Western Conference
Golden State Warriors (1) vs Portland Trail Blazers (8)
di Davide Casadei
Per il terzo anno consecutivo torna in onda lo show più tristemente atteso dell’anno: gli Warriors che impallinano il loro avversario al primo turno di playoff. La prima stagione vide un Anthony Davis in rampa di lancio lottare come una bestia ingabbiata nell’aurea mediocritas per poi soccombere alla catapulta infernale degli Splash Brothers. La seconda, in cui vennero introdotti i morti viventi (ehi Dwight!) fu una palla al piede con un colpo di scena nel mezzo: la caduta e la faticosa risalita dell’eroe Curry. Questo episodio non preannuncia stravolgimenti di fronte, ma ci può regalare qualcosa che agli altri è mancato: un antieroe degno di questo nome.
Damian Lillard è nato ad Oakland, gioca a pallacanestro con la mentalità di Oakland, nella sua musica mette il sound di Oakland. La città della Bay Area è uno di quei posti in cui la gente ci tiene un sacco a farti capire cos’ha dovuto passare per arrivare dov’è ora, tipo Compton o Roma Nord. La cosa che manca invece a questa serie, ahimé, è la difesa. Dei Blazers nello specifico. Portland ha il Defensive Rating più basso delle squadre ai playoff (Cavs esclusi...) e le partite di regular season ci danno pessimi segnali in questo senso: 3-0 Warriors con tre blowout da 125+ punti giocando gli ultimi quarti col fondo delle panchine.
Terry Stotts è un allenatore preparato, con un arsenale di trick plays quasi inarrivabile persino per gli standard NBA. Sa arrangiare squadre competenti e difese passabili anche senza un materiale umano di eccellenza: tagliare fuori a rimbalzo, niente scommesse improbabili, cambi fluidi e che ce la mandino buona. Su Curry ovviamente non puoi mai passare sotto e il backcourt titolare dei Blazers non ha la velocità di piedi per stare con Steph. Il bi-MVP uscente ha massacrato ripetutamente la difesa avversaria con una pazzesca varietà di floater e persino Pachulia, che solitamente è un bloccatore d’èlite senza pretese di ricezione dopo il roll a canestro, ha fatto molti danni a centro area. Plumlee e Leonard sono perennemente in quella posizione di show debole su cui squali del pick and roll come il 30 e Draymond Green si avventano per uccidere.
L’unica e flebile speranza, e un inedito nella serie stagionale è la Bosnian Beast, Jusuk Nurkic. Entrato di soppiatto nelle rotazioni con la nomea di difensore pigro dal carattere intrattabile, in un mesetto di attività Jusuf si è preso l’area e l’arena di una città che lo ha letteralmente adottato. Le frecciatine in post-partita al management dei Nuggets sono già leggenda, mentre secondo NBA.com con il bosniaco in campo la difesa di Portland concede in media 9.5 punti in meno per 100 possessi. In attacco, su scala minore, ha avuto l’effetto che la sua nemesi serba Nikola Jokic sfodera partita dopo partita per gli ormai suoi Nuggets. È un passatore di ottimi istinti, in particolare dal post, e i Blazers tirano il 7% meglio da 3 da quando la cometa Nurkic ha impattato l’Oregon. Non è difficile immaginare il perché: i suoi blocchi sono solidi e danno più spazio all’artiglieria perimetrale, aprendo poi una voragine a centro area in cui si tuffa con sorprendente mobilità e dolcezza di mani. Il centro è stato a riposo precauzionale per un infortunio alla gamba, tagliando ulteriormente le possibilità già risicate di un upset. Può stare con Durant, Thompson o Curry in penetrazione? Assolutamente no. Ma è una presenza al ferro che in recupero può intimorire, fattore X di una serie che sembra comunque indirizzata verso i californiani.
L’altro punto di domanda sono le condizioni di Durant. È tornato da qualche partita e non è parso affatto arrugginito. KD, come tutte le superstar NBA è limitabile ma non arginabile e Portland può schierare una batteria di esterni che va da Aminu a Crabbe sulle sue tracce. Tentativo generoso ma che non può bastare, un vero grattacapo anche per squadre più attrezzate come probabilmente scopriremo nel corso dei playoff. Se Lillard e McCollum riescono a trascinare il Moda Center in un’esplosione di triple, i Blazers potrebbero afferrare una partita. Purtroppo per loro, però, in uno scontro di puro firepower nessuno nella storia può vantare l’arsenale degli Warriors. Stotts e i suoi si trovano nella scomoda posizione di dover battere una squadra che gioca il loro basket perimetrale ma in maniera estremamente più fluida ed armoniosa, nonché con un potenziale Defensive Player of the Year in meno.
