Il sottile filo psicologico della serie
di Dario Costa
Dopo sette mesi di stagione in cui, al netto di qualche estemporanea nota a margine, il copione non ha riservato colpi di scena, i Golden State Warriors e i Cleveland Cavaliers arrivano alla tanto annunciata resa dei conti con stati d’animo sensibilmente diversi. Al di là dell’ovvio minimo comune denominatore — la ferrea volontà di mettere le mani sul Larry O’Brien Trophy —, il patrimonio emotivo con cui le due contendenti si presentano al terzo confronto consecutivo potrebbe giocare un ruolo importante nel determinarne l’esito.
Golden State: un treno lanciato a velocità folle verso il futuro
Il peso di quanto successo nelle sette gare delle Finals 2016 e le decisioni maturate durante l’estate sembrano pesare soprattutto su Golden State: l’ingaggio di Kevin Durant e la successiva messa a punto di una versione 4.0 della gioiosa macchina da canestri capace di riscrivere i libri del gioco hanno da subito presentato un unico, inevitabile sbocco — il titolo NBA.
Dal punto di vista strettamente agonistico, una regular season dominata dando l’impressione di mantenere la velocità di crociera anche quando gli infortuni e le sorprendenti performance di San Antonio sembravano poter guastare i piani non ha costituito un banco di prova affidabile. Così come, durante i primi tre turni di playoff, le versioni menomate di Blazers, Jazz e Spurs non sono riuscite a mettere in seria difficoltà Steph Curry e compagni. Considerato che uno dei pochi difetti, forse l’unico, di una squadra quasi perfetta è risultata in passato l’eccessiva fiducia nei propri mezzi, l’assenza fin qui di test provanti potrebbe rivelarsi un problema. Più che giorni extra di riposo, agli Warriors sarebbe forse risultato più utile passare attraverso almeno una serie minimamente combattuta. D’altro canto, tuttavia, l’esperienza dell’anno scorso contro i Thunder si è rivelata di ben poca utilità quando, specialmente nel finale della serie, Cleveland ha alzato i giri del motore. Lo strapotere tecnico di Golden State, poi, è così evidente che immaginarlo scalfito è materiale da pura distopia cestistica, uno psicodramma da Black Mirror in salsa NBA. Certo, se la serie dovesse protrarsi a lungo è possibile che lo spettro di gara-7 delle scorse finali torni ad affacciarsi lungo i corridoi della Oracle Arena, ma le motivazioni che animano i singoli e la forza complessiva del gruppo appaiono in grado di scacciare qualsiasi fantasma e volare alto sulle ali dell’enorme talento a disposizione.
Possibile quindi che la maggior pressione psicologica arrivi fuori dallo spogliatoio, in particolare dalla dirigenza e dall’ambiente che circonda gli Warriors. Le recenti dichiarazioni del proprietario Joe Lacob («In finale rivoglio i Cavs perché eravamo la squadra migliore l’anno scorso e vogliamo una rivincita») non sono altro che la conferma, nemmeno tanto inaspettata, della convinzione di superiorità in cui tutta la franchigia sembra vivere, seppur con diverse declinazioni. Convinzione alimentata non solo dai risultati maturati sul parquet ma che, anzi, trova il proprio retroterra nella spavalda ostentazione della propria modernità fuori dal campo. Gli Warriors credono di rappresentare per l’NBA quello che la Silicon Valley rappresenta per la cultura d’impresa americana e mondiale: dal rapporto coi media alla gestione dei processi interni, passando per il marketing e la relazione con la comunità di riferimento (quella attuale e, ancor di più, quella futura dall’altra parte della baia), non c’è ambito in cui Golden State — dall’arrivo del duo Lacob-Gruber nelle vesti di proprietari e di Bob Myers dietro la scrivania di GM — non venga considerata all’avanguardia e ammirata come modello (e per questo sommessamente odiata) dal resto della lega.
