno avuto delle ricadute a livello mentale spaventose. E uno addirittura ha pensato al suicidio. Lì (in Corea, ndr) è diventato quasi (il gaming, ndr) un modo per uscire dalla tua classe sociale. Un modo per saldare tutto il percorso e avere un altro tipo di vita che magari non potresti avere.
L’intervista a Cheon Min-Ki, il ragazzo coreano che ha tentato il suicidio dopo lo scandalo scommesse, contenuta in un documentario di Vice.
E, a parte le combine delle partite, ho letto che ci sono anche altri problemi, come l’assunzione di psicofarmaci. Mi sembra un mondo estremamente competitivo, persino più competitivo rispetto agli sport tradizionali dove la competizione è già stabilita da decenni. Pensi sia un lato tipico degli esports?
Penso che sia una conseguenza. Il doping di cui si parla più spesso è l’Adderall, uno stimolante. Gli effetti dell’Adderall sono (per lo meno questo è quello che hanno raccontato: personalmente sono pulito!) pupille dilatate, infervoramento, trascinamento totale nelle emozioni. E le pasticche di Adderall non dovrebbero costare manco troppo, e penso che saranno anche scese di prezzo. Stiamo parlando della parte brutta che, secondo me, puoi riscontrare un po’ ovunque, non è settoriale e specifica. Se non c’è un controllo o una regolamentazione, nessuno si pone freni. Tra l’altro, l’Adderall è estremamente addictive, è uno stupefacente di cui dopo non puoi farne quasi più a meno: ti distrugge. Ma non se ne rendono conto perché magari c’è qualcuno dietro che li spinge per questioni economiche a fare queste cose. Ed è necessario che inizino a nascere delle regolamentazioni. Problemi di salute e i problemi di competitività, non fa bene in generale. Si è iniziato da poco, queste sono le prime avvisaglie.
L’intervista a Kory “Semphis” Friesen, attualmente membro del team Nihilum, in cui ammette che la sua ex squadra, Cloud9, era sotto effetto di Aderall durante gli Electronic Sports World Cup del 2015 a Katowice.
Perché in Italia gli esports sono così poco diffusi? Pensi sia solo un problema tecnologico?
No, è tutto. Puoi analizzare qualsiasi differenza e te ne rendi conto immediatamente. A partire dall’intenderlo come un lavoro. Io stesso sono uno di quelli che quattro anni fa, quando mi fu fatta un’offerta di andare all’estero per giocare in una squadra, stipendiato in una gaming house, dissi di no. Ero al primo anno di università e mi dissi: “Ti pare che adesso abbandono tutto per andare a fare ‘sta roba?”. Non lo intendevo proprio come un lavoro. Il distacco generazionale a riguardo si sente. Mia madre e mia padre, che comunque mi hanno sempre lasciato carta bianca per sperimentare e sbagliare, si facevano dei problemi e mi dicevano di ricordarmi che era sempre un gioco. Quello è un aspetto, poi vogliamo parlare delle persone che guardano? I numeri che facciamo in Italia sono quasi ridicoli rispetto a quelli che fanno in Francia, che sta qui accanto. A livello di infrastrutture c'è un abisso: se ti vai a vedere qualsiasi media di velocità di navigazione in download e in upload rispetto al resto d’Europa… apriti cielo! Vogliamo parlare del numero delle organizzazioni che si occupano di questo? Quante competizioni ci sono? Come le community gestiscono questo genere di cose? Il risultato finale è che in Italia gli esports non prendono piede.
Affrontiamo l’elefante nella stanza. Saprai benissimo che c’è questo dibattito se considerare il gaming uno sport o meno. C’è chi dice che il gaming è uno sport a tutti gli effetti e chi invece se ne frega e non gli interessa la definizione di sport. A te interessa che venga usata la parola sport quando ci riferiamo al gaming o no?
‘Interessa’ è un parolone. Ti rifaccio la domanda: va per forza etichettato?
Quindi non ti interessa.