L.A. Clippers (4) vs Utah Jazz (5)
di Francesco Andrianopoli
La sfida tra quarta e quinta forza ad Ovest è tradizionalmente la più attesa ed equilibrata dell’intero primo turno, e quest’anno non fa eccezione: si sfidano due squadre estremamente talentuose, con due/tre All-Star reali o putativi a testa, ben allenate, convinte dei propri mezzi; due formazioni a cui è mancata continuità per il medesimo motivo (gli infortuni), e il cui confronto potrebbe quindi essere sparigliato dalle condizioni fisiche dei rispettivi acciaccati e convalescenti.
I Clippers hanno stupito tutti con una partenza folgorante (14-2 nel primo mese di stagione), in cui trituravano gli avversari infliggendo distacchi abissali: poi sono iniziati i problemi, e a conti fatti hanno dovuto rinunciare per circa un quarto della stagione a Chris Paul e a Blake Griffin; a marzo sembravano sulla via del pieno recupero fisico, ma hanno perso Austin Rivers, che con il suo apporto di difesa e dinamismo è assolutamente cruciale per una panchina corta, avanti con gli anni e lenta di piedi.
I Jazz, da parte loro, hanno completato un percorso di crescita che li ha portati a mettere a segno quattro stagioni consecutive con almeno 20, poi 30, poi 40 e infine 50 vittorie: una circostanza curiosa, che si è ripetuta soltanto cinque volte nella storia della lega, e che rappresenta il miglior riconoscimento della loro oculata pianificazione e gestione delle risorse di uno small-market; il tutto pur dovendo rinunciare per lunghi periodi a Favors, Hill, Hood, Exum e Hayward, per un totale di oltre 130 partite perse; nessun altro backcourt titolare della lega ha giocato meno minuti insieme della coppia Hill-Hood, e i Jazz hanno potuto schierare il quintetto titolare soltanto in 13 occasioni (record 11-2).
A una prima impressione, i favori del pronostico sembrano doversi dirigere verso lo Utah: i Jazz sono più giovani, più atletici, più profondi; vantano una delle migliori difese della lega, il più temibile spauracchio difensivo del lotto, uno dei pochi pari-ruolo con una chance di contenere Chris Paul, e un potenziale All-NBA nascosto in piena vista.
Altri elementi, invece, inducono a preferire i Clippers:
- l’esperienza e il fattore campo, elementi immateriali e talvolta sopravvalutati, ma che in una serie così equilibrata potrebbero spostare l’ago della bilancia.
- il 3-1 Clippers negli scontri stagionali, con affermazioni sempre abbastanza nette, confermando un trend che vede i Jazz soccombere 1-9 negli ultimi 10 confronti contro di loro.
- la rotazione e l’incidenza delle panchine: per i Clippers, strangolati dal salary cap, l’efficacia delle riserve è un tasto dolentissimo, e ha rappresentato un grave handicap nel corso dell’intera Era Lob City; i Jazz, invece, hanno trovato nelle seconde linee quantità e qualità, e il rendimento sorprendente dei vari Ingles, Lyles, Joe Johnson, Diaw ed Exum ha risolto più di una partita; ai playoff però le rotazioni si accorciano drasticamente, e avere un roster profondo diventa quasi irrilevante, facendo impennare le azioni dei Clippers e il loro roster “top-heavy”.
Se la difesa dei Jazz è in grado di tenerli in partita contro chiunque, dall’altra parte del campo Quin Snyder ha disegnato un attacco elaborato e articolato, impreziosito da minuziosi dettagli e variazioni sul tema dei blocchi lontani dalla palla che non si ritrovano in molti altri playbook: un meccanismo splendido da vedere quando funziona a pieni giri, ma che richiede tempo (i Jazz, non casualmente, sono la squadra che gioca al ritmo più basso della lega), pazienza e precisione di esecuzione, tutti fattori che in una concitata serie di playoff possono venire facilmente a mancare, soprattutto dovendo contare su giocatori che di partite di questo tipo ne hanno giocate complessivamente ben poche.
