UN’ASSENZA TUTT’ALTRO CHE RINCUORANTE
Álvaro Saborío è il massimo goleador in attività de La Sele costaricense; un nove vecchio stampo, forse l’unico capace di raccogliere, dalle parti di San José, l’eredità di Paulo Wanchope nella rappresentazione del fenotipo d’attaccante d’area di rigore. Compatto, efficace sotto rete, gioca con il Real Salt Lake negli States; insieme a Michael Umaña (tesserato per il Deportiva Saprissa) e Cristian Bolaños, esterno del Copenaghen, è uno dei tre reduci dall’ultima spedizione mondiale dei ticos, quella tedesca del 2006.
Álvaro Saborío è il figlio di Álvaro Grant McDonald, ex-gloria del calcio di Costa Rica e allenatore della Nazionale nella corsa a Messico ‘86, la quale ha mancato la qualificazione (passò il Canada) solo per via di tre punti persi – tra andata e ritorno – contro Honduras.
C’è stato un momento in cui Álvaro figlio ha pensato di mollare la Nazionale. Nel 2011, in Copa Oro, ha sbagliato due rigori nella stessa partita, sempre contro Honduras. Tifosi e stampa non gliel’hanno perdonata e gli hanno reso per un po’ la vita un inferno. Quando La Volpe ha lasciato la panchina dei centramericani e gli è subentrato il colombiano Jorge Luis Pinto, Saborío è diventato insostituibile nei meccanismi di gioco della Selección. Si è preso la sua piccola rivincita segnando la prima e l’ultima rete nel percorso dei ticos verso il Brasile.
Lo scorso 12 Maggio, il giorno in cui Pinto ha diramato la lista dei trenta pre-convocati, nella quale figurava, Saborío è diventato papà per la prima volta: ha chiamato il figlio Isaac. Poco più di due settimane più tardi, mentre si allenava, si è rotto il quinto metatarso: per lui si prospetta un’assenza di più di tre mesi, quindi non sarà della partita, di nessuna partita di quelle che Costa Rica, inserita nel gruppo D, il gruppo dell’Italia, disputerà in Brasile. Perozzo, il sociologo della Nazionale, ha scritto un post d’incoraggiamento molto retorico sul sito della Federazione.
Eppure la sua assenza non sembra avere l’aspetto di una notizia rincuorante, da qualsiasi angolazione la si osservi.
Saborío è esattamente quel tipo di attaccante che sotto porta sbaglia raramente, sia che colpisca di testa come nella vittoria di misura contro il Messico, sia che sfoderi un colpo come questo, che sembra quasi un accenno di passo di jodel.
SELEVISIONE
Costa Rica ha fatto il suo esordio mondiale nel ‘90. Di fatto, di quell’edizione è stata un po’ la sorpresa più simpatica. I suoi uomini militavano esclusivamente nel Deportivo Saprissa o nell’Herediano, le due squadre tradizionalmente di vertice del calcio costaricense. Era inserita nel girone con Brasile, Scozia e Svezia. Va da sé che tutti dessero i centramericani spacciati da subito, fuori al primo turno; la Guida ai Mondiali di Topolino (che era il mio punto di riferimento all’epoca) tra tutte. A vederli oggi, impegnati in uno spot molto enfatico per l’acqua Cristal, quasi si fa fatica a riconoscere quei calciatori: i loro nomi—Conejo, Médford, Flores, Cayasso, Chavarría—sono scolpiti nell’immaginario collettivo di una nazione intera, e soprattutto in quello di chi oggi il Mondiale sta per giocarselo, e allora era poco più di un ragazzino. Il gesto tecnico con cui Jara liberò al tiro Cayasso per il gol vittoria contro la Scozia, un bel colpo di tacco no look, dà il nome a un blog ricco di analisi tattiche utili per capire lo stile di gioco della Sele di Pinto, tacodejara.com; e la maglia a strisce verticali bianche e nere indossata contro la Svezia in onore della storica società Club Sport de La Libertad, il primo club calcistico fondato in Costa Rica, resta ad oggi uno dei più nobili tributi alla memoria che si siano visti su un rettangolo di gioco.
Per farvi capire fino a che punto quella parentesi d’estate italiana abbia permeato la memoria sportiva di una nazione intera, vi basti sapere che l’avventura de La Sele a Italia ’90 è diventata un film.