Tuttavia, qualora a seguito delle tre migliori stagioni regolari consecutive di sempre non dovesse arrivare il titolo, la credibilità degli Warriors come avamposto verso il futuro della pallacanestro professionistica subirebbe un contraccolpo non da poco. Perché va bene il fascino tutto californiano per il rovesciamento delle regole imposte e l’ammodernamento di consuetudini ormai superate, ma alla fine ciò che conta, in una realtà iper-competitiva come la NBA, sono i banner appesi al soffitto dell’arena di casa — e non quelli di campioni della conference. La sensazione è che in palio ci sia non solo la vittoria del titolo, quanto la conferma e validazione di un’identità così forte, costruita con perizia negli ultimi tre anni. Una ricerca di legittimazione che potrebbe finire per pesare su una squadra già provata dall’incognita relativa alla guida tecnica. Mentre scriviamo, infatti, non è ancora chiaro se Steve Kerr sarà in grado di tornare in panchina nel corso delle Finals: Mike Brown, eccellente professionista di provata esperienza, gode della fiducia dei giocatori e ha finora avuto vita facile, ma qualora la serie coi Cavaliers si rivelasse più complicata delle precedenti, il possibile protrarsi dell’assenza di Kerr potrebbe diventare un ulteriore fattore di instabilità a livello emotivo ancor prima che tecnico.
Come reagirebbe lo spogliatoio a un nuovo episodio del genere?
Cleveland: i cavalieri che fecero l’impresa e il Fantasma che tormenta il Re
Dall’altra parte, sulle sponde dell’omonimo lago, Cleveland sembra vivere una vigilia emotivamente meno irrequieta. Dopo aver compiuto una delle imprese sportive più incredibili di sempre, i Cavaliers affrontano la loro terza finale di fila con animo più leggero rispetto agli avversari. Dovessero soccombere di fronte a quella che è da più parti considerata la miglior squadra di sempre, nessuno rimarrebbe poi troppo scioccato. Viceversa, se riuscissero a bissare l’exploit dello scorso anno, entrerebbero a pieno titolo nella leggenda. La classica vigilia distesa che gli sfavoriti si portano in dote, insomma.
Peccato che etichettare come sfavorita la squadra in cui milita il miglior giocatore degli ultimi 20 anni, forse di sempre, sia un espediente retorico che lascia il tempo che trova. A maggior ragione se quel giocatore, qualche settimana dopo aver mantenuto la sua promessa di portare l’Ohio in paradiso, intuendo il pericolo di un possibile rilassamento, ha messo subito in chiaro il suo personale programma per le stagioni a venire: dare la caccia al Fantasma, quello che giocava a Chicago. I conti, quindi, sono presto fatti: LeBron, che a dicembre andrà per i 33 e sta per chiudere la sua 14^ stagione in NBA, per ora può sfoggiare la metà esatta degli anelli che Michael Jordan porta alle mani. Pur considerando che, ad oggi, segnali evidenti di un calo fisico non si sono ancora manifestati, è ragionevole ipotizzare che la finestra temporale a disposizione di James non sia poi così ampia. Tradotto per i compagni: voglio vincere ancora e lo voglio fare adesso.
Se la regular season degli Warriors è trascorsa col cruise control sempre inserito, Irving e compagni hanno approfittato di una conference ancor meno competitiva per prendersi le giuste pause e arrivare pronti e in buona salute al momento giusto, scivolando solo una volta nel percorso verso l’appuntamento finale. E se gli Warriors cercano nel risultato di queste Finals la conferma della loro identità come squadra e franchigia, i Cavaliers sono passati attraverso lo stesso processo l’anno scorso. Il titolo vinto in rimonta ha cementato una consapevolezza di sé che ora appare granitica, con la certezza di avere una marcia che quantomeno le altre squadre della conference non possono pareggiare. Per Dan Gilbert e per il mondo là fuori rimane davvero poco di irrisolto: questa è la squadra di LeBron James (e si sapeva da tempo) in cui Kyrie Irving si è guadagnato sul campo i galloni di vice-capitano e Love il rispetto di compagni e coaching staff accettando di dedicarsi al lavoro sporco, per poi tornare al ruolo di terzo violino quando le circostanze lo hanno richiesto. Tristan Thompson è il barometro difensivo che misura la pressione a cui verranno sottoposti gli avversari e il resto del supporting cast è composto da veterani pronti a giocarsi le proprie carte sul palcoscenico più importante, meglio se con un tiro dalla lunga distanza tra le mani. Coach Lue, approdato sul pino tra polemiche e legittimi dubbi, ha saputo costruirsi una credibilità ormai fuori discussione. Il roster, anche quest’anno, è stato assemblato nella convinzione che, a meno di improbabili balzi in avanti delle varie Boston, Washington e Milwaukee, il destino di Cleveland sia quello di governare la Eastern Conference per le stagioni a venire.