Doc Rivers peraltro è un maestro nell’inserire granelli di sabbia nei meccanismi offensivi altrui, e se dovesse riuscirci anche questa volta i Jazz faranno molta fatica a segnare, visto che affidarsi alle interpretazioni individuali non è proprio la specialità della casa. Se da un lato del campo Paul e i lunghi dei Clippers avranno i loro problemi contro Hill, Gobert e il resto dei meccanismi difensivi dei mormoni, dall’altro sarà decisivo il rendimento di Hayward e il suo duello con Mbah a Moute, terrificante e sottovalutato gargoyle difensivo che in stagione regolare lo ha fatto soffrire terribilmente.
San Antonio (2) vs Memphis Grizzlies (7)
di Daniele V. Morrone
Da quando i Grizzlies hanno assunto la versione “Grit and Grind” a inizio decennio, provando quindi a creare un gruppo che gioca un basket vecchio stampo improntato sulla difesa, le sfide con gli Spurs non sono andate sempre in modo prevedibile. Il nucleo storico composto da Conley, Allen, Randolph e Gasol c’era già nell’upset del 2011 - quando gli Spurs arrivati primi ad ovest vennero eliminati dai Grizzlies ottavi - e la finale di conference del 2013 aveva visto ben due partite arrivare all’overtime, nonostante il cappotto a favore dei nero-argento. Lo scorso anno una versione massacrata dagli infortuni dei Grizzlies è stata spazzata via senza problemi e quest’anno non dovrebbe essere tanto differente.
Gli Spurs sono una squadra superiore in tutto, in grado teoricamente di adeguarsi alle carte in mano a David Fizdale per tutta la serie: i Grizzlies non possono contare sull’idea di rallentare il gioco come base di partenza; l’opzione dell’allargare il campo con 4 tiratori (penso a Conley, Carter, Ennis e Gasol insieme) non può spaventare la migliore squadra della lega a difendere le triple dall’angolo; e se l’eventuale utilizzo dei due lunghi potrebbe essere inizialmente l’opzione più logica, la stagione difensiva di Dedmon può tranquillizzare Popovich a riguardo (quand’è in campo il rating difensivo è di 99 su 100 possessi, il migliore della squadra).
Il problema principale per i Grizzlies è che hanno avuto il picco di forma ormai mesi fa, con un ottimo inizio di stagione che aveva portato al record di 22-14 e delle statistiche fantascientifiche nei finali punto a punto (in cui praticamente non perdevano mai). Fizdale era riuscito a coniugare l’anima “Grit and Grind” con dei concetti più offensivi per poter tirare fuori il meglio da chi come Gasol e Conley aveva incredibilmente ancora margini di miglioramento.
La vittoria all’Oracle Arena in rimonta è stato il manifesto dei Grizzlies di inizio stagione. Conley ha dato il meglio di sé nelle scelte con la palla.
Dall’All-Star game in poi però la stagione dei Grizzlies si è ridimensionata (per dire: Marc Gasol è passato dal tirare col 46% fino all’All-Star Game a 43% nel post), arrivando a chiuderla con il fiatone per conservare il settimo posto e con indici statistici che non inducono più all’ottimismo: hanno chiuso come il 19esimo attacco con un rating offensivo di 107.6 e la settima difesa con un rating difensivo di 107. Gli Spurs, invece, sono l’ottavo attacco e la prima difesa. I Grizzlies poi sono nella media in praticamente ogni altro indice statistico, tranne forse che nel rubare il pallone dove sono terzi (8.6 per 100 possessi). L’infortunio di Tony Allen (il giocatore con più rubate di squadra con 3.1 per 100 possessi), che molto probabilmente salterà tutta la serie, però rende abbastanza inutile sottolineare questa cosa, oltre a lasciare veramente la strada spianata a Kawhi Leonard in attacco. Non prenderei poi neanche ad esempio gli scontri diretti della stagione regolare visto la gestione a cui è solito sottoporre gli Spurs il suo capo allenatore: per dire delle due partite vinte dai Grizzlies in casa c’è quella del 6 febbraio dove Popovich ha lasciato riposare Kawhi Leonard per l’occasione.
Nell’ultimo scontro della stagione regolare i Grizzlies sono stati battuti solo all’overtime, ma per tutta la partita Kawhi ha fatto quello che ha voluto.
I Grizzlies non sembrano neanche l’avversario adatto per testare i dubbi sul roster versione-playoff degli Spurs (dove nascondere Parker? A chi dare minuti tra Simmons e Anderson? Che tenuta difensiva ha Gasol? E quella offensiva di Dedmon? Etc) semplicemente perché la squadra di Popovich può già difendere i punti di forza degli avversari senza snaturarsi: ad esempio sul pick and roll tra Conely e Gasol può essere utilizzato tranquillamente Kawhi a rovinare tutto. Questo ovviamente non significa che sarà facile vincere i duelli individuali per gli Spurs o che gli avversari debbano essere spaventati dallo scontro sfavorevole. Niente nella storia di questo gruppo fa pensare che mollino un solo centimetro di campo prima di combattere con le unghie. Semplicemente però hanno pescato una squadra troppo esperta da poter superare col basket “Grit and Grind”, dato che quello a molti dei componenti degli Spurs non manca di certo.