Mi interessa che venga riconosciuta come una questione seria. Un po’ mi interessa, ovviamente, altrimenti non farei il lavoro che faccio, di promozione sportiva con un ente. Però io non sono un laureato in scienze motorie o una persona che può permettersi di parlare di sport perché alle spalle ha un curriculum di 20/30 anni per cui magari può sentirsi libero di dire: ‘questo sì, questo no’. Ovviamente mi faccio delle domande e mi dò delle risposte. (Il gaming, ndr) ha comunque la sua natura. Io non trovo che debba per forza entrare all’interno di quella scatola per cui se non è quello allora non lo puoi riconoscere come una cosa impegnativa o che richieda una sforzo psico-fisico. Tutti i giocatori che fanno parte delle leghe competitive vivono in gaming house dove i loro manager gli impongono degli schedule di lavoro giornalieri che non prevedono solo pratica al pc, ma anche interazioni in palestra o in piscina. Perché se tu non stai bene a livello fisico, a livello mentale non rispondi bene. Vuoi per una questione d’ossigenazione o scarico dello stress. Io per scaricarmi giocavo a pallanuoto. Ma quella sensazione non ce l’avevo quando giocavo con lo scopo di vincere. Quello non è uno scarico, quello è un carico di stress derivante da tutta una serie di pensieri: “devi vincere”; “cosa ho sbagliato?”; “come lo correggo?”; “perché è successo?”; “che ha fatto l’altro in più?”; “che potevo fare io in più?”. E lo riesci a gestire senza uno scarico fisico? O collassi? Perché tanti giocatori cascano su sé stessi quando non sono supportati da persone che li seguono. Come qualsiasi altro atleta.
A proposito, tu hai fatto anche il coach: mi spieghi come si allena un videogiocatore? Di livello alto, ovviamente.
Lo scoglio è la durata degli allenamenti. I contratti dei giocatori asiatici (che prendo sempre in considerazione per dare uno spaccato di chi sono quelli che vincono sempre) prevedono sulle 12 ore al giorno. Da contratto non hanno relazioni perché è tempo che viene tolto (all’allenamento, ndr). E questo è un problema che nasce dalla velocità di internet. Su internet è tutto x4 della velocità e quindi anche le carriere dei giocatori sono molto più strette. Un giocatore difficilmente arriva ai 25 anni per gli strategici, sugli sparatutto invece sono molto più lunghe.
E tu da coach come allenavi i tuoi giocatori? Una giornata tipo d’allenamento.
Prima guardo le partite delle varie leghe, mi informo, studio, mi aggiorno anche io. Mi facevo circa due partite al giorno, non di più perché non avevo tempo. Poi mi mettevo lì con i ragazzi e cominciavamo a parlare: si gioca questo, si gioca quello, è meglio quel campione, è meglio questo personaggio, le varie sinergie tra i vari campioni per fare le composizioni giuste. Oppure durante la partita è importante capire perché prendere visione di un determinato punto della mappa e non di un altro.
Diciamo quindi che la prima fase è di dialogo.
La prima è quella analitica, dove affronti tutte le varie questioni. I fondamentali, chiamiamoli così. La seconda fase è riuscire ad entrare in contatto con i giocatori, riuscire a fargli capire cosa c’è nella tua mente e proiettarlo a loro. In modo che per loro sia tangibile, non siano chiacchiere. Tutto questo avviene tramite Skype, o Teamspeak, o altri software che ti permettono questo genere di cose. Poi si cominciano a mettere in pratica queste cose, quindi loro giocano e tu li guardi da esterno. Questo è un lavoro di autocritica, capire perché quel giocatore ha fatto quell’errore e perché non avrebbe dovuto farlo. Questo vuol dire andare a correggere il decision-making del giocatore. Quella è la parte difficile perché se sei abituato che il passaggio, per intenderci, lo fai con il corpo impostato in una determinata maniera e lo hai fatto per due anni in quel modo, per me il compito più importante è dirti che è sbagliato. Quindi devo sradicare il processo mentale che hai sempre usato e fartene usare un altro. Quella è la difficoltà: andare a correggere una cosa che è già ben strutturata e ben affondata nelle radici. Poi si parla a fine partita. Una cosa difficile da gestire è la comunicazione. Le squadre più importanti sono quelle che hanno delle comunicazioni eccellenti, dove si capiscono subito i giocatori, dove le informazioni che danno sono sempre quelle, dove non perdono la testa perché qualcuno ha fatto un errore e sta mettendo in pericolo la partita per tutti. Il difficile del gioco di squadra è quello: riuscire a mantenere quella sorta di stato mentale in cui un errore non ti va ad intaccare il resto della partita, a livello di pensiero, più a livello di ciò che è successo. Poi durante la partita continui a fare questi piccoli aggiustamenti, facendo o le stesse prove o cambiando il modo di giocare per cercare di allenarli anche a livello di flessibilità. Quando hai finito, raccogli tutto il paper-work e lo rielabori, magari prendendo dei frammenti video di quello che è successo. Poi glielo fai rivedere dopo, a mente fredda. Gli fai capire gli errori e perché sono successi: gli dai una soluzione. Ma non tutti i giocatori hanno questa autocritica da perfezionarsi e non tutti sono in grado di uscire da questi schemi mentali. Il problema principale per i giocatori è inquadrare il coach come responsabile, come figura da rispettare. Ma è un po’ come il calcio, dove c’è sempre il problema di riconoscere l’autorità (dell’allenatore, ndr).