È parere diffuso, quindi, che i ragazzi di Lue possano scendere in campo godendo di una serenità maggiore rispetto agli Warriors. L’importante, dentro e fuori dallo spogliatoio dei Cavaliers, sarà non farlo notare a quello col 23. Lui la vede diversamente e, a quanto pare, la sua opinione da quelle parti conta qualcosa.
Un videogioco con in palio la legacy
di Dario Vismara
Quando, nell’estate del 2014, LeBron James si trovava in una suite di Las Vegas insieme ai suoi amici più fidati per decidere il suo destino, la prospettiva di tornare a Cleveland veniva definita come una “legacy move”, una mossa per cambiare la percezione della propria carriera. Con il titolo dello scorso anno, il Re ha cambiato per sempre il modo in cui verrà ricordato, portando Cleveland dove non era mai stata in oltre 50 anni di storia, cancellando in un sol colpo decenni di “maledizione” in una delle serie di finale più memorabili di sempre.
Ma questo è il passato
La serie di quest’anno avrebbe tutt’altro peso sul “curriculum” di LeBron perché, molto banalmente, questi Golden State Warriors sono decisamente più forti rispetto a quelli che 12 mesi fa chiusero la miglior regular season della storia della lega. La vittoria dello scorso anno ha ridato a James il trono del “miglior giocatore del mondo”, un titolo che nel corso dell’anno non è stato più nemmeno lontanamente messo in discussione; ma ora si trova a doverlo difendere dall’assalto di quelli che con ogni probabilità sono il numero 2 e il numero 3 (decidete voi l’ordine tra Steph Curry e Kevin Durant) che lo scorso anno hanno unito le forze formando un quartetto insieme a Thompson e Green sostanzialmente senza precedenti nella storia della lega.
Per questo l’impresa che si pone davanti a James è ancor più difficile rispetto allo scorso anno: è come cercare di finire di nuovo lo stesso videogioco da capo, solo che questa volta il livello di difficoltà è salito a “Sudden Death” - e pronosticare i Cavs vincenti equivale sostanzialmente a un voto di fiducia incondizionata nei confronti del Re. James per certi versi può permettersi di affrontare questa sfida con animo più leggero rispetto allo scorso giugno, ma ogni sconfitta da qui alla fine della sua carriera si porterà dietro un carico di discorsi e sospetti (è bastata una partita storta in gara-3 contro Boston per far gridare al “Oddio-cosa-è-successo-ecco-è-finito”) che sarebbe insopportabile per il 99.9% degli esseri umani. È il prezzo da pagare se si vuole inseguire il Fantasma Che Giocava A Chicago, perché ogni piccolo passo di James — nel bene, come superarlo al primo posto della classifica all-time ai playoff, e nel male, perdendo 4 finali contro l’irraggiungibile zero di MJ — viene analizzato alla luce di ciò che aveva fatto lui.
Già da qualche anno ormai si parla apertamente del paragone tra i due e di cosa deve fare LeBron per essere considerato suo pari: sono discorsi da bar che hanno poco a che fare con ciò che succede in campo e ancor meno riescono a dare un ritratto esaustivo di cosa hanno rappresentato questi due giocatori, sminuendoli a un livello infinitamente più basso di quello che hanno raggiunto sul parquet. Ma è quello che “drives the conversations”, cioè quello che fa parlare e scrivere e dibattere e aumenta i click e gli ascolti televisivi e quindi detta l’agenda di tutto il carrozzone — e James ne è perfettamente consapevole, altrimenti quella di tornare a Cleveland non sarebbe stata una “legacy move”.
