Introduzione: Di cosa parliamo quando parliamo di un premio
di Tim Small (@yestimsmall)
Una cosa che non ho mai capito, mai, da quando ero bambino: perché ci interessano i premi? Cosa ci dice, un premio? Cosa ci interessa, se a vincerlo, il premio, non è chi se lo merita di più? Perché ci fa arrabbiare? La lista di autori che non ha mai vinto il Nobel per la letteratura include Franz Kafka, Vladimir Nabokov, Marcel Proust, James Joyce, Jorge Luis Borges, Anton Cechov. L'hanno vinto Dario Fo, Elvyind Johnson e Harry Martinson, e pure Bertrand Russell, che nella sua fantastica carriera di filosofo e attivista ha scritto pochissima letteratura. E noi ci arrabbiamo! È un'ingiustizia! Elfriede Jelinek "non è da Nobel!" Ma a questo punto, "essere da Nobel" non diventa una categoria insensata? Se "essere da Nobel" vuol dire essere "mediocre come lo sconosciuto scrittore svedese Elvynd Johnson" e "non essere da Nobel" vuol dire "scrivere come Tolstoj", di cosa ci stupiamo se Philip Roth continua a non vincerlo?
Gli occhioni di James Joyce. Sembrano chiederci, "Dario Fo?"
Nel 1976 l'Oscar per Miglior Film, che poteva andare a Taxi Driver, o a Quinto Potere, andò a Rocky. Nel 1980 il premio andò a Kramer contro Kramer al posto di Apocalypse Now. Nel 1999 Shakespeare in Love vince al posto de La sottile linea rossa, Salvate il soldato Ryan e Elizabeth. Nello stesso anno, Roberto Benigni vince Miglior Attore Protagonista (questa è una frase vera: Roberto Benigni ha vinto l'Oscar per Miglior Attore Protagonista) al posto di, ad esempio, l'incredibile interpretazione di Edward Norton in American History X. Warren Beatty ha vinto l'Oscar come Miglior Regista, per Reds, mentre Hitchcock non l'ha mai vinto. E noi ci arrabbiamo. Vediamo Titanic al cinema e uscendo diciamo "Ma non era da Oscar!", "non se lo merita l'Oscar!"
Eppure, ogni anno, quando escono i risultati del Nobel per la letteratura, per gli Oscar, per la Palma d'Oro di Cannes o per il Pallone d'oro FIFA (ora si chiama così, si chiamava solo Pallone d'oro quando a selezionarne il vincitore era solo la rivista France Football) noi ricominciamo: secondo me dovrebbe vincere lui, secondo me dovrebbe vincere l'altro, è uno scandalo se lo vince quello lì. E ogni anno rimaniamo delusi. E l'anno dopo, ricominciamo. Anche se sappiamo che il Pallone d'oro una volta l'ha vinto Sammer e non l'ha mai vinto il portiere più forte degli ultimi 30 anni (Buffon), anche se sappiamo che l'ha vinto Jean-Pierre Papin e non l'ha mai vinto Baresi, o Maldini. Anche se quindi dovremmo pensare, OK, è un premio viziato, è una stronzata, non ha alcun rigore logico, è un premio politico, non vince mai chi se lo merita davvero. E quindi dovremmo decidere di non prestarci attenzione. E invece noi continuiamo a crederci, a discuterne, a sperare che, per una volta, lo vinca chi se lo merita davvero, secondo noi. Che ci sia un po' di giustizia al mondo! Non chiediamo molto. E quindi benvenuti alla Guida ufficiosa al Pallone d'oro, per la quale abbiamo chiesto contributi a svariati nostri collaboratori, imponendo loro una semplice regola: non parlateci di Messi contro Ronaldo, perché non ne possiamo più.
Tanto lo sappiamo tutti che lo vince Messi.
Lo vince Frank Ribéry
di Valentino Tola (@ValentinoTola1)
Vorrei tanto essere originale e dare il Pallone d’oro a uno dei miei idoli nascosti (tipo Bruno Soriano del Villarreal), ma andrò sul banale più spinto: scelgo il miglior giocatore della miglior squadra dell’ultima stagione, meritevole campione d’Europa. Oddio, miglior giocatore offensivo, specifichiamo, perché a parte rare eccezioni per il Pallone d’oro si guarda dalla trequarti in su: quindi Lahm lo escludo, e scelgo Ribéry. Non il più decisivo nella finale, ma il più continuo e incisivo in tutta la stagione trionfale del Bayern.