Esercizi di stretching per gamer.
Parlando di competitività, che tu giustamente metti in risalto: c’è chi dice che un problema degli sport tradizionali è che si trasformino in intrattenimento, un semplice spettacolo per far passare qualche ora di svago alle persone. Pensi che questo possa essere un pericolo anche per gli esports?
Io penso che abbiano trovato dei connubi perfetti su questo.
Quindi non la vedi in maniera negativa.
Basta che sai quello che stai guardando. Una cosa positiva riguardo agli sport elettronici, esports, competizioni elettroniche… chiamiamole come ci pare.
Tra parentesi: il fatto che vengano chiamati videogiochi ti fa incazzare?
No, per niente. Io studio lingue. Nei criteri di traducibilità di una parola ci si attacca a quella più vicina in italiano. In italiano abbiamo una parola più vicina per dire esports? Sport elettronico: la traduzione più vicina sarebbe quella. Ma quanto è in uso dai parlanti? Vabbè, questa è linguistica e la lasciamo da parte. Ma a me non disturba la cosa. Un videogioco è un videogioco. Ma come lo diciamo noi lo dicono anche gli altri.
E invece tornando alla questione dell’intrattenimento.
Tu devi sapere quello che stai guardando. Anche quando ti guardi una partita di Serie A, quello per te è un intrattenimento. Poi secondo me su questo i videogiochi riescono ad avere più presa sulle persone perché un po’ sono costretti a scendere a compromessi. In questo ambito, il gioco che ha fatto tanto è quello della Riot: League of Legends. Hanno trovato la formula perfetta per cui loro propongono questo campionato dove giovedì e venerdì giocano gli europei, sabato e domenica gli americani. E cercano anche loro di avvicinarsi agli sport reali o tradizionali. Perché ti danno una regolarità. Per cui tu sai che all’interno della settimana quel giorno giocano. In Corea lo fanno il giovedì, il venerdì e il sabato (la domenica non la toccano). Oppure ci stanno delle regular season in cui giocano giovedì, venerdì, il sabato lo saltano, e poi ricominciano la domenica. Su questo fanno delle prove perché anche loro sono costretti da questioni di pubblico. Perché qualcuno i soldi ce li investe e quel qualcuno di quei soldi vuole rientrarci. E ha bisogno del pubblico per farlo. Perché sei tu che decidi che ti guardi. Se ti fanno vedere una partita dove ad un certo punto mezzo schermo viene occupato da una pubblicità, quella pubblicità diventa negativa. Poi se ti vai a vedere una partita più impegnativa è ovvio che ti aspetti di vedere un livello di gioco alto. Però allo stesso tempo hai bisogno del commentatore spigliato, che è in grado di alleggerire tutto e anche spiegarti. Io faccio anche il commentatore, ad esempio. E su questo ci siamo attaccati a quello che i commentatori già fanno: c’è il commentatore del play-by-play, quello che ti spiega quello che vedi, e il tech, che ti spiega quello che è successo. È un unire come si deve, trovare un connubio che funziona e che al pubblico piace. Se poi ti sbilanci troppo da una parte e il pubblico si aspetta di vedere una partita competitiva come si vede, lo stai deludendo. O il contrario: vado a teatro, mi aspetto di farmi una risata e poi mi becco uno che mi attacca un filotto infinito sulla filosofia. Posso apprezzarlo ma non era quello che mi aspettavo.
