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Guida al Mondiale: Iran
14 mag 2014
L'Iran è pronto per il suo esordio nel Mondiale brasiliano: Gucci, il figlio del Grande Satana, il Messi di Isfahan e Carlos Queiroz, il suo allenatore coraggioso.
(articolo)
12 min
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A un mese dall'inizio del Mondiale in Brasile, inizia la Guida de l'Ultimo Uomo al massimo torneo calcistico. Senza una scadenza fissa, autori di volta in volta diversi analizzeranno le squadre più interessanti del campionato, con lo scopo comune di informare su giocatori, tattiche e raccontare storie rendendo così ogni partita degna di essere seguita. Iniziamo oggi con la prima squadra, l'Iran allenato da Queiroz.

DALL’INFERNO AL PARADISO

Il cammino di qualificazione al Mondiale brasiliano del Team Melli (Melli significa Nazionale in farsi) sta tutto in sei parole di Queiroz, il suo allenatore: «Tre anni di viaggio verso l’inferno». L’inferno islamico si chiama Jahannam, è il luogo al quale sono destinati, nel Corano, i peccatori: fine pena mai, o quando Allah vorrà. È un termine che si riferisce alla vallata di Hinnom, un posto a sud-est di Gerusalemme citato un po’ in tutti i testi sacri, e mai con toni elegiaci, sempre associato con il fuoco o le tenebre. Insomma, l’inferno.

Non credo che Queiroz volesse dissertare di teologia: magari si riferiva solo al percorso che ha portato l’Iran a qualificarsi per il Mondiale brasiliano che a metà strada s’era fatto complicato per via d’un pareggio in Qatar e una sconfitta in Libano; o forse alle difficoltà che ha riscontrato nel relazionarsi con la Federcalcio, lo sponsor tecnico, i calciatori stessi. In un’intervista del 28 Aprile 2013 (l’Iran era stato appena scavalcato dall’Uzbekistan che li aveva sconfitti allo stadio Azadi di Teheran) ha dichiarato: «Non c’è nessuna possibilità di qualificarsi se giochiamo solo con calciatori che militano in Iran. Abbiamo bisogno di gente che abbia esperienza europea. È il mio progetto, la mia visione, lo faccio per il bene del Team Melli. Se a qualcuno non va bene non sono affari miei, non più».

Se sto scrivendo un pezzo su cosa aspettarci ai Mondiali dall’Iran («un Paese che respira calcio: la stampa è molto insistente, e il pubblico raramente perdona una sconfitta, o che la squadra giochi male», spiega l’allenatore) è sostanzialmente per merito del carisma, della coerenza delle visioni e del coraggio delle scelte, casomai controcorrente, di Queiroz.

Per inciso, il passaggio dall’inferno al paradiso, in arabo, almeno sul piano fonetico è piuttosto semplice: l’Eden, il giardino, si chiama "Janna" e somiglia a qualcosa sotto la quale scorrono i fiumi (Sura XIII, v. 35). Un po’ come la verde Curitiba, la città lambita dal fiume Iguaçu, sede dell’esordio iraniano a Brasile 2014, contro la Nigeria, il prossimo 17 giugno.

Due (belle) tifose iraniane. Peccato che allo stadio Azadi di Tehran non possano entrare.

ANCORA DUE PAROLE SU QUEIROZ

Dell’esperienza di Queiroz (portoghese nato in Mozambico, ex Real Madrid e Portogallo ma con esperienze anche in Giappone, Usa, Emirati Arabi, Sudafrica) alla guida del Team Melli colpisce, o almeno ha colpito me, quell’afflato sanguigno con cui carica calciatori e ambiente nei momenti cruciali. A Ulsan, subito dopo aver battuto la Corea del Sud conquistando la matematica certezza della qualificazione, ha rivolto al tecnico avversario Choi Kang-Hee un gesto inequivocabile (c’è da dire che in precedenza s’erano stuzzicati a lungo). L’indomani Queiroz si è presentato a colazione con una foto dell’allenatore avversario attaccata al petto, e non è tutto: Choi è ritratto con indosso una maglia dell’Uzbekistan, che avrebbe preferito in Brasile al posto dell’Iran.

Recentemente il tecnico lusitano ci ha tenuto a ribadire che «[il Mondiale] sarà la nostra Mission Impossible non una, ma due, tre volte». «Andiamo in Brasile con una sola cosa in mente: qualificarci alla seconda fase. Lo so non è realistico. È fantasia, non è per nulla razionale.»