La verità è che Ribéry non influisce su tutto il fronte d’attacco con i movimenti tellurici di un Cristiano Ronaldo (alla miglior stagione della sua carriera madridista: mi sento un po’ carogna a non dargli il Pallone d’oro, ma la batosta subita dalle grandi spagnole contro le tedesche in semifinale di Champions inevitabilmente pesa); né ha la capacità di condizionare da solo un’intera difesa avversaria come il miglior Messi.
Ribéry senza strafare.
Ribéry è un esterno, molto tecnico sì, molto bravo a dialogare coi compagni, che partecipa alla manovra, taglia dentro, entra nel vivo, aiuta, ma sempre un esterno, uno specialista che non allarga particolarmente l’immaginazione di chi lo vede giocare, ma che da un anno quasi non sbaglia un colpo: prende la palla e va via all’avversario, senza soluzione di continuità. Avendo visto molte partite del Bayern negli ultimi tempi, Ribéry è davvero sempre questo. Ciò che migliora semmai è la determinazione, è sempre più consapevole della sua importanza, ma senza strafare. Vedere per credere come si è andato a prendere il gol del pareggio nella Supercoppa Europea col Chelsea.
Dettaglio tecnico che apprezzo particolarmente del francese: dribbla sui due benedetti lati, il che è commovente se si pensa a tutte quelle ali strafighe che fra elogi e quotazioni da capogiro in tanti anni di scuola calcio non hanno trovato il tempo per affinare l’uso dell’altro piede, se non per tirare almeno per portare palla, e vengono quindi schierati su una fascia per poter rientrare sul piede preferito sempre con la stessa azione (che poi nove volte su dieci vadano via al marcatore è un altro discorso). Ribéry è destro, il sinistro lo usa maluccio per tirare, ma quando punta muove continuamente il pallone da un piede all’altro e ci sono sempre uguali possibilità che rientri sul destro o vada sul fondo per dare il passaggio verso l’area piccola.
E poi è anche un bellissimo uomo, che in questa nostra Società dell’Immagine ha la sua importanza.
Gli altri Palloni d’oro
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)
El Rey del Fútbol
Salvador Cabañas, Rey del Fútbol nel 2007. Tre anni dopo in un bar di Città del Messico verrà colpito alla testa da un colpo di pistola. Tornerà in campo ma non sarà più lo stesso.
El Rey del Fútbol de América è il titolo che a partire dal 1986 viene assegnato dalla rivista uruguagia El País (e precedentemente dai venezuelani de El Mundo) al miglior calciatore sudamericano. Le regole del RdF ricalcano quelle del Pallone d’oro ante-1995, e in un certo senso ne patiscono la medesima atrofizzazione manichea: può essere assegnato solo a calciatori sudamericani militanti in compagini sudamericane.
Il risultato di tanta rigidità è stato che negli anni di Barcellona e Napoli Diego Armando Maradona, di gran lunga il più talentuoso e carismatico giocatore al mondo, non abbia potuto essere insignito né del Pallone d’oro (in quanto non-europeo) né del titolo di Rey del Fútbol (in quanto militante in una compagine non-sudamericana).
Nel ’97, anno in cui un sudamericano (Ronaldo) si è aggiudicato per la prima volta il Pallone d’oro, sul podio si sono accomodati un cileno (Salas), un peruviano (Solano) e un paraguaiano (Chilavert).
Nel 2002, anno del bis di Ronaldo, dietro il vincitore Cardozo (paraguaiano) due uruguagi (Órteman e Lembo).
Nel 2007, infine, anno della celebrazione parigina di Kaká, a Montevideo si celebravano due paraguaiani (Cabañas e Morel Rodríguez).
L’impressione che se ne ricava, o che almeno io ho desunto, è che a fronte dell’exploit di calciatori di un certo solito sudamerica (Brasile e Argentina) nel massimo titolo individuale su scala mondiale si sia voluto contrapporre un afflato orgoglioso, bolivarianissimo e provinciale a un tempo, di riscoperta delle piccole realtà locali. Come se il moto di scelta dei calciatori da mettere in vetrina fosse lo stesso dei contadini che si presentano ai farmer market di Slow Food: riscoperta del misconosciuto, riabilitazione del negletto, celebrazione del chilometro zero.
African Footballer of the Year
Lakhdar Belloumi. Calciatore africano del 1981, stava per essere acquistato dalla Juve al posto di Michel Platini.
Il Pallone d’oro africano è stato assegnato per un ventennio, dal 1970 al 1994, da France Football come diretta emanazione e costola satellitare del Pallone d’oro, e non poteva essere altrimenti data la francofonia della maggior parte dello scacchiere della geopolitica calcistica continentale.