Per questo le finali che ci apprestiamo a vivere rappresentano il Mostro Finale del videogioco che è stata finora la carriera di LBJ: battere di nuovo questi Golden State Warriors, senza il fattore campo e senza i favori del pronostico (ESPN dice che al 93% vinceranno i californiani), con gli avversari che sono migliorati esponenzialmente mentre la propria squadra ha aggiunto solo due veterani ad una rotazione un anno più vecchia, per di più alla fine di una 14^ stagione giocata con minutaggi che avrebbero stroncato un 22enne, si presenta come un’impresa che forse nemmeno MJ ha dovuto affrontare. Se “i punti non si contano, ma si pesano”, lo stesso deve valere per i titoli NBA: se vogliamo prestarci al giochino “stupido”, l’eventuale quarto titolo di James avrebbe un peso qualitativo superiore rispetto a tutti gli altri — un peso tale da colmare anche la distanza che separa quattro e sei. Sempre ammesso che James si fermi eventualmente a quattro, visto che ogni anno che passa LeBron invecchia come il miglior vino — o come i migliori videogiochi di sempre. Avete notato quanto va il retro-gaming ultimamente?
I temi tattici della serie
di David Breschi
Il terzo atto della sfida tra Warriors e Cavaliers presenta le condizioni ideali per una serie memorabile: per la prima volta le due squadre si affacciano alle Finals al gran completo, senza infortuni o scorie da smaltire e riposate dopo una settimana piena di “vacanza”. I temi tattici di queste Finals sono innumerevoli, ognuno dei quali merita approfondimenti: noi ci concentreremo qui su alcuni punti fondamentali.
LeBron James, l’alfa e l’omega dei Cavs
Gli Warriors sono arrivati all’appuntamento con un percorso netto fatto di 12 vittorie e 0 sconfitte, grazie al secondo attacco degli interi playoff viaggiando con un rating offensivo di 113 punti per 100 possessi. Il miglior attacco? Quello dei Cavaliers, che ha oltrepassato per la prima volta nella storia la barriera dei 120 di Offensive Rating, segnando almeno 106 punti su 100 possessi in tutte e 13 le partite di playoff disputate.
Il motivo principale di questa esplosione di numeri è — manco a dirlo — LeBron James, che sta viaggiando alle migliori medie in carriera in post-season ed è l’alfa e l’omega dei Cavaliers. James è una macchina da mismatch e i Cavaliers sono costruiti sulla sua capacità di prendere sempre vantaggio sul marcatore diretto in ogni situazione: in questi playoff Tyronn Lue ha usato James ai due estremi del pick and roll per costringere le difese avversarie a forzare un cambio di marcatura o creare una situazione di emergenza, lasciando sovrannumeri sul lato debole a seguito dei raddoppi.
I Celtics hanno provato a non cambiare sui pick and roll che coinvolgevano James e un lungo, ma le spaziature dei Cavaliers e la presenza di Kevin Love sul lato debole hanno ampliato ancora di più gli spazi per le penetrazioni del Prescelto. Quando hanno accettato di cambiare, come nell’ultima clip, il risultato è stato ancora più tragico con un facile canestro di James contro un inerme Olynyk.
In caso di pick and roll tra James e un piccolo, il cambio difensivo è obbligatorio per non permettere a James di andare in penetrazione verso l’area.
Se a bloccare sulla palla sono Irving, ma anche Smith, Korver o Shumpert (e questo succederà spesso per mettere Curry nel mezzo ai pick and roll), si aprono tutta una serie di opzioni per il bloccante, che solitamente ha spazio per tirare o attaccare dinamicamente una difesa in situazione di recupero
Il pick and roll che coinvolge James come bloccante è un altro rebus irrisolvibile, specialmente se a duettare con lui è Kyrie Irving, il nemico pubblico numero 2 degli Warriors.