I rapporti con la Federcalcio e il Ministero dello Sport e della Gioventù, poi, non sono idilliaci: la mancanza di fondi ha reso necessario cancellare un camp previsto in Portogallo a settembre 2013, e a effettuarne uno in Sudafrica lo scorso aprile a ranghi molto ridotti. Come se non bastasse ha intavolato una querellecon la Uhlsport, lo sponsor tecnico, reo di aver inviato per il ritiro sudafricano, che sarebbe dovuto durare tre settimane, una sola (!) tuta d’allenamento per giocatore, nonché divise contate per le qualificazioni alla Coppa d’Asia; tanto che, sempre a sentire Queiroz, nella gara contro il Libano ha dovuto lasciare in tribuna un calciatore che aveva avuto la scelleratezza di lanciare al pubblico la sua maglia al termine del match precedente (Queiroz ha anche boicottato la cerimonia di presentazione delle maglie per il Mondiale; anche per quelle sembra previsto un centellinamento).

Ma il vero, profondo motivo per cui è così amato e odiato dai vertici calcistici nazionali risiede nel progetto di scouting al quale si è dedicato negli ultimi mesi: cercare in giro per il mondo calciatori di nazionalità iraniana, cresciuti lontani dall’Iran, e convincerli a seguirlo con una frase che—più o meno declinata—suona all’incirca così: «Non importa da quanto tempo vivi lontano. Se ami la tua patria, devi giocare per lei. Per nessun’altra».

Il Team Melli potrebbe far bene al Mondiale (con le dovute proporzioni).

GUCCI

Reza Ghoochannejhad ha un cognome problematico (può tornare utile affidarsi alla guida alle pronunce di globoesporte): per questo i tifosi l’hanno ribattezzato Gucci, o anche RPG7 (che poi è anche il nome di un bazooka). A otto anni si è trasferito in Olanda, i genitori volevano diventasse un violinista. Si è fatto tutta la trafila delle Nazionali minori oranje e undici anni di giovanili dell’Heerenveen, al termine delle quali ha esordito in Eredivisie. Ventunenne ha deciso di mollare il calcio per concentrarsi sugli studi e laurearsi in giurisprudenza e scienze politiche alla Vrije Universiteit di Deventer. Qualche settimana dopo gli è capitato di incontrare per le strade della cittadina universitaria Marc Overmars, all’epoca nello staff tecnico dei locali Go Ahead Eagles. Overmars si ricordava d’aver visto giocare Reza nella sua stessa posizione e gli ha confessato, parlando di sé in terza persona come solo i grandi fanno: «nei tuoi movimenti c’è qualcosa del giovane Overmars». Così l’ha convinto a tornare sui propri passi; a patto che gli fosse concesso poter lasciare gli allenamenti un quarto d’ora prima per andare all’università.

Studi accademici a parte (non sono riuscito a capire se si è più laureato o no) ha avuto una carriera discretamente low-profile, tra prima e seconda divisione olandese. Il giorno in cui ha esordito con il Cambuur ha segnato la «rete più veloce del calcio olandese» eguagliando il primato di Cruyff: nove secondi netti, gesto di portare la mano all’orecchio incluso. A gennaio di quest’anno è passato dallo Standard Liegi al Charlton in Premiership, dove ha segnato un solo gol in mezzo campionato.

Gucci è la più riuscita incarnazione del processo di inserimento di iraniani d’Europa all’interno del Team Melli; ha raccontato che Queiroz, dopo averlo lungamente seguito, l’ha chiamato al telefono dicendogli: «Giocare per il tuo Paese, se ami l’Iran, dovrebbe essere un onore. E io credo che potresti aiutarmi. Se ti senti di indossare la maglia, se credi di avere abbastanza orgoglio per indossarla, allora richiamami». «Non c’è bisogno che ti richiamo. Ti dico sì su due piedi», sembra gli abbia risposto.

Nelle 11 presenze con la Nazionale è andato a segno 9 volte: 7 nelle ultime 7 partite.

C’è la tenacia, l’orgoglio e la volontà di crederci fino in fondo. C’è l’astuzia elegante e l’arroganza composta di una palla sottratta all’avversario. E poi c’è un gran sinistro. Insomma, c’è tutta la storia di Gucci, in questo gol, quello decisivo contro la Corea del Sud.