Il primo in questo caso è Patty Mills.
L’idea che mi sono fatto è quella di una serie che può arrivare, forse, al massimo alla sesta gara, e soprattutto che non è il test giusto per capire le reali ambizioni degli Spurs come contender: la squadra di Popovich è indubbiamente una corazzata da stagione regolare, ma per capire se può arrivare fino in fondo bisognerà aspettare quantomeno il secondo turno di playoff contro la vincente tra Rockets e Thunder.
Houston Rockets (3) vs Oklahoma City Thunder (6)
di Fabrizio Gilardi
James Harden contro Russell Westbrook, chi se no? Non che ci sia bisogno di dar loro motivazioni extra, ma pensate a cosa sarebbe stato giocare questa serie nel Sottosopra in cui la cerimonia di consegna dell’MVP fosse avvenuta ora e non a fine giugno, facendo in modo che la furia sportiva dello sconfitto (il che potrebbe benissimo valere per entrambi) si abbattesse sul campo. Sarebbe stato assolutamente incredibile.
Già con il contesto attuale la sfida è decisamente da seguire, per la possibilità che ne escano prestazioni leggendarie all’altezza di quelle della regular season, per la narrativa degli ex compagni di squadra che battagliano ad altissimo livello, per l’equilibrio visto nelle tre partite dello scorso inverno (+1 OKC, +3 Houston, +2 Houston, prima dell’ultimo +12 Rockets) e per l’estrema differenza di stili.
Per quanto riguarda la fase offensiva, il roster dei Rockets è stato assemblato in modo scientifico, cercando tra i giocatori disponibili sul mercato quelli più adatti ad un sistema in cui la palla fosse sempre di Harden e il campo fosse aperto a dismisura, con tiratori appostati ben oltre l’arco per costringere le difese avversarie a scegliere la pozione letale: consegnare il proprio destino ai tiri da 3 (primi per distacco per tentativi a partita, nella media per percentuali) o l’attacco al ferro (top 5 per frequenza, top 3 per efficacia). Quello dei Thunder, invece, è un esperimento hollywoodiano di sopravvivenza post-nucleare, in cui materiali o componenti inizialmente pensati per uno scopo marginale risultano di colpo imprescindibili, e nonostante i pochissimi mezzi a disposizione (penultimi per percentuali al ferro e da 3) si riesce in qualche modo ad arrivare alla fine del film (offensive rating nella media) grazie agli atti di eroismo del protagonista e al sacrificio fisico dei compagni di avventura (primi a rimbalzo offensivo e in generale).
Un ruolo fondamentale nell’economia delle serie sarà occupato dai giocatori incaricati di arginare i due Fenomeni: tra Westbrook e Patrick Beverley c’è un conto aperto ormai da tre anni ed ogni incontro offre nuovi spunti, mentre le sfide stagionali tra Andre Roberson e Harden sono state meno drammatiche, ma ugualmente interessanti. A contatto diretto per 32 minuti su 4 partite, come nessun’altra coppia attaccante-difensore, con battaglie a favore di Roberson (Harden ha tirato solo 10/33 e 2/14 dall’arco), ma 3 vittorie finali per i Rockets, con 35/78 da 3 e 123.5 di Offensive Rating nelle due partite al Toyota Center ed exploit individuali di Gordon, Williams, Ariza e Nené, cioè in pratica tutti gli altri attaccanti della squadra.
Da seguire anche il duello tra i “sesti uomini”, che rispecchiano fedelmente le rispettive caratteristiche di squadra e sono accomunati da un forte senso di responsabilità civile che li porta all’obiezione di coscienza difensiva: da un lato Enes Kanter, rimbalzista eccezionale, dall’altro Eric Gordon e Lou Williams, esterni con range di tiro illimitato e dal grilletto facile (miglior dichiarazione della stagione: Mike D’Antoni, che riferendosi a Williams ha detto «gli ho ricordato di tirare solo quando ha il pallone»).