Sappiamo che l’audience globale degli esports sta crescendo tantissimo: perché secondo te? È solo per la competizione oppure c’è qualcos altro che attira più degli altri sport?
È una cosa diversa e facilmente guardabile. È facile guardarsi una partita: se hai una connessione decente e un computer te la guardi. Passi del tempo. Mi allaccio a questo discorso della facilità di accesso per aggiungere che esiste il rischio di chiudersi in se stessi con la famosa alienazione da monitor dove non esistono più i gradi di comportamento tra le persone.
Quindi gli esports per te vengono seguiti solo perché è una cosa diversa da quella che può essere uno sport tradizionale, come il calcio o il basket.
Secondo me è un contenuto diverso, un contenuto più fruibile.
Pensi che si sgonfierà col tempo esaurendosi la novità?
No, perché non è solo una questione di novità. C’è l’evoluzione del gioco: riusciranno a trovare il prossimo titolo strutturato per cui è user-friendly, è molto semplice da imparare, è appetibile da guardare, non è pesante a livello grafico, ha le sue parti dove le persone possono dimostrare di essere brave… E poi (gli esports, ndr) ti offrono un pacchetto piuttosto largo di quello che ti vuoi guardare: dallo sparatutto allo strategico in tempo reale. E poi sono così tanto in decrescita i numeri degli sport tradizionali?
Beh, se pensiamo agli stadi della Serie A che sono sempre vuoti e c’è il problema di come riempirli…
Io penso si sia esagerato, personalmente. Che si sia voluto spremere troppo il pubblico.
Televisivamente dici?
In entrambi i modi: sia televisivamente che fisicamente.
C’è troppa offerta.
C’è troppo. E ad un certo punto le persone non possono fare solo quello. Se tu adesso accendi Sky, Mediaset Premium o un qualunque streaming anche illegale, per sbaglio una partita la trovi. O come la Serie A: ha senso spalmarla su 4-5 giorni? Non è un’esagerazione? E poi ci sono tutti i problemi che ti impongono allo stadio. Prendi la Roma: ti hanno diviso una curva. Oppure la stessa curva ha quest’etichetta per cui al suo interno sono tutti mezzi criminali. È un posto pericoloso: ormai il messaggio che passa dello stadio è questo. Oppure che gli sponsor decidono loro qualunque cosa, come dicevi tu prima. E a me che sono un appassionato questa cosa urta perché mi sento spremuto fino all’osso. Sui videogiochi succede ma ancora non del tutto. Io spero che non si arrivi a quel punto per cui davvero poi c’è un disinteressamento totale. L’importante è che ci sia una sorta di regolamentazione, un po’ di freno sul caricare tutta questa responsabilità sul pubblico. Gli eventi importanti nel mondo degli esports non fanno fisicamente i numeri degli sport (tradizionali, ndr) perché ancora non c’è questa domanda, e non c’è neanche quest’offerta. Gli eventi che fanno 40-50mila persone per una partita, o per 2-3 partite alla fine di un torneo, ci stanno una volta al mese, in spazi diversi del mondo. Io per esempio sono stato a Seoul a dicembre, nello stadio che è stato costruito per la finale dei Mondiali. Porta 60mila persone quel posto: era pieno.
L’imponente cerimonia d’apertura delle finali dei Mondiali 2015 di League of Legends, al Mercedes-Benz Arena di Berlino.
Prima hai usato la parola “sport tradizionali”. Pensi che nello sport ci sia un progresso lineare? Nel senso: pensi che gli sport che oggi pratichiamo e guardiamo di più, cioè il calcio, il basket, il rugby, siano destinati a scomparire e far posto agli esports? O pensi che le cose continueranno a convivere in futuro?
Secondo me continueranno a convivere. Anche adesso che noi stiamo parlando, se tu vai a vedere una scuola calcio è ancora piena di ragazzini che ci stanno dentro. Quelle sono persone che non smetteranno di guardare il calcio tra qualche anno. Secondo me non scompariranno. Mi auguro e sono sicuro che non scompariranno.