Per una decina di anni, dalla data d’istituzione al 1982, il palmares del Pallone d’oro africano è stato ricco di calciatori africani militanti in Africa: personaggi che a volte approfittarono del riconoscimento per tentare fortuna nel calcio che conta (come Roger Milla in Francia, o Karim Abdul Razak ingaggiato nell’anno successivo della premiazione dai New York Cosmos); meteore della tipologia once-in-a-lifetime (Rabah Tacco d’Allah Madjer); o irriducibili eroi romantici fedeli alla propria nazione che rifiutarono sontuose offerte dall’Europa come nel caso del congolese Bwanga, del guineano Souleymane o dell’algerino Belloumi. C’è un video su YouTube di Belloumi in azione contro la Juventus. Deve trattarsi di un’amichevole giocata nel 1985, o forse ’86, tra la nazionale algerina e i bianconeri.
Amichevole Juventus - Algeria: Belloumi offusca la stella di Platini.
Veroniche, colpi di tacco, cambi di passo, progressioni sulla fascia, sforbiciate, no look e trivele. La Juventus avrebbe voluto tesserarlo già dall’82, quando con una sua rete l’Algeria battè 2-1 la Germania. Ma allora Lakhdar Belloumi, fresco di Pallone d’oro africano, aveva solo ventitré anni, e all’epoca si poteva lasciare il paese sahariano solo al compimento del ventisettesimo anno d’età. Ad Agnelli toccò ripiegare su Michel Platini.
Dal 1992 il Pallone d’oro africano è stato sostituito dal titolo di Calciatore Africano dell’Anno, viene conferito dalla CAF (Confederation Africaine du Football) e nessun africano che milita in una compagine africana è mai più riuscito a conquistarlo.
Asian Footballer of the Year
Il campione in carica Lee Keun-Ho.
Il Pallone d’oro asiatico è stato assegnato, tra il 1988 e il 1994 dall’Istituto Internazionale di Storia e Statistica del Calcio, l’autorevole IFFHS, sulla scorta di criteri simili a quelli utilizzati per l’assegnazione della Scarpa di Bronzo: non a caso è stato appannaggio soprattutto di bomber monstre - il giapponese Kazu Miura, il saudita Al-Owairan, il coreano Kim Joo-Sung. Da quando l’incombenza di decretare il MVP asiatico dell’anno è passata nelle mani dell’Asian Football Confederation, ha conservato (quasi sempre) una certa dimensione locale, privilegiando - a scapito di gente come Nakamura, Park Ji-Sung o Kagawa - stelle di compagini continentali come il saudita Al-Qahtani, l’uzbeko Djeparov o il coreano Lee Keun-Ho, campione in carica, attaccante dello Ulsan Hyunday che ha trascinato nella vittoriosa Champions League asiatica 2012.
Il qatariota Khalfan Ibrahim è stato Pallone d’oro asiatico nel 2006, quando aveva appena 18 anni e da appena due aveva esordito tra i professionisti. Non ha mai preso in considerazione l’idea di lasciare il Qatar per tentare un’avventura in Europa. Nell’Al-Sadd gioca al fianco di Mamadou Niang e Raúl Gonzalez, che non perde occasione per paragonarlo a Diego Armando Maradona, specie dopo questo goal in Coppa.
A me sembra piuttosto più simile alla galoppata di Weah contro il Verona, una questione più di progressione, di taglio di campo che non di controllo di palla e dribbling.
Khalfan ha già vinto una Champions League asiatica, tre titoli nazionali, sette coppe e una medaglia di bronzo ai Mondiali per club. Nel 2022, quando il Qatar ospiterà la fase finale della Coppa del Mondo, avrà trentaquattro anni.
Oceania Footballer of the Year
Bertrand Kaï, Pallone d’oro oceanico.
L’amore per i prodotti delle proprie terre che sfocia nella volontà di preservazione e valorizzazione è una pratica comune in Oceania, tanto per alcune rarissime specie autoctone d’uccelli quanto per i calciatori. Il detentore del Pallone d’oro oceanico in carica viene dalla Nuova Caledonia e si chiama Bertrand Kaï. Dico in carica anche se l’assegnazione è del 2011, ma in Oceania è così che funziona: se la prendono comoda. Dal 2004 al 2008, ad esempio, non è stato annunciato alcun vincitore. Poi, nel 2008, è arrivata l’assegnazione per l’anno in corso, e retroattivamente per le stagioni 2005, 2006 e 2007. Fino a nuova incoronazione, l’uomo da spodestare è Kaï, quindi.