Il difensore che marca James in single coverage solitamente ha le mani piene, ma se oltre a quello deve difendere anche di squadra sui pick and roll, il compito diventa improbo. Nelle prime due sequenze della clip chi marca James accenna un contenimento su Irving e il Prescelto ne approfitta per rollare e attaccare il ferro. Nelle ultime due clip si innescano le rotazioni difensive sul lato debole, ma le letture di James sono precise e mandano a canestro i suoi compagni di squadra.
Quando LeBron James non era al centro del pick and roll come portatore di palla o bloccante, i Cavaliers lo hanno rifornito di palloni usando i blocchi ciechi per isolarlo in post basso.
I blocchi ciechi sul lato forte permettono a James di “scegliersi” il difensore contro cui attaccare in post basso, spesso un esterno più piccolo di lui coinvolto nel cambio difensivo.
Gli Warriors cambiano su tutto
I Golden State Warriors - al contrario di Pacers, Raptors e Celtics che hanno incrociato i Cavaliers fin qui - dal canto loro hanno elevato l’arte dello switch a livelli di eccellenza assoluta: cambiano su tutto, non hanno paura di eventuali mismatch e hanno taglia fisica, atletismo, fisicità e schemi difensivi complessi per far fronte a qualsiasi tipo di evenienza.
In questa clip è possibile capire l’efficacia dello switch difensivo dei Warriors. In alcune sequenze il cambio difensivo è portato all’estremo, succede anche cinque volte in un’azione ma il risultato è sempre lo stesso: l’attacco si prende un pessimo tiro perchè non riesce a creare vantaggi.
Il segreto di pulcinella di questo sistema di cambi sistematici è ovviamente Draymond Green e la sua capacità di marcare indifferentemente guardie e centri, esterni o lunghi. Lui e Kevin Durant avranno il compito di rallentare James e coprire ogni possibile falla che il Prescelto è in grado di aprire per sé e per i compagni.
Lo switch tra Durant e Green è una delle collaborazioni difensive più efficaci della storia moderna di questo sport: elimina qualunque tipo di mismatch, sia sul portatore di palla che vicino a canestro o a rimbalzo d’attacco.
Il flow degli Warriors vs la pessima difesa lontano dalla palla dei Cavaliers
I Cavaliers in questa post-season hanno iniziato a stringere le maglie in difesa: sostanzialmente sono stati buoni sulla palla, ma pessimi lontano da essa e nelle rotazioni difensive. Contro gli attacchi macchinosi di Pacers e Raptors è bastato essere un po’ più aggressivi del solito, ma contro l’attacco funzionale, disciplinato e in continuo movimento dei Celtics si sono viste alcune crepe che gli scout degli Warriors faranno sicuramente notare a Kerr e Brown.
La quantità di distrazioni difensive che hanno prodotto backdoor su backdoor è sconfortante. E gli Warriors sono la miglior squadra al mondo a giocare questa particolare situazione.
Golden State non si ferma mai, ha sempre un piano, molto spesso un buon piano per scardinare le difese avversarie con un movimento armonico di uomini e palla che produce un flusso costante di gioco. Soprattutto, ha la capacità di eliminare i punti di riferimento a cui ogni difesa al mondo è abituata: la differenza tra lato debole e lato forte. Contro gli Warriors non esiste tale separazione - ed uno come Klay Thompson in tale situazione si sguazza.
Klay Thompson e il suo ininterrotto movimento senza palla sembra casuale, ma in realtà c’è molta disciplina in quello che succede: i suoi tagli lontano dalla palla o per avvicinarsi ad essa non concedono punti di riferimento (lato debole e lato forte) al difensore, che non può staccarsi ma nemmeno reagire prontamente sui blocchi “random” che il tiratore degli Warriors sfrutta per liberarsi al tiro.
