Otto luglio 2012, finale di Wimbledon, sono circa le quattro di pomeriggio. Andy Murray ha vinto il primo set contro Roger Federer e sembra finalmente arrivato il suo momento. Invece Federer si trasforma all’improvviso nel supereroe che ha calcato i campi da tennis dal 2004 al 2007 e gioca un finale di secondo set che tramortisce il rivale. Federer vince in quattro set, torna al numero uno del mondo e vince il suo diciassettesimo Slam. Murray non finisce in lacrime come successo agli Australian Open 2010 («Posso piangere come Roger, ma non posso giocare come lui», disse allora) perché sa di aver finalmente trovato il livello di gioco giusto, quello che serve per vincere gli Slam. Non a caso, a partire da quella finale, vincerà i suoi primi due Slam (gli US Open 2012 e Wimbledon 2013, entrambi in finale con Djokovic) e le Olimpiadi di Londra, probabilmente il click tanto agognato. Ma c’è una statistica ancora più interessante: a partire da quella sconfitta con Federer, Murray non ha più perso una finale con un tennista diverso da Novak Djokovic, l’asticella di riferimento del tennis mondiale negli ultimi cinque anni.
L’emozionante discorso post-partita di Murray nel 2012.
Quando Sam Querrey ha eliminato Novak Djokovic al terzo turno del torneo, insomma, il clan di Andy Murray deve aver sorriso. L’eliminazione di Djokovic aveva mischiato le carte del torneo, aprendo i pronostici a tanti vincitori diversi.
Djokovic che perde fa notizia, ma Djokovic che perde contro Sam Querrey a Wimbledon, dove si presentava in corsa per il Grande Slam, lascia soprattutto riflettere. A Londra il serbo è arrivato scarico a livello mentale, probabilmente ancora inebriato dell’agognato successo del Roland Garros. Giocando male, anche per via dell’assenza dai tornei nei 21 giorni seguenti la finale di Parigi, Djokovic è incappato in una giornata da campione di Querrey, uno che prende il tennis meno seriamente di lui. Cose che possono capitare, ma che difficilmente ricapiteranno in futuro, a cominciare dalla stagione del cemento americana.
Sarà però interessante capire come Djokovic reagirà alla prima grande sconfitta da più di un anno a questa parte. Solitamente il numero uno del mondo ha dimostrato di sapersi riprendere velocemente dalle sconfitte, però per lui - così come per Murray - sta per avvicinarsi il momento in cui si deve fare i conti con l’età. A 29 anni il corpo comincia a rispondere con qualche frazione di secondo in più e pure i tempi di recupero si allungano, seppur di poco. Riusciranno Djokovic e Murray a trovare le contromisure adatte al tempo che passa? È questo il principale interrogativo a cui dovranno rispondere i due campioni nei prossimi mesi.
Judith Murray prende con freddezza l’eliminazione di Nole. Il momento in cui capisce che la vittoria di suo figlio è diventata una cosa dovuta.
Roger?
L’eliminazione di Djokovic aveva fatto sorridere soprattutto Federer, che aveva visto forse davanti a sé l’occasione irripetibile di vincere un ultimo Wimbledon.
Lo svizzero era arrivato alla seconda settimana del torneo superando tre turni contro avversari mediocri: l’argentino Pella, che non aveva mai vinto una partita su erba; Marcus Willis, numero 775 ATP, giunto al termine della sua favola da Carneade; poi il britannico Evans e lo statunitnese Johnson, battuti agevolmente in tre set. Escluso Djokovic, che l’aveva battuto nelle ultime sue due finali slam, Wimbledon 2014 e 2015, solo Murray avrebbe potuto battere Federer, anche se Roger ha dimostrato in passato di avere la capacità di battere più Murray che Djokovic, pur essendo questi due tennisti molto simili.
Solo che Roger ha trovato nei quarti di finale il miglior Cilic da quello che vinse gli US Open nel 2014. Sebbene si sia salvato al quinto set, dando vita alla partita più bella dell’anno in quanto a pathos e coinvolgimento, annullando ben tre matchpoint al croato, Federer ne ha pagato il conto due giorni dopo, quando ha perso un match che stava controllando proprio contro Milos Raonic. Federer ha molti rimpianti per quella partita, anche se nell’eventuale finale, contro un Murray fresco e riposato dai tre set vinti contro Berdych, non si sarebbe presentato forse al meglio fisicamente.