Il ruolo di Bora Milutinović, l’allenatore che subentrò a Marvin Rodríguez a qualificazione già ottenuta, soltanto quattro mesi prima della partenza per l’Italia, è stato affidato al cantante dei Gandhi, Luis Montalbert-Smith.
PINTO, L’ENNESIMO COLOMBIANO DECOLOMBIANIZZATO
La Colombia non sarà l’unica nazione a essere rappresentata, in questa edizione dei Mondiali, da tre allenatori: condivide il primato con l’Italia (Zaccheroni, Capello e Prandelli), la Germania (Klinsmann, Hitzfield e Loew) e l’Argentina (Pekerman, Sampaoli e Sabella). Il fatto curioso è che nessuno dei tre allenatori colombiani guiderà i cafeteros. Suárez sarà il tecnico dell’Honduras; Rueda dell’Ecuador; e infine, sulla panchina appunto della Costa Rica, sederà Pinto, che detiene anche un altro primato: è l’unico a potersi vantare di portare il nome del piatto tradizionale della nazione che rappresenta (il gallo pinto, riso e fagioli conditi da coriandolo fresco, è il must be di ogni colazione costaricense che si rispetti).
Pinto è subentrato all’argentino La Volpe nel 2011, subito dopo la débacle in Copa Oro. In trent’anni di carriera non era mai riuscito a qualificarsi a un Mondiale, e con la sua Colombia aveva fallito l’appuntamento con il Sudafrica. La Sele di La Volpe giocava con una linea difensiva a tre, la squadra schierata molto lunga in campo, coi reparti a compartimento stagno: una Nazionale leggerina e piuttosto inconcludente. Il grande merito di Pinto è stato quello di puntare su un “gioco totale” fatto di “velocità e precisione” (i virgolettati sono estratti dal suo sito): ha iniziato un processo di solidificazione della difesa e fatto di Costa Rica una squadra granitica sì, ma anche votata al contropiede, grazie alla velocità degli esterni di difesa e d’attacco. Già nella sua partita d’esordio, l’amichevole contro la Spagna fresca Campione del Mondo nell’ottobre del 2011, è sceso in campo con una linea difensiva a tre, un terzino sinistro molto offensivo (Brian Oviedo, cresciuto tantissimo quest'anno all'Everton e che proprio mentre stava cominciando a giocarsi il posto con Leighton Baines, si è infortunato), due perni sulla linea mediana attorno ai quali potessero ruotare gli esterni offensivi che s’alternavano in supporto all’unica punta centrale
Costa Rica contro la Spagna nel 2011.
Pinto è un metodico, uno che punta la sveglia tutti i giorni alle 5.30; e anche un grande scaramantico, che tiene nel portafogli i santini del Divino Niño del quartiere 20 de Julio a Bogotá e di San Jorge con lo spirito di chi conserva santini non solamente per devozione.
E poi, così come Bora Milutinović, è capace di imprimere una grossa carica motivazionale ai suoi calciatori (oltre che a prepararli tecnico/tatticamente): “Non esiste più la preparazione fisica. Ora passa tutto attraverso il perfezionamento tattico, le strategie collettive, gli scambi tra le linee”.
Il risultato più eclatante ottenuto con l’applicazione dei dettami tattici di Pinto è l’innegabile miglioramento del gioco di difesa: nelle qualificazioni Costa Rica ha perso solo due partite su dieci (una delle quali contro gli States in condizioni metereologiche assurde, in una partita che secondo molti—bastava una briciola di buon senso—non si sarebbe dovuta disputare), subendo la miseria di sette reti (gli Stati Uniti, che hanno vinto il girone, ne hanno subita soltanto una in meno).
Il promo della sfida di ritorno tra Costa Rica e Stati Uniti è abbastanza eloquente: quel qualcosa giocato su un campo del genere non può essere chiamato una “partita”. Per fortuna “In Costa Rica non abbiamo la neve. In compenso abbiamo un grande pubblico”. Finirà 3-1 per i costaricensi.
YELTSIN, LA NEXT BIG THING COSTARICENSE?