IRANIANI «EUROPEI» ED EUROPEI «IRANIANI»

L’Iran che volerà in Brasile è la selezione Nazionale (di tutte quelle che hanno preso parte a un Mondiale) con in assoluto il maggior numero di calciatori che giocano fuori dai confini. Se includiamo nel conteggio Ali Karimi (oggi al Persepolis ma con un passato anche abbastanza importante nel Bayern Monaco) e il capitano Javad Nekounam, pivot-goleador che gioca in Kuwait dopo un periodo trascorso all’Osasuna in Spagna (e che ha rischiato la radiazione nel 2009 per essere sceso in campo insieme ad alcuni compagni con la fasciatura verde, il simbolo dei contestatori di Ahmadinejad), dei 28 pre-convocati di Queiroz ben 10 sono il risultato di un’evoluzione calcistica, di un magma creatosi lontano da Tehran sul quale il tecnico ha deciso di surfare.

Ashkan Dejagah si è trasferito a Berlino da Tehran quando aveva soltanto un anno; attualmente è in forza al Fulham, dopo essere cresciuto nell’Hertha ed esploso nel Wolfsburg. A sedici anni ha acquisito la cittadinanza teutonica, e risposto alle convocazioni per tutte le Nazionali minori, fino all’Under 21 (sull’avambraccio ha persino un tatuaggio che recita: «Deutschen Macisten 9»). Nel 2009 la Germania era impegnata in una gara contro Israele a Tel Aviv, Dejagah si è rifiutato di prendere parte alla spedizione adducendo «ragioni molto personali», «ragioni politiche». Dalla rivoluzione in avanti, il governo iraniano ha sempre proibito ai suoi atleti di viaggiare e di misurarsi con gli israeliani, punendo i reprobi con sanzioni dure, fino alla detenzione. «Lo sanno tutti che sono tedesco-iraniano. Ho più sangue iraniano che tedesco nelle vene, lo faccio per una forma di rispetto. E poi non ho niente contro Israele; solo non voglio avere problemi quando tornerò in Iran».

L’inserimento di Dejagah nel Team Melli è stato brillante, quasi quanto quello di Gucci. Ciò non significa che Queiroz abbia scoperto la formula della riproducibilità d’intuizioni felici.

Daniel Davari è nato in Germania da padre iraniano e madre tedesco-polacca. Delle tre nazioni per le quali avrebbe potuto difendere la porta ha scelto quella iraniana; nonostante l’endorsement di Klopp, contro la Guinea ha dimostrato di essere tutt’altro che una sicurezza.

William Atashkadeh ha vent’anni ed è nato in Svezia da genitori iraniani. Il problema è che lui non è mai stato in Iran, e che non parla neppure il farsi. Eppure Queiroz non si è fatto scrupoli a convocarlo (sebbene non sia rientrato nei preselezionati per il Mondiale), perché in primis è la coerenza di una visione, a dover essere rispettata; costi quel che costi, anche schierare sulla fascia destra di difesa, se del caso, un americano. E no, non è un’iperbole.

Ashkan Dejagah ha esordito con la maglia dell’Iran il 29 Febbraio 2012, contro il Qatar. Ha segnato due reti, la seconda con una punizione praticamente dal vertice destro dell’area di rigore. (Anche la progressione di Mehrdad Pooladi in occasione della prima rete mi sembra degna di nota.)

IL FIGLIO DEL GRANDE SATANA

Edward Beitashour ha lasciato l’Iran negli anni ’60; si è stabilito negli States, ha studiato ingegneria elettronica alla San Francisco State University e, nel frattempo, ha giocato a calcio nei Gators. Una volta laureato ha cominciato a lavorare in un’azienda californiana di progetti tecnologici innovativi, la Apple. Suo figlio Steven, nel 1998, aveva undici anni e faceva il raccattapalle per i San José Clash. Nella sfida ai Mondiali di Francia tra Iran, la patria dei suoi genitori, e Usa, quella che li aveva accolti e aveva dato i natali a lui, non tifava per nessuno in particolare, ma per una «bella partita». Sognava di affiancare Ronaldo nei verdeoro. Quando il padre gli faceva notare che Ronaldo era brasiliano, lui non capiva: credeva che di passaporti se ne potessero avere non solo due, ma tutti. Dopo essersi diplomato in Lettere al college tutte le più prestigiose università della Bay Area l’hanno respinto: né Stanford né Berkley hanno visto in lui un prospetto interessante. Steven, allora, ha scelto la San Diego State University, dove si è laureato in comunicazione giocando, nel frattempo, al soccer nei SDSU Aztecs. Nei draft della MLS del 2010 è stato la trentesima scelta. Con i SJ Earthquakes (il nuovo nome dei Clash) ha brillato particolarmente tanto da guadagnarsi un posto nell’All Star Team che ha sfidato il Chelsea nell’estate 2012, e una convocazione in Nazionale da parte di Jürgen Klinsmann per un’amichevole contro il Messico allo stadio Azteca. Sembrava il perfetto compimento dell’American Dream. Quella sera non è sceso in campo. Nel gennaio del 2013 Klinsmann l’ha nuovamente convocato per un match contro il Canada, ma una brutta ernia l’ha costretto a desistere.