Nessuna distrazione
L’eliminazione di Federer ha per certi versi reso il cammino di Murray fino alla vittoria del suo terzo titolo dello Slam ancora più agevole, con due soli set concessi a un solo avversario, Jo-Wilfried Tsonga, battuto al quinto set nei quarti di finale. Murray ha sempre avuto un difetto nel mettere la giusta concentrazione e spesso ha lasciato energie nei primi turni per poi arrivare poco fresco al momento del dunque, quando c’è da essere al 100% per battere il proprio avversario. Tsonga però ha potuto fare poco nel quinto set e si è arreso a Murray subito dopo aver vinto il quarto set in rimonta, complice una pausa mentale dello scozzese. In semifinale Murray ha incontrato Berdych, in un match che è risultato meno impegnativo di una sessione di allenamento.
Il percorso alla finale, in sostanza, è stato il migliore che Murray potesse desiderare: dagli ottavi in poi ha affrontato solo big server, prima Kyrgios, poi Tsonga ai quarti e Berdych in semifinale, e infine Milos Raonic, la prova definitiva visto che il canadese è certamente il tennista con il servizio più potente ed efficace del circuito. Murray però ha probabilmente la risposta migliore ed è arrivato in finale nelle condizioni perfette, aggiustando quello che doveva aggiustare. E ieri si è visto fin dal primo punto, quando Raonic ha subito rischiato una seconda a 130 miglia orarie vedendosi non solo tornare indietro la palla, ma subendo il primo vincente di Murray da fondocampo con un dritto incrociato.
La finale con Raonic, insomma, è stata poco più impegnativa delle precedenti partite: è stato un match giocato in maniera perfetta dallo scozzese, che non ha mai concesso al suo avversario di non nuocere con il suo colpo migliore, il servizio, peraltro in una giornata poco brillante (solo 8 ace). Quando Raonic è riuscito a battere Federer in semifinale, anche grazie a un’eccellente prestazione al servizio, i nostalgici del vecchio tennis sono insorti, riportando le discussioni all’epoca di Ivanisevic e Philippousis, due tennisti che erano praticamente ingiocabili al servizio e che hanno costretto gli organizzatori del torneo a rallentare le condizioni di gioco.
Murray non ha però fatto una piega, nemmeno quando si è visto arrivare al corpo una prima palla a 147 miglia orarie: lo scozzese ha risposto nei piedi del canadese, per poi passarlo nel colpo successivo. Ad alti livelli è più difficile saper rispondere bene più che fare molti punti diretti con la battuta. Murray, il migliore al mondo in risposta con Djokovic, ha dichiarato in conferenza stampa che dedica molto tempo della sessione di allenamento a rispondere a servizi quando molti altri giocatori dedicano a questa parte del gioco solo pochi minuti. Pure Federer, anche se sembra strano, ha capito di avere ancora qualche margine ed è anche per questo motivo che ha assunto Ivan Ljubicic, un ex tennista croato ritiratosi da poco tempo e capace di servire molto bene.
Per Murray, che pure aveva vinto nel 2013 contro Djokovic in finale, questa vittoria ha un sapore diverso. «Sono più felice questa volta, ho lavorato molto con il mio team per essere qui. Nel 2013 ho festeggiato poco, ero solamente molto sollevato per aver vinto. Questa volta festeggerò molto di più».
Poche idee, ma chiare
Murray dirà inoltre che si è attenuto molto alla strategia che gli ha concesso di vincere la partita. In molti hanno voluto dare una lettura della partita simile a una sfida fra i due coach-star: da una parte Ivan Lendl, fresco di ritorno nell’angolo di Murray, dall’altra John McEnroe, consulente aggiunto per Raonic durante la stagione su erba. Chi ha vinto? Al netto della rilevanza tecnico-tattica dei due coach, praticamente nulla, per Murray è stato molto importante trovare lo sguardo di Lendl dopo ogni punto per sfogare la sua rabbia, ricevendo in cambio la smorfia tipica di Lendl, quella della calma serafica, che induce lo scozzese a rimanere concentrato. «Focus» (Concentrati!), ha urlato più volte Murray portando l’indice sulla tempia. Raonic, invece, nel suo angolo aveva Riccardo Piatti, visto che McEnroe era in cabina di regia della BBC, la tivù di casa per la quale l’americano stava commentando il match del suo assistito.