I tempi in cui il premio lo vincevano solo gli australiani che giocavano in Inghilterra (o meglio, solo gli australiani che giocavano a Leeds, e quindi Harry Kewell o Mark Viduka) sono ormai lontani. L’Australia, per dire, non è neppure più confederata in Oceania. Bertrand Kaï, a dirla tutta, non è neppure il primo kanako a finire nel palmares: prima di lui c’è stato già Christian Karembeu. Ma stiamo parlando di Ka-rem-beu. E poi non valeva. Indossava la maglia dei bleus, della nazionale francese, Karembeu. Vinceva i Mondiali. Giocava in Europa con il Real Madrid.
Bertrand Kaï, invece, è il capitano dell’Hienghène Sport, compagine neppure troppo di punta del calcio neocaledoniano, che ha vinto per la prima volta nella sua storia la coppa nazionale appena una manciata di giorni fa. Ha trent’anni, lunghi dreadlocks e il volto da guerriero, austero e fraterno a un tempo.
Le cinque edizioni del Pallone d’oro d’Oceania precedenti quella dell’incoronazione di Kaï le hanno vinte due difensori e una punta, tutti neozelandesi. Per due volte il roccioso difensore centrale del QPR e Blackburn Rovers Ryan Nelsen; una volta Ivan Vicelich (qui Ivan Vicelich insacca di testa nel bel mezzo d’un pioppeto in una partita del campionato neozelandese), infine per altre due volte Shane Smeltz, cognome da prelibatezza da deli yiddish, che ha segnato anche contro l’Italia.
Semifinale di Coppa d’Oceania. Bertrand Kaï (a 1.20) porta in vantaggio la Nuova Caledonia contro la più blasonata Nuova Zelanda.
Kaï è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel dominio egemonico dei calciatori neozelandesi soprattutto grazie a una sontuosa serie di performances nei Giochi del Pacifico del 2011, disputati in casa, dove ha condotto la Nuova Caledonia a una brillante vittoria. Con la maglia dei Cagous ha messo a segno 18 reti in 19 presenze. La metà durante quei Giochi del Pacifico. La metà della metà in una sola partita, quella inaugurale dei Giochi contro Guam.
Quando gli hanno notificato la vittoria s’è detto sorpreso, anzi: scioccato. «Ad essere onesto non potevo crederci, è stata una vera sorpresa quand’hanno fatto l’annuncio. Solo successivamente ho realizzato che onore è stato essermi piazzato di fronte ai professionisti della Nuova Zelanda.» Kaï è un leader discreto, ha il carisma e la benevolenza ecumenica di tutti i capitani di tutte le squadre di calcio di tutto il mondo: «Sono contento quando vinco il titolo di capocannoniere in qualche torneo, ma non cambia di una virgola il mio atteggiamento. Il mio lavoro sul campo è segnare goal e senza l’ottimo lavoro dei miei compagni di squadra non potrei mai farlo».
Ibrahimović e il trionfo dell’individualismo
di Daniele Manusia (@DManusia)
Partiamo da un presupposto, il punto non è decidere se questo qui sotto sia il gol più bello della storia del calcio, più bello dello slalom di Maradona o della volée di Van Basten in finale dell’Europeo del 1988. Detto ciò, il FIFA Puskás Award, che premia il gol più bello dell’anno, sarebbe un riconoscimento comunque inadeguato. Senza nulla togliere al diagonale di Di Natale o alla mezza rovesciata di Koné (io tifo per Louisa Necib) mi sembra che non siano sullo stesso piano di questa cosa qui sotto.
Non saprei neanche se si tratta veramente di un bel gol. I critici parlano dell’uscita a vuoto di Hart, ma il problema secondo me è che non c’è un nome per una cosa del genere.
È una rovesciata?
Un pallonetto da centrocampo in rovesciata?
Un pallonetto da centrocampo con colpo da kung-fu rovesciato?
Qualsiasi descrizione non sarà all’altezza del gesto in sé e forse l’unico pensiero sensato al riguardo può essere: "non ho mai visto una cosa del genere prima e probabilmente la vedrò mai più".
Anche questa cosa qui sotto, che è?
Chi l’ha mai fatta prima e chi potrà mai rifarla se non lo stesso Ibrahimović?
Voglio dire, ci ricordiamo ancora di Higuita per una - UNA - singola parata in amichevole.
Dei grandi giocatori si dice che rendono semplici cose difficili. Ibrahimović invece prende una cosa difficilissima e la rende semplicemente assurda.