Houston è la favorita: è più forte, più attrezzata e più versatile, oltre a poter godere del vantaggio del fattore campo; può trovare prestazioni offensive di alto livello anche nelle serate “no” di Harden e se dovesse riuscire a tenere ritmi alti in spazi ampi, costringendo in sostanza fuori dal campo i lunghi di OKC, potrebbe avere vita abbastanza semplice. I Thunder hanno assoluto bisogno che Westbrook abbia un’ulteriore altra marcia, ma possono contare su un predominio abbastanza evidente nella lotta a rimbalzo; nel caso la serie virasse su un tipo di gioco più lento e ci fosse da rovistare nella spazzatura per sopravvivere, potrebbero avere più di una chance.
Eastern Conference
Boston Celtics (1) vs Chicago Bulls (8)
di Nicolò Ciuppani
Boston e Chicago si affrontano, dopo essersi divisi equamente le quattro gare precedenti in regular season, in un tipico primo turno da Eastern Conference, dove più che il segnapunti occorrerà tenere d’occhio il conto dei falli e delle intangibles. I Celtics sono riusciti ad assicurarsi il fattore campo in tutte le serie che giocheranno ad Est grazie a un attacco organico e democratico, una difesa rivitalizzata, un allenatore geniale e una stagione pazzesca di Isaiah Thomas, che è ormai consacrato nell’olimpo dei giocatori-franchigia. Tuttavia i Celtics non sono privi di alcuni difetti strutturali, e il miglior record ad Est non deve trarre in inganno: Boston è 27esima a rimbalzo e ultima per percentuale di rimbalzi presi, e non appena esce Isaiah il loro attacco precipita a 98 punti per 100 possessi.
Nessuno dei verdi si preoccupa di fare un tagliafuori - tranne Brown che però spinge l’avversario proprio vicino al canestro - e la mancanza di lunghe leve nell’organico porta a concedere occasioni del genere perfino ai Brooklyn Nets
La verità è che Boston è riuscita ad issarsi fino al primo posto perché è stata fenomenale contro le piccole squadre, riuscendo a nascondere un record di 5-10 contro le migliori dell’Est. La stagione dei Bulls è stata invece un lento patire di una squadra che aveva a tutti gli effetti deciso di rinunciare a competere sul serio, specie dopo che Taj Gibson e Doug McDermott erano stati spediti ad Oklahoma City. Invece un sorprendente finale in negativo degli Heat - e un meno sorprendente ringiovanimento di Chicago con l’infortunio di Dwayne Wade - hanno portato i Bulls ad un ultimo tango ai playoff.
La colpa più grande della stagione dei Bulls è quella di averci fatto dimenticare che Butler ha giocato partite del genere
Boston deve elevare il suo gioco e trovare delle certezze: l’upset subìto dagli Hawks l’anno scorso è un campanello d’allarme troppo grande per essere ignorato, specie se accoppiato con il record contro le big. Atlanta era riuscita a mettere la museruola ad Isaiah costringendolo ad un 24/72 dal campo e un 6/28 dall’arco nelle quattro sconfitte dell’anno scorso, e il primo aggiustamento che Chicago proverà a fare sarà proprio su chi marcherà IT durante tutta la partita. Le buone notizie per i Celtics sono che Avery Bradley è in salute (a differenza dell’anno scorso) e dovrà essere lui insieme a Jae Crowder a limitare Jimmy Butler (ovvero il giocatore più forte nella serie e il vero e proprio incrocio di mercato tra le due squadre), e che Al Horford quest’anno gioca in casacca verde. L’ex Hawks è chiamato a portare le sue doti di veterano dei playoff al servizio di Boston, specie se Thomas riposa o è isolato dal gioco.
D’altro canto i Bulls dovranno cercare di giocare abbassando il numero dei possessi, limitando così il loro attacco bulimico e sfruttando il vantaggio fisico sotto i tabelloni. Se Boston è nelle ultime tre, Chicago è la prima della lista per i rimbalzi presi, e il loro gioco di mismatch continui dovrebbe riuscire a colmare il gap offensivo tra le due squadre. Negli scorsi playoff Wade si era esibito in un vero e proprio canto del cigno, realizzando un 12/23 dall’arco (52%) dopo aver realizzato solo sette triple in tutto il resto della stagione. Quest’anno Wade deve cercare di non risultare dannoso come è stato prima dell’infortunio, possibilmente sporcandosi le mani in difesa e facendo a sportellate con Marcus Smart e Jaylen Brown, facendo pesare l’esperienza sui due giovani.