“Il calcio si evolve come le macchine, i computer; per questo anche noi dobbiamo sporcarci le mani con l’evoluzione”, scrive Pinto sul suo sito, pieno di intuizioni e appunti sulla sua visione tattica. A proposito di evoluzione, o forse sarebbe meglio dire nonostante l’evoluzione, c’è da dire che a distanza di tre anni lo schieramento di Pinto non sia poi cambiato molto. Ovviamente alcuni uomini si sono avvicendati, complice l’esplosione di colleghi più giovani.
Nelle gerarchie del centrocampo, ad esempio, l’esperto Barrentes dell’Aalesund si è visto scavalcare da Tejeda.
Yeltsin Tejeda, a ventuno anni, è la next big thing del calcio costaricense. Cresciuto a Limón, a Dio e pallone, quando ha ricevuto la convocazione dal Saprissa ha chiesto alla madre, una grande fan del leader sovietico Boris El’cin, un consiglio su come comportarsi. Lei gli ha risposto “Vai pure, figlio mio, purché continui a seguire i principi morali e religiosi che ti abbiamo insegnato”.
Per un giovane calciatore, formarsi in Costa Rica non è per niente facile. Nel 2012 l’Instituto Costaricense de Deporte e Recreación ha conferito una sessantina di borse di studio ad atleti meritevoli. Nessuno di questi era un calciatore. Tejeda, per sopravvivere—anche economicamente—nella capitale, impegnarsi nello studio e nel calcio ha vissuto per anni a casa di Diego Calvo, oggi suo compagno in Nazionale.
Da tempo ha estimatori in Europa (Joaquim Batica, l’agente FIFA francese artefice di tutti i maggiori colpi di mercato che coinvolgono calciatori di Costa Rica, gli sta facendo una corte serrata per averlo tra i suoi assistiti): lui ha preferito prepararsi al Mondiale disputando l’ultima stagione in patria, nelle file del Deportivo Saprissa, che in patria chiamano il Monstruo Morado, il mostro viola (anche se a me pare più granata).
Ha il look di Dodô, il fisico di Kaká e una certa somiglianza, per stile di gioco—grinta da vendere e lanci precisissimi di 40 metri—con Daniele De Rossi. A me, anche contro il Giappone, è piaciuto tantissimo.
I rallentamenti in prossimità dei suoi interventi, e quel suono a metà tra l’atmosfera ovattata di quando sei immerso in acqua e un disco suonato al contrario e alla metà dei giri rendono l’esperienza Tejeda in questo video un po’ inquietante.
BRYAN RUIZ, LA FORTUNA DI NON ESSERCI MAI STATO
Il calciatore tico probabilmente più famoso in Europa è il capitano Bryan Ruiz, di proprietà del Fulham ma in prestito, per la seconda metà dell’ultima stagione, al PSV di Eindhoven. Bryan, in ogni intervista, non manca di sottolineare come il successo della sua carriera sia tutto merito del suo papi. Papi in realtà è suo nonno, tassista di professione e talent scout a tempo perso (ha una squadra di quartiere chiamata Los nietos de mi abuelo, i nipoti di mio nonno). Il padre di Bryan è un cubano: ha incontrato sua madre quando aveva quindici anni, nel 2003 è scomparso nel nulla e non si è mai più fatto vivo. Bryan si è trasferito in Europa giovanissimo, appena ventenne, nel 2006: ha sostenuto un provino con l’Heracles di Almelo quando c’era Gullit nello staff tecnico, poi l’ex capitano dei tulipani è stato licenziato e a Bryan è toccato accasarsi ai belgi del Gent per non rischiare di perdere il treno del calcio-che-conta, per cercare di guadagnarsi una convocazione con la Nazionale per i Mondiali di Germania. Guimaraes, però, il tecnico dell’epoca, non se l’è sentita di inserire in rosa un giovanissimo come lui. “Quando non ho sentito il mio nome un parente mi ha detto: tranquillo, vedrai che si saranno sbagliati. Ora si correggeranno. Ma annunciavano la rosa da tutte le parti, e io non c’ero. Di colpo l’atmosfera si è trasformata in quella di un funerale. Quel giorno mi sono scese le lacrime.” In tre stagioni in Belgio ha segnato 29 reti. Poi, nel 2009, si è trasferito al Twente in Olanda: nella prima stagione ha segnato 24 reti, vinto scudetto e coppa nazionale, guadagnato l’endorsement di Thierry Henry. Si è trasformato nel calciatore più popolare di Costa Rica (il quotidiano La Nación, il principale a livello nazionale, scrive su di lui una media di 2,2 notizie al giorno), nonché nel più caro quando il Fulham s’è assicurato il suo cartellino per tredici milioni di euro.