Il punto non è quanti gol abbia fatto da quando è andato al PSG (comunque meno, nello stesso arco temporale, di Messi e Cristiano e magari anche di qualcun altro); fin qui ho citato volutamente azioni incredibili dell’ultima stagione, ma tutta la carriera di Ibra è composta da una serie di gesti unici che mettendoli in fila uno dopo l’altro diventano qualcosa di organico, di fatto la carriera di Ibrahimović è fondata su una serie di colpi di genio.
Il vero punto debole di Ibrahimović è che non è un uomo squadra. Anche se dalla stagione 2001-2002 le squadre in cui ha giocato hanno vinto 15 campionati su 17 (contando anche gli scudetti revocati alla Juve), l’evento più significativo della carriera di Ibrahimović sul piano collettivo è la stagione 2009-2010. Quando è andato al Barcellona per vincere la Champions League che invece ha vinto Mourinho dopo averlo venduto. Non solo Ibrahimović non ha vinto la coppa che gli mancava, ma ha vinto la squadra senza Ibrahimović. Da quel momento in poi non si è più parlato di Pallone d’oro. Nel 2009 Ibra è arrivato 7°, nel 2010 non era più neanche tra i 23.
Poi però Ibra ha alzato ulteriormente il livello della propria individualità. Credo che ormai non faccia neanche più caso a se la sua squadra vince o perde, o comunque meno rispetto al passato. Il suo scopo è quello di dimostrare di essere superiore, forse solo più grande, esageratamente più grande degli altri. È un’idea di calcio che non mi piace, ma c'è riuscito. Non ci sarà più un calciatore alto 1 metro e 95, con i piedi di un numero 10, che da piccolo ha fatto arti marziali e quindi adesso può fare colpi di tacco là dove gli avversari vanno di testa. Se il Pallone d'oro somigliasse al Nobel per la Letteratura con una motivazione che accompagni la scelta finale quella di Ibrahimović dovrebbe suonare tipo: Perché ha fatto cose che nessun altro farà mai più con un pallone da calcio su campo da calcio.
Pallone d’oro nel multiverso
di Francesco Pacifico (@FzzzPacifico)
Se esiste il multiverso, allora da qualche parte oltre la membrana che segna il nostro infinito c’è un universo più funky in cui questo è il podio degli ultimi 20 anni di Pallone d’oro.
1993
1. Éric Cantona
2. Dennis Bergkamp
3. Roberto Baggio
1994
1. Paolo Maldini
2. Roberto Baggio
3. Hristo Stoičkov
1995
1. George Weah
2. Jürgen Klinsmann
3. Jari Litmanen
1996
1. Alan Shearer
2. Ronaldo
3. Matthias Sammer
1997
1. Zinédine Zidane
2. Ronaldo
3. Predrag Mijatović
1998
1. Davor Šuker
2. Zinédine Zidane
3. Ronaldo
1999
1. David Beckham
2. Rivaldo
3. Andrij Shevchenko
2000
1. Luís Figo
2. Zinédine Zidane
3. Andrij Shevchenko
2001
1. Oliver Kahn
2. Raúl
3. Michael Owen
2002
1. Roberto Carlos
2. Oliver Kahn
3. Ronaldo
2003
1. Thierry Henry
2. Paolo Maldini
3. Pavel Nedvěd
2004
1. Ronaldinho
2. Deco
3. Andrij Shevchenko
2005
1. Frank Lampard
2. Steven Gerrard
3. Ronaldinho
2006
1. Fabio Cannavaro
2. Gianluigi Buffon
3. Thierry Henry
2007
1. Kaká
2. Cristiano Ronaldo
3. Lionel Messi
2008
1. Cristiano Ronaldo
2. Lionel Messi
3. Fernando Torres
2009
1. Lionel Messi
2. Cristiano Ronaldo
3. Xavi
2010
1. Andrés Iniesta
2. Xavi
3. Lionel Messi
2011
1. Xavi
2. Cristiano Ronaldo
3. Lionel Messi
2012
1. Lionel Messi
2. Cristiano Ronaldo
3. Andrés Iniesta
Andrea Pirlo e gli italiani da Pallone d'oro
di Fulvio Paglialunga (@FulvioPaglia)
Vorrei parlare degli italiani e il Pallone d'oro, quindi di Gianni Rivera, e Paolo Rossi, e Roberto Baggio, e Fabio Cannavaro (in aggiunta: Omar Sivori). Ma non solo. Anche di quelli che non l'hanno vinto e avrebbero dovuto e quelli che l'hanno vinto eppure boh. Ad esempio Cannavaro è un prodotto della formula squadra che vince + giocatore rappresentativo (allora perché non Buffon – al quale in qualche altro anno lo avrei