Boston ha tutte le carte in regola per vincere la serie, tra cui un roster più profondo, l’allenatore migliore, il fattore campo e in generale una quantità di talento superiore. Tuttavia non si diventa una corazzata da playoff da un giorno all’altro; prima di strappare la Gara-7 del primo turno dell’anno passato, i Toronto Raptors erano una squadra con le stesse problematiche di questi Celtics e la vittoria della loro prima serie è sembrata un traguardo tutt’altro che scontato. Se i Bulls dovessero trovare un fermo difensivo a Thomas, Butler fornisse un paio di partite da All-NBA e Wade facesse un salto dai negromanti, la serie potrebbe pure diventare meno scontata di quanto possa sembrare un normale incontro tra la prima testa di serie e l’ottava.
Washington Wizards (4) vs Atlanta Hawks (5)
di Marco Vettoretti
Partiamo dall’inevitabile conclusione: la serie tra Washington Wizards e Atlanta Hawks è, per distacco, la meno affascinante del programma del primo turno. Nessuno scontro diretto tra candidati al premio di Most Valuable Player; nessun unicorno sul parquet del quale studiare le evoluzioni quando si fa sul serio; nessuna reale ragione per sfregarsi le mani e mettere i popcorn in microonde.
Eppure i motivi di interesse non mancherebbero: John Wall e Bradley Beal, innanzitutto, costituiscono uno dei backcourt più elettrizzanti della Lega ed è lecito aspettarsi che i 46.1 punti combinati a partita in stagione vengano ritoccati al rialzo. Il duello tra la prima scelta assoluta del Draft 2010 e Dennis Schröder, poi, metterà di fronte due tra i primi quattro giocatori della Lega per attacchi al ferro a partita.
Grattacapi in vista per la batteria di esterni di Atlanta
Il tedesco, alla quarta stagione in maglia Hawks e la prima da titolare, non è però circondato dall’attacco armonioso ed equilibrato che aveva portato Atlanta a vincere 60 partite due stagioni fa. Per l’intera stagione, gli Hawks di Schröder e Dwight Howard hanno sofferto terribilmente nella metà campo offensiva (102.3 di offensive rating, 27esimi nella NBA, i peggiori nel post-ASG), costruendo buona parte delle cose positive sulle fondamenta di una buona difesa, peccando sempre in continuità.
Atlanta, infatti, ha trascorso l’intera regular season a bordo di un ottovolante di prospettive e risultati, vincendo 9 delle prime 11 gare stagionali e perdendone 10 delle successive 11, per esempio. O arrivando a sondare il mercato per il loro giocatore-franchigia, dopo aver ceduto un tassello dell’importanza di Kyle Korver in cambio, sostanzialmente, di un sacchetto di aria fritta. Ciò nonostante, gli Hawks arrivano alla post-season ringalluzziti dagli scalpi prestigiosi conquistati nel finale di stagione, quando hanno battuto i Celtics e due volte i Cavaliers nell’arco di quattro giorni, conquistando con uno scatto finale la decima partecipazione consecutiva ai playoff (record nella Eastern Conference).
L’ago della bilancia della serie, in ogni caso, pende deciso dalla parte dei Maghi. Anche e non solo perché in possesso di quel fattore campo che dal 9 Dicembre al 5 Febbraio, per diciassette volte consecutive, gli Wizards hanno sempre difeso con successo (arrendendosi, alla diciottesima partita, solo per colpa di un canestro irreale di LeBron James), raddrizzando per tempo una stagione nata male e chiusa con il primo titolo divisionale dopo 38 anni.
Il favore dei pronostici, però, Washington lo deve soprattutto ai già citati John Wall e Bradley Beal, quest’ultimo finalmente integro e sano nel primo anno del contratto multi-milionario che non tutti si sarebbero fidati ad allungargli. I due, sulla carta, costituiscono la kryptonite ideale per la difesa di Atlanta, il cui anello debole risiede nella scarsa capacità degli esterni di contenere i pari-ruolo avversari. Lacuna dalla quale si innesca un effetto domino che porta gli Hawks ad essere 29esimi per triple tentate dagli avversari a partita, 16esimi per la percentuale concessa. Starà a Beal, ma anche ai vari Otto Porter Jr. e Markieff Morris saperne approfittare.
Cleveland Cavaliers (2) vs Indiana Pacers (7)
di Dario Vismara
Arrivati a questo punto del loro triennio insieme, la vostra opinione sui Cleveland Cavaliers si può esclusivamente ridurre a una questione di fiducia: quanto vi fidate della loro capacità di “premere l’interruttore” e tornare a essere la squadra del titolo dello scorso anno? Quanto vi fidate della loro difesa, la 21^ della stagione NBA e una delle peggiori di questi playoff? Quanto vi fidate della loro capacità di giocare 48 minuti filati con concentrazione e impegno ora che finalmente sono arrivati i playoff? Soprattutto, quanto vi fidate di LeBron James?