Contro l’Everton di Oviedo, quest’anno, ha messo a segno un calcio di punizione memorabile, e non solo per l’estetica del gesto in sé, ma soprattutto perché è stata la rete numero 500 del club cottager in Premier League.
In un’intervista rilasciata al sito della FIFA, la comadreja (come è soprannominato, significa la faina, credo più per il fisico filiforme che per la furbizia maliziosa) ha pronunciato una frase che mi ha colpito per onestà e lucidità di visione. Ha detto: “Questa [in Brasile] è l’ultima occasione per molti di noi. Tutto sommato siamo stati fortunati a non andare in Sudafrica troppo giovani. Ora sappiamo quel che vogliamo”.
Ero indeciso su quale rete di Bryan Ruiz mettere, al netto delle compilation con sottofondo discutibile. Ce n’è una molto bella contro il Cardiff, su assist di John Arne Riise. Alla fine ho scelto questa contro il Messico, pesantissima nell’economia delle qualificazioni.
JOEL, IL FIGLIO DI PELELA
Il 95% dei calciatori de LaSele che disputeranno questa edizione della Coppa del Mondo si è già messa in mostra sulle platee internazionali con le Nazionali giovanili; in sé può non significare nulla, anche se credo sia un fatto che ci racconta qualcosa in più sulla maturità e sulla consapevolezza con cui i centramericani affronteranno l’impegno in terra brasiliana.
Uno di questi enfant terrible è certamente Joel Campbell.
Joel è figlio di Humberto Campbell, ex portiere poi diventato allenatore di calcio femminile, e Roxana Samuel, ex giocatrice dell’Estrella Rojas del Atlantico, soprannominata "Pelela" (che dovrebbe somigliare a qualcosa tipo un femminile di Pelé). Per sbarcare il lunario, terminata la carriera da calciatore, Humberto ha lavorato a bordo di navi mercantili: si faceva spedire dalla moglie, per posta, ritagli di giornale in cui parlassero della Primera División. Joel ha anche un fratello maggiore, Junior Humberto, che da piccolissimo prometteva di diventare un grande calciatore, e magari lo sarebbe pure diventato se undicenne un taxi non l’avesse investito, causandogli lesioni così serie da porre fine alla sua carriera.
La storia della famiglia di Joel Campbell probabilmente non spiega la crescita esponenziale del giovane attaccante, ma di sicuro lascia intendere molte motivazioni sottese al rapporto morboso che lega il padre al talento del figlio.
Campbell è esploso precocissimo nel 2011, quando si è imposto alla ribalta come stella della Selección Sub-22 inviata dalla Federazione a giocarsi la Copa America; quell’estate nel giro di tre mesi ha disputato tre competizioni internazionali (la Copa Oro della Concacaf, la stessa Copa America e il Campionato Mondiale Sub-20), attirando su di sé l’attenzione di alcuni club europei, primo tra tutti l’Arsenal. Eppure Richard Law, l’emissario dei Gunners a San José, ha dovuto faticare non poco per convincere prima di tutti suo padre Humberto, che ha quasi rischiato di far saltare l’affare non presentandosi all’appuntamento convenuto. Per fortuna di Joel il tesseramento è poi andato in porto; tuttavia, dal momento che il governo inglese non gli ha concesso il permesso di soggiorno, per Joel è iniziata una lunga serie di peregrinazioni tra Francia (prestito al Lorient, 4 reti in 27 presenze), Spagna (Betis, due reti in trentuno presenze) e in ultimo Grecia, dove ha vinto il campionato con l’Olympiacos segnando 7 reti in 12 presenze e dove si è messo in luce anche in Champions League, segnando una rete contro il Manchester United (con un bel sinistro a girare, e dopo un tunnel a Carrick).
Adesso qualcosa di completamente diverso: Joel Campbell e Celso Borges nella spensieratezza degli allenamenti ticos. “Tico”, tra l’altro, viene dalla tendenza dei costaricensi a usare come vezzeggiativo la desinenza -tico, qualcosa di più affettuoso dei classici -ito o -iño. Un’altra cosa: in Costa Rica ci si saluta dicendo: “Pura vida”.