Perché te lo auguri?
Perché secondo me sarebbe un male. È una passione in più che abbiamo, perché toglierla? Però nello stesso tempo dico: perché guardare male una passione che nasce adesso? Possono convivere tranquillamente. Nessuno toglie niente a nessuno.
Ecco, a questo punto vorrei introdurre il discorso della realtà virtuale.
Eh, qui ho paura.
Tu dici che gli sport tradizionali ed elettronici continueranno a convivere, però se noi pensiamo ai possibili sviluppi che avrà la realtà virtuale, è possibile che un giorno giocare a FIFA e giocare a calcio sarà più o meno la stessa cosa. Magari potremo giocare a calcio da soli.
O magari connesso con qualcun altro o magari da casa tua. Oddio, questa è Rocket Science.
Quindi pensi sia solo una paura mia, o è possibile?
No, anche a me farebbe paura immaginarmi una cosa simile. Però l’importante è che continuo a sapere che è artificiale. Basta che lo so. Non devo essere completamente assuefatto da ciò che viene riprodotto nella mia mente. È l’uso: torniamo sempre lì. La realtà virtuale perché nasce? Per dare una mano a chi ha una sindrome dell’arto mancante, magari un veterano di guerra che ha perso un braccio. Però sì, l’applicazione industriale fa paura.
E pensi che, uscendo dalla distopia, la realtà virtuale cambierà gli esports come li viviamo adesso? Cioè con una persona che sta davanti a uno schermo. Oppure quel tipo di modalità di praticarli rimarrà invariata?
Questa è una domandona. Per come la vedo io, in parte mi auguro di no. Perché si va a perdere quella realtà fisica. Se mi viene da pensarla anche in termini di costruzione e architettura del software penso che sia pure una cosa un po’ troppo imponente da pensare adesso. Poi magari sblocchiamo altre cose che non avremmo mai pensato di poter sbloccare o fare.
A proposito di questo, volevo chiederti se c’è qualche forma di dualità negli esports tra il giocatore fisico, che “dirige” il videogioco, e il personaggio virtuale, che effettivamente vive l’azione. Magari i personaggi virtuali potrebbero diventare più famosi dei giocatori fisici.
Per ora non è mai successo. E non penso succederà. Perché fintanto sei sicuro che c’è sempre una persona che lo sta facendo, il dubbio non si pone neanche. Poi lo puoi vedere dal punto di vista del mondo del cosplay, persone che magari vogliono animare quel personaggio per mettersi un costume addosso, ma l’importante è che lo fai sapendo di metterti un costume. Non è una cosa che mi piace così tanto però è una passione. Io penso che quello che dici tu è una conseguenza. La causa prima è che hai delle lacune in termini di forza… magari non hai gli strumenti adatti per capire che c’è una persona e non è importante il cazzo di pixel che stai guardando.
Una recente campagna pubblicitaria di Louis Vuitton, che ha come protagonista Lightning, uno dei personaggi di Final Fantasy. In un’intervista al Telegraph, Lightning si è detta “orgogliosa di essere stata scelta”.
Ti spiego come sono arrivato a questa domanda. Guardando ad una discussione su reddit in cui c’erano queste guerre religiose per decidere se il gaming fosse uno sport o meno, c’era chi ironicamente diceva che negli esports c’è meno finzione rispetto al calcio. E la cosa mi ha fatto riflettere perché anche io in un mio pezzo recente ho scritto per noi tifosi di calcio sarà sempre più difficile immedesimarci nei campioni perché ormai sono solo dei professionisti specializzati. Quindi non è che è più facile affezionarsi a un personaggio virtuale?
Dipende quanto sei attaccato alla tua realtà. Però questo è un discorso che si può fare su tutto. Quando ci siamo incontrati all’inizio io ti ho detto che non sono una bestia da pubblico, o comunque non l’ho mai spinto troppo questo lato. Io ho sempre diviso tanto Andrea e Bonny. Per farti un esempio, sul mio profilo privato su Facebook ‘Andrea Bonifazio’ io non ho mai accettato in larga massa le centinaia di richieste d’amicizia che mi sono arrivate e che erano legate a Bonny. Devi sapere che esiste una distinzione. Se fondi le due cose, ti ci perdi troppo.