La storia ci insegna che il Re ha un record in carriera di 40 vittorie e 7 sconfitte al primo turno dei playoff, non perde una gara a questo punto della post-season dal 2012 (quindi prima ancora di diventare campione NBA per la prima volta), e che per cinque volte ha chiuso la regular season con il secondo miglior record di conference e tutte e cinque è arrivato in Finale NBA, cosa che si ripete ormai da sei-anni-filati. Soprattutto, LeBron non ha ancora perso quella capacità tutta sua di cambiare marcia quando davvero serve (+15.1 di Net Rating “in the clutch”, record di 23-12) e ha prodotto, al quattordicesimo anno in NBA, l’ennesima stagione calibro-MVP.
Quindi è tutto a posto e non c’è niente di cui preoccuparsi? Non proprio, perché qualcosa di sbagliato nei Cavs di questa stagione c’è: la difesa, innanzitutto, è stata a dir poco disinteressata per gran parte della regular season, basandosi sull’assunto che “tanto dall’altra parte ne possiamo fare uno in più”; il livello di atletismo e di gioventù di questo roster è molto basso, specialmente se Kyrie Irving e Tristan Thompson non sono al 100%; gli altri due titolari, J.R. Smith e Kevin Love, hanno saltato ampie porzioni di regular season per infortuni gravi; le acquisizioni durante la stagione (Kyle Korver, Deron e Derrick Williams, Andrew fuori-in-58-secondi Bogut) sono state eccellenti sulla carta e molto meno in campo, specialmente nella metà campo difensiva.
Eppure c’è qualcosa nella mentalità di questo gruppo a portarli quasi ad avere bisogno di questi problemi, una certa necessità di trovarsi con le spalle al muro per tirare fuori il meglio. Il GM David Griffin — in una mail spedita a tutti i membri della franchigia prima di gara-5, contenuta nel nuovo libro di Brian Windhorst e Dave McMenamin “The Return of the King” — scriveva “ABBIAMO VISTO ACCADERE LA STORIA DELLA NBA OGNI GIORNO. Qui non si tratta di ‘Perché non noi?’. È ‘In quale altro c***o di modo avremmo farlo?’. A noi piacciono le cose difficili. Ci piace riuscirci INFRANGENDO I RECORD” (sì, col caps-lock). Anche internamente sentono di avere bisogno del pungolo della storia da scrivere per dare il meglio.
Battere gli Indiana Pacers non si profila come un risultato storico (anzi, sarebbe catastrofica un’eliminazione), ma pensare di difendere il titolo, considerata la stagione appena passata e la forza delle avversarie, a questo punto lo è. Il primo ostacolo sulla strada verso il repeat è rappresentato da Paul George, che nelle ultime settimane di regular season ha smesso di lamentarsi dei suoi compagni ed è tornato il mammasantissima che conoscevamo sui due lati del campo. Il suo scontro del 2 aprile con James sul campo dei Cavs ci ha regalato una gara epica (41-9-9 per PG13, tripla doppia da 41-11-14 per LBJ al doppio overtime) e ha mostrato quanto possa fare male George quando riceve in movimento riuscendo a mandare in confusione la comunicazione difensiva (sempre sospetta) dei Cavs lontano dalla palla.
Ancor di più, molte persone in un riverbero di nostalgia attendono con ansia una serie intera di Lance Stephenson contro LeBron James, dopo gli “scontri” degli anni passati quando LBJ giocava a Miami. Il ritorno di Born Ready nella sua vecchia squadra ha per qualche motivo rivitalizzato un gruppo agonizzante, e c’è da scommettere su un po’ di motivazione extra per il fatto di aver effettuato un provino coi Cavs nel corso della regular season che poi non si è materializzato in nulla. Ma la vera chiave tattica della serie poggia sulle spalle di Myles Turner, che avrà l’ingrato compito di proteggere il ferro dalle scorribande di James e Irving (aspetto chiave di qualsiasi serie contro i Cavs), reggere contro di loro quando chiamato a cambiare sui blocchi nei finali di gara e, soprattutto, tirare fuori dal pitturato Tristan Thompson con le sue doti di tiro per dare spazio di manovra ai compagni.