Ad ogni modo, Raonic non aveva reali possibilità di battere Andy Murray. Sebbene i progressi del canadese siano stati sottolineati anche dai suoi avversari, a Milos manca ancora qualcosa per raggiungere il livello dei Djokovic e dei Murray, i veri dominatori delle finali Slam. Murray è stato eccezionale al servizio, ma soprattutto ha ridotto al minimo i passaggi a vuoto durante la partita. Ha strappato il servizio a Raonic nel primo set, e ha giocato i due tiebreak dei rimanenti set alzando il livello della sua concentrazione: è stato praticamente perfetto.
La precisione tattica - e tecnica - di Murray, soprattutto nella fase difensiva.
Durante i cambi di campo il britannico leggeva un foglietto dove c’erano scritti i punti chiave della tattica preparata con Lendl, ovvero non far colpire al suo avversario il dritto da fermo, ma soprattutto costringerlo a giocare volée sotto il livello della rete. In risposta al servizio Murray ha cercato di indirizzare la palla lontano da Raonic, lento ad uscire dal colpo per via delle sue lunghe leve. In fase propositiva Andy ha cercato di mettere in campo la prima palla perché la sua seconda, sempre tirata sotto le 100 miglia orarie, era spesso preda di attacchi di dritto da parte del canadese. Il vero punto debole dello scozzese, che lo distingue dal gemello Djokovic, è proprio la velocità della seconda palla: Murray tra i Fab Four è quello con il gap di velocità maggiore tra prima e seconda e questa differenza gli è costata molti match, specie quando le percentuali di prime di servizio erano più basse del solito. Alla fine del match, il migliore dei due al servizio, però, si rivelerà proprio Andy Murray.
A mezzo servizio
Che il servizio di Raonic non fosse fluido come nei giorni migliori si è capito fin dal primo set, quando sono arrivate le palle break che hanno consentito a Murray di chiudere per 6-4 il primo parziale. La tensione, quella che influisce sull’efficacia dei colpi su cui si fa più affidamento in termini dell’economia generale del gioco, si è fatta evidentemente sentire, ma solo nel primo parziale. La partita è risultata godibile per via del confronto di stili ma non ha mai dato l’impressione di essere in discussione in termini di risultato. Murray era molto solido da fondo campo, scendeva a rete solo per chiudere facili volée alte e mai per prendere rischi, a differenza di Raonic, ottimo in alcune volée di dritto che pure giocava con il naso praticamente sopra la rete.
Non si può dire che Raonic non le abbia provate tutte, lui che pure non ha chissà quali soluzioni a cui affidarsi. Quando ha capito che era inutile tirare a tutta, perché tanto Murray riusciva a rimandare di là qualsiasi servizio, il canadese ha provato a lavorare la palla, compresa la soluzione in kick, che permette di guadagnare più velocemente la rete. L’unico risultato che ha ottenuto, alla fine, è stato quello di entrare nello scambio, la comfort zone del suo avversario. C’era ben poco da fare, insomma, ma bisogna riconoscere che quantomeno Raonic ha provato a smentire chi lo considera un serve-bot, un robot che tira sempre la stessa botta a 230 chilometri orari.
Le uniche occasioni di Raonic nell’intera partita sono state due palle break concesse e subito annullate da Murray a metà del terzo set, una specie di siparietto concesso agli statistici per ricordare che in campo erano in due a giocare. Il britannico alla fine dominava il tiebreak del terzo set ancora più nettamente di quello vinto nel secondo parziale, per festeggiare una vittoria annunciata.
Quando Murray ha risposto alla domanda della giornalista che gli chiedeva del lavoro fatto con il suo team, riferendosi evidentemente alla recente ritorno di Ivan Lendl, Murray ha commentato con il sense of humour che gli appartiene: «He’s just lucky». Risate generali dello stadio e livello di disagio emozionale di Lendl che si abbassava leggermente.
A fine partita Murray ha regolato i suoi obblighi istituzionali con una disinvoltura e un savoir fare da padrone di casa.
Ha chiacchierato con i reali William e Kate, chiedendogli quanto i loro figli li facessero dormire la notte. Poi ha concesso qualche parola di conforto anche per il dimissionario Premier Cameron: «È difficile giocare una finale di Wimbledon, ma il lavoro del premier è un compito ancora più difficile».
Una compostezza che stride con il Murray insicuro ed emotivamente vulnerabile, dentro e fuori dal campo, di qualche tempo fa. A fine partita Judith Murray, mamma di Andy, applaudiva convinta ma senza lasciarsi ad andare alle solite escandescenze. Era una vittoria che non poteva non verificarsi, Andy ha semplicemente fatto il suo dovere.