“Dimmi contro chi vinci e ti dirò quanto sono grandi le tue vittorie”, ha dichiarato Campbell all’indomani del sorteggio che ha affiancato il nome di Costa Rica a quello di Nazionali blasonate come Italia, Inghilterra, Uruguay (a dire il vero l’hanno presa tutti molto bene, a cominciare da Pinto).
“Non scambierò la maglia né con Suárez, né con Balotelli né con Wayne Rooney. Preferisco la mia. Dopotutto sono solo professionisti. Calciatori come me.”
È già un notevole passo avanti: Bora Milutinović, dei suoi ragazzi a Italia ’90, disse che faticò non poco per evitare che andassero a chiedere l’autografo ai loro avversari. Joel Campbell gonfia il petto, mastica il chewingum col fare sprezzante dei giovani tutti impegnati in una battaglia generazionale, ma dopotutto è un ragazzino, che compra 100 pacchetti di figurine e finisce per non trovarsi mai (la Panini lo ha consolato inviandogli a casa la sua immagine personalizzata), e che cercherà di coronare il suo sogno londinese, di impressionare l’Inghilterra, tanto per cominciare da avversario. A quanto pare non vede l’ora di scendere in campo: “Ho pensato diecimila volte alla partita contro l’Uruguay. Avrò segnato già tipo ottanta gol”.
CONCLUSIONI
Il 2 Giugno scorso, a Tampa, in Florida, Costa Rica ha affrontato in amichevole il Giappone di Zaccheroni. Sono rimasto sveglio fino alle 3 del mattino per guardare il match, convinto più di godermi un’amichevole tra due squadre interessanti, che seguirò senz’altro di qui a un mese, che non di capire in che modo Pinto potesse trarne spunti sulle contromosse da adottare contro l’Italia. Qualche giorno prima, su un cartoncino di un bell’albergo del litorale laziale avevo provato a disegnare lo schieramento tattico di Pinto (non allontanandomi troppo dalla realtà).
La Costa Rica che vedremo giocarsi un posto per gli ottavi contro Uruguay, Italia e Inghilterra scenderà in campo, con tutta probabilità, con un 5-4-1 cangiante, vale a dire che non fatica a trasformarsi in un 3-4-2-1 o, in fase offensiva, in un vero e proprio 3-4-3. Keylor Navas del Levante (miglior portiere de La Liga, 160 parate in 37 partite giocate, solo 39 reti subite—poche, per una squadra che si è classificata decima—, 17 volte imbattuto, una percentuale dell'80,1% di efficacia) è il punto fermo tra i pali. La linea difensiva a tre sarà composta da Umaña, Giancarlo [sic] González e Roy Miller dei New York RedBulls. Sulla fascia sinistra, a causa dell’infortunio di Bryan Oviedo dell’Everton, ci sarà Junior Díaz del Mainz; sulla fascia opposta Gamboa del Rosenborg. I due terzini a me ricordano le vele del gioco del poker chiamato Teresina; spesso si alzano, in fase d’impostazione, sulla mediana, dove a giocare da play bassi ci sono Yeltsin Tejeda e Celso Borges dell’Aik Solna (quella vera, non quella de Lo Spogliatoio), un trequartista nativo che negli anni ha arretrato notevolmente la sua posizione in campo (e che è dotato di una discreta carica di tritolo nel piede destro).
La fase offensiva, con Saborío centravanti, prevedeva due esterni (Bolaños del Copenaghen a sinistra e Bryan Ruiz del Fulham a destra) a fare da supporto e raccordo tra il centrocampo e l’attacco, con la libertà di affondare o accentrarsi per cercare la conclusione. L’infortunio del Sabo ha di fatto costretto Pinto a spostare Joel Campbell (che tra l’altro ha anche deciso di indossare la maglia numero 9 per onorare il compagno) punta centrale (sempre meglio di Marcos Ureña, da tre stagioni al Kuban Krasnodar in Russia e ancora alla ricerca del primo goal). Il giovane attaccante non è propriamente un ariete, e contro il Giappone non si è mosso per niente come un centravanti tradizionale, scambiando spesso la posizione con Bryan Ruiz e rendendo di fatto la manovra offensiva tutt’altro che prevedibile. Per questo l’assenza di Saborío non mi sembra una buona notizia, almeno per le avversarie: i ticos, se così si può dire, ne hanno guadagnato in serendipità.