Cleveland ci mette sempre un po’ ad adattare il proprio sistema difensivo alla presenza di lungo in grado di tirare da fuori (anche per pigrizia), ma il momento delle scuse ormai è finito: ora che avranno sempre uno o più giorni di riposo tra le partite e soprattutto non ci saranno più viaggi da una costa all’altra per almeno un mese e mezzo, i campioni in carica devono dimostrare di poter essere ancora lo schiacciasassi che lo scorso anno ha cominciato i playoff 10-0 dopo un finale di regular season balbettante esattamente come questo.
Toronto Raptors (3) vs Milwaukee Bucks (6)
di Dario Ronzulli
Da una parte la squadra che per lunghi tratti della stagione ha avuto il miglior attacco dell'intera NBA, con picchi storici di assoluto rilievo, che ha scollinato per la seconda stagione di fila quota 50 W e che punta a tornare alla finale di Conference già raggiunta lo scorso anno. Dall'altra una franchigia che non supera il primo turno playoff dal 2001 - sei serie perse nel periodo intercorso, ultima gara disputata persa di 54 contro Chicago -, guarda al futuro ma ha già un solido presente costruito attorno ad un unicum mai visto prima su un campo da basket.
Giannis Antetokounmpo è il primo giocatore di sempre a chiudere una regular season nei primi 20 per punti, assist, recuperi, rimbalzi e stoppate. No joke.
La serie tra Raptors e Bucks promette dunque di essere piena di spunti interessanti partendo da un presupposto: i quqttro confronti diretti stagionali - con tre vittorie per coach Casey e i suoi - contano meno di zero, non solo perché i playoff sono una razza diversa, ma anche perché in nessuno di queste partite le squadre si sono presentate al completo.
Toronto può contare su un roster più profondo e completo rispetto a Milwaukee, specialmente dopo l’arrivo di Ibaka e Tucker, nonché su più uomini che possono indirizzare la singola sfida e l'intera serie. Innanzitutto Lowry e DeRozan, ovviamente: insieme i due producono il 46.4% dei punti di squadra, dato che però cala al 42.8% nelle partite contro i Bucks così come calano gli assist, che passano dal 58.9% stagionale al 47.6%. Vuol dire che Milwaukee lavora in primis per non metterli in ritmo partita, escludendo il più possibile le connessioni con i compagni. Un’opera difensiva che però si è potuta vedere solo in due partite, visto che le guardie Raptors hanno saltato una gara a testa. Da prendere con le molle anche la sfida più recente vinta dai Bucks, nella quale i distinguo non mancano: Toronto non aveva Lowry (23 punti e 6.3 assist nelle altre tre partite) fuori per l’operazione al polso destro e presentava Serge Ibaka, all’esordio contro questi avversari; Milwaukee schierava per la prima volta Khris Middleton, ovvero colui che con la sua pericolosità dall’arco ha creato spazi nuovi nell’attacco di coach Kidd.
Allargando la visuale oltre i precedenti stagionali, appare chiaro che il destino della serie dipenderà soprattutto da:
- come i Bucks difenderanno sul pick and roll dei Raptors, in particolare quello di DeRozan (lo prova 11.1 volte a partita e produce 0.97 punti per possesso);
- come Toronto affronterà le transizioni in solitaria di Antetokounmpo, spesso ancora di salvezza nei momenti in cui l’attacco di Milwaukee è asfittico. “The Greek Freak” è quarto per punti segnati in contropiede dietro LeBron, Westbrook e Wall e rappresenta giocoforza la stella polare di una squadra che pare destinata a soffrire la capacità di Toronto di ridurre i rimbalzi catturati dagli avversari (e i Bucks sono già penultimi per palloni conquistati dopo un errore al tiro…);
- come i Raptors troveranno alternative costantemente affidabili in attacco alla coppia Lowry-DeRozan, come detto oggetto di particolari attenzioni della difesa avversaria: in tal senso da non sottovalutare l’impatto che possono avere dalla panchina Patterson e Tucker.
Toronto è, insieme a Golden State e San Antonio, l’unica squadra che si posiziona tra le prime otto per rating offensivo e difensivo, nonché la migliore ad Est per Net Rating (+4.9, quarta in assoluto). È dunque tra le migliori squadre della Lega e appare più completa, più profonda, più pronta di Milwaukee per giocarsi questa serie. Anche per il fatto che le loro direttrici temporali non sono coincidenti: i Raptors lavorano e sono focalizzati sull’oggi, i Bucks sul domani, complice anche l’assenza di Jabari Parker. Ma la serie merita comunque di essere vista per capire entrambe a che punto siano del rispettivo percorso.