Lo stesso discorso si può attuare anche per Curry: è sempre in movimento, è sempre marcato a vista, su di lui cambiano a ogni blocco lontano o vicino dalla palla e può correre da un lato all’altro del campo anche per 20 secondi senza toccare la palla. Ma arriva sempre un momento in cui per una frazione di secondo è lasciato libero - per collassare in area a seguito di una penetrazione, per aver mancato un cambio, per un blocco “random” non previsto - e lui è pronto a punire ogni singola distrazione.
Che Curry abbia o no la palla in mano non è importante. L’importante è muoversi sempre, anche in modo apparentemente casuale, per creare continuamente vantaggi per l’attacco. Che poi in fin dei conti sono vantaggi che Curry riscuote a fine azione concretizzando un azione corale con un ottimo tiro e spesso un canestro (93° percentile nei tiri piedi-per-terra, 91° in uscita dai blocchi).
Kevin Durant non è Harrison Barnes
Nelle scorse Finals la strategia difensiva dei Cavaliers da gara-5 in poi è stata battezzare sistematicamente un Harrison Barnes in crisi mistica da 5/32 al tiro nelle ultime tre partite della serie.
Al suo posto quest’anno però c’è Kevin Durant, e le cose sono leggermente diverse: se gli Splash Brothers non producono punti o generano gioco, gli Warriors sanno di poter fare affidamento sulle capacità realizzative dell’ex Thunder, che in stagione e nei playoff ha tolto spesso le castagne dal fuoco ai suoi mentre Curry e Thompson litigavano con il canestro. Tutto ciò permette agli Warriors, in determinati momenti della partita di cambiare registro, sacrificare il flusso del gioco in favore di isolamenti ad alta efficienza.
Questo schema degli Warriors, presentato da Kerr a Natale nella sfida contro i Cavaliers per la prima volta, è una rivisitazione della classica Motion Weak. Permette di liberare Durant in post basso su un quarto di campo contro un avversario più basso, di uscire dal blocco verticale per sparare oppure di giocare un pick and pop di chiusura con Curry nelle vesti di bloccante, un espediente tattico che vedremo e rivedremo nel corso di queste Finals, sia per Durant che per Green.
Non che avere uno scorer come Durant significa rinunciare a muovere palla e giocatori sia ben chiaro:
Una situazione statica come un pick and roll centrale con tre giocatori fermi diventa dinamica non appena si innesca il gioco a due, che porta a collaborazioni più complesse basate sulla lettura delle scelte difensive e degli spazi
La Hamptons Five Lineup vs la small-ball dei Cavaliers
Con l’innesto di Durant per Barnes la Death Lineup degli Warriors, oggi ribattezzato la “Hamptons 5” visto che proprio lì si sono incontrati tutti e cinque per decidere di giocare insieme, ha subito un upgrade significativo benché sia stata usata con il contagocce in stagione regolare e nei playoff - un po’ per scelta, un po’ per i problemi fisici di Iguodala (sostituito egregiamente da Shaun Livingston nel quintetto small degli Warriors).
I Cavaliers però non sono stati a guardare e muovendosi sul mercato con gli arrivi di Kyle Korver e Deron Williams hanno creato una loro lineup della morte, in cui LeBron James è attorniato da giocatori della second unit in una sorta di “position-less” portata all’estremo, senza lunghi, con 5 esterni e 5 trattatori di palla/tiratori credibili.
Stop difensivo, i Cavaliers volano in contropiede, James in questo momento funge da centro tattico, arriva a rimorchio e taglia provocando uno scompenso nella difesa Celtics che si accoppia male con Horford su Williams. La penetrazione dell’ex Jazz amplia il vantaggio acquisito chiuso dal taglio backdoor di James con un comodo sottomano.
Questo quintetto dei Cavaliers può essere declinato con la presenza di Love al posto di Jefferson o Irving al posto di Williams per conferire ancora più potenziale offensivo a Lue nella battaglia tra quintetti piccoli, ma sarà difficile che la second unit dei Cavs incroci la Hampton 5 Lineup degli Warriors. Sfalsare quanto più possibile i minutaggi di questi due quintetti small può essere uno dei fattori per avere un vantaggio competitivo decisivo nell’economia della serie.
La rivincita di Steph Curry
di Daniele V Morrone
«La nostra identità si basa sul collettivo: il movimento della palla, dei giocatori, usare il talento di tutti per creare ottimi tiri. Ma quando hai situazioni dove non c’è ritmo e devi fare la giocata… è per questo che ci siamo noi». Questa frase di Steph Curry al termine di gara-1 di finali di conference contro i San Antonio Spurs, dove si è acceso con 19 punti nel terzo quarto per annullare il vantaggio avversario dopo l’infortunio di Leonard, ma può valere come monito per le Finali contro i Cavs.
Questi playoff per Curry sono stati un lungo avvicinamento verso la finale, un affilare le armi se vogliamo. Curry ha comprensibilmente sviluppato una vera ossessione per gara-7 delle scorse finali, visto com’è finita e il fatto che lui non accetti che non fosse al 100% al momento di giocarla, stanco dopo una stagione infinita e ancora in ripresa dall’infortunio subito nei playoff. I Cavs hanno giocato su questo, coinvolgendolo sempre in difesa e attaccandolo forte quando con palla: una strategia vincente che ha lasciato degli strascichi ben oltre gli sfottò per il 3-1 sprecato. Curry ha giocato una pessima gara-7 che ancora adesso lo tormenta, a partire dalla brutta palla persa con il tentativo di passaggio dietro la schiena per Klay Thompson e la tripla contestata da Kevin Love che avrebbe potuto rispondere a quella iconica di Irving.
Inutile negare quanto quella gara-7 abbia influito sulla narrativa di questa stagione di Curry. Ora non è più in lizza per essere il miglior giocatore della serie ed è in discussione quello anche di miglior giocatore della sua squadra. Ma se c’è una cosa che ha sempre fatto in questi anni è stato quello di sapere quando sacrificare il proprio status per il bene del gruppo. L’ha fatto nelle prime finali vinte, in cui ha accettato il ruolo di vittima sacrificale e di scaricare i palloni quando raddoppiato, e in questa stagione in cui ha iniziato da subito a far integrare Durant, modificando la sua routine di gioco accettando che fosse un altro a prendersi il tiro caldo quando il ritmo delle giocate non decollava (anzi, il più delle volte è stato proprio Durant a prendersi tre/quattro conclusioni consecutive).
Non è un caso però che abbia alzato il livello di gioco proprio sul finale della regular season in concomitanza con l’assenza di KD, per arrivare a giocare dei playoff in crescendo e tenendo un’efficienza irreale: sta tirando col 62% di percentuale effettiva, ben oltre il suo massimo del 57%, e solo in una partita ha tirato sotto il 40% (gara-3 contro Utah) - il tutto pur rimanendo sempre sopra il 20% di Usage. Curry è ben consapevole che si riproporrà la stessa situazione tattica dello scorso anno nei suoi confronti, e ha utilizzato questi playoff per testare la sua capacità di rimanere efficiente nonostante i nuovi spazi. Ora però dovrà nuovamente reggere un tipo di difesa molto più aggressiva, che testi in modo ancora più deciso la sua capacità di prendersi tiri a seguito di un aiuto forte, lontano quindi dal ritmo di questi playoff. Sentirlo parlare in modo così chiaro dell’importanza del saper mettere anche questi tipi di conclusioni pur volendo rimanere nello spartito del basket in movimento è un chiaro monito alla strategia dei Cavs. Vedere come risponderà alla strategia degli avversari sarà una delle cose più interessanti di queste finali e potrebbe verosimilmente decidere la narrativa del resto della sua carriera. Altre finali in linea con le precedenti potrebbero minarne la legacy: Steph Curry ha tutto da perdere in caso di sconfitta.
Kevin Durant e lo switch-anatema
di Nicolò Ciuppani
C’è un concetto, oltre a quello dello spacing, che è predominante nella filosofia di gioco dei Golden State Warriors: quello di mismatch. In parole più povere possibili: su entrambi i lati del campo cambiare le marcature individuali durante l’azione tende a favorire Golden State, e in particolar modo questa cosa è vera grazie all’arrivo di Kevin Durant. Ovviamente Steph Curry è in grado di mandare al bar un lungo che lo marca, Klay Thompson può andare in post contro avversari più piccoli, Draymond Green può spiazzare gli avversari con la sua combinazione di atletismo, letture e trattamento palla, ma nessuno riesce ad essere una spina nel fianco costante contro qualsiasi cambio come KD.
Difensivamente non esiste un cambio difensivo che KD trovi sconveniente: ovviamente marcare alla lunga un giocatore più forte fisicamente o uno più piccolo può portare dividendi agli avversari, ma per la rapidità e facilità con cui gli Warriors effettuano i cambi difensivi, questa è una strategia praticamente inutilizzabile.
Nell’azione Durant non si fa problemi a marcare 4 giocatori differenti, da Patty Mills a LaMarcus Aldridge. In nessun momento un cambio su Durant sembra un’opzione particolarmente convincente per provare ad attaccare.
Se i problemi fisici di Andre Iguodala tolgono il miglior marcatore possibile su LeBron, la combo formata da Durant e Green dovrebbe quantomeno garantire una comprovata solidità difensiva.
In attacco l’anatema di KD allo switch difensivo si fa ancora più sentire. In generale nessuno vuol portare un raddoppio su un giocatore di Golden State, perché nella migliore delle ipotesi si finisce a giocare un 3 vs 4 contro passatori e tiratori in grado di allargare la risicata trama difensiva; in soldoni quindi portare un raddoppio contro gli Warriors porta più svantaggi che benefici. La soluzione preferita dalla difesa di Cleveland quindi sarà quella di cambiare sui blocchi e accettare le conseguenze (ricordate per caso com’è finita gara-7 delle scorse Finals?): il problema però è che con Durant la tattica di cambiare difensivamente trova un ostacolo enorme che l’anno scorso non c’era.
Se KD trova un cambio lontano dalla palla contro un lungo, è troppo rapido per qualunque giocatore dei Cavs per provare a contenere un suo eventuale taglio (kudos a Green per un passaggio irreale)
Se invece il cambio sul lungo avviene nel pick and roll con Durant da portatore, il problema è ancora più accentuato data la capacità di KD di tirare in sospensione, arrivare al ferro a piacere o comunque creare separazione dal palleggio. Kevin Love, Tristan Thompson e Channing Frye non sembrano avversari difensivi più temibili di quanto potesse essere Gobert
La situazione che più di tutte può intimorire i Cavs è quella di uno switch di un piccolo su Durant, e poiché gli Warriors sono cinici e ci tengono tantissimo a far soffrire il mondo, quando avviene una situazione del genere riescono ad amplificarla nel peggiore dei modi.
Appena i Dubs si accorgono che c’è Ginobili su KD, fanno di tutto per segnalarlo (Livingston e Pachulia lo indicano con la mano) e lasciano tutto lo spazio possibile a KD e Curry. Durant riceve in posizione sfavorevole grazie ad un lavoro encomiabile di Ginobili in difesa, ma Curry ha ormai letteralmente mezzo campo libero e nessuno a proteggere il canestro.
Le uniche soluzioni percorribili per affrontare Durant sembrano quelle che nessun tifoso dei Cavaliers vorrebbe vedere: dedicare l’intera partita difensiva di LeBron su di lui, ad un costo energetico che rischia di essere sanguinoso, e costringerlo a più isolamenti offensivi possibili. Durant ha un rendimento comunque elevato quando gioca per sé e spesso Golden State si è affidata al suo sterminato arsenale offensivo per uscire dalle secche in questi playoff; tuttavia queste soluzioni sono meno efficienti dell’attacco medio di Golden State. Concludendo: non si può limitare l’innesto di Durant come un semplice upgrade rispetto ad Harrison Barnes, ma è un significativo cambiamento del polo gravitativo della serie.