Steven Beitashour dice: «Quando sono stato convocato dagli USA la gente deve aver pensato ok, è fatta, si è sistemato. Giocherà per gli USA. Ma finché non giochi una partita non è mai davvero del tutto fatta». Infatti, poi, è arrivata la chiamata di Queiroz. È un tipo molto pragmatico, Beitashour: «Ho sempre sognato di giocare una Coppa del Mondo, e quella del Brasile è la mia più grande opportunità, perché per l’edizione successiva avrò 31 anni e ci saranno giovani molto più forti di me. Sto solo cercando di ottenere il meglio per me».

Com’era, Carlos, quella storiella dell’americano che viene a giocare per l’Iran? Dài, raccontala ancora che fa ridere.

Per quanto possa esser cresciuto a contatto con le sue radici, festeggiando i rituali del Nawruz, imparando il farsi («anche se lo parlo con un forte accento bianco, ma va bene così»), Beitashour è americano. In Iran ci è stato soltanto tre volte: l’ultima aveva sette anni. «Se mi avessero detto esplicitamente (gli americani): "Vuoi giocare per la nostra Nazionale?", non credo sarebbe stata una decisione facile da prendere. L’avrei valutata come una buona opportunità». Beitashour non pensa ai risvolti politici della faccenda: «Non ha niente a che vedere con la politica, gli scambi di cultura, la riscoperta delle radici». È il più onesto, forse. «Si tratta solo di cogliere un’opportunità professionale». In Iran c’è molta curiosità (e un bel po’ d’inatteso affetto) per il figlio del Grande Satana che gioca coi Vancouver Whitecaps ed è nato in California. Per purificarlo, come si fa durante lo Chaharshanbe Suri danzando sul fuoco, gli hanno già dato un nome di battaglia: Mehrdad. Significa «che discende dal dio Mitra».

Ah, poi c'è il Messi di Isfahan. Non so, anche fisicamente a me Sardar Azmoun ricorda molto più Enzo Francescoli.

CONCLUSIONE

È abbastanza complicato capire come disegnerà la formazione Queiroz in Brasile, visto che a distanza di nove mesi dalla qualificazione (giugno 2013) l’Iran ha disputato soltanto altre tre partite (la Corea del Sud, per dire, nello stesso periodo ne ha giocate quattordici).

Tra i pali per tutte le qualificazioni ha giocato Ahmadi, ma non è da escludere che il titolare in Brasile possa essere l’oriundo Davari. In difesa la diga dell’Esteghlal composta da Khosro Heydari, Amir Sadeghi e Hashem Beikzadeh dovrà liberare un posto, probabilmente a destra, al figlio del Grande Satana Beitashour. Montazeri e Hosseini si candidano per blindare la zona centrale.

A centrocampo attorno a Nekounam vedremo probabilmente le ali Masoud Shojaei del Las Palmas e Alireza Jahanbakhsh del NEC Nijmegen, mentre box-to-box—dopo il ritiro di Mojtaba Jabbari, sempre presente durante le qualificazioni—potrebbero esserci Teymourian (o Timontian, se preferite) o Khalatbari.

In attacco sembra scontato il tandem Dejagah-Gucci, sempre che non venga lanciato nella mischia il Messi iranianoSardar Azmoun, giovanissimo del Rubin Kazan che sembra interessare Arsenal e Barcellona, magari proprio contro l’originale, in un pomeriggio assolato, nella canicola di Belo Horizonte; valla a fare tu una previsione con Queiroz, se ci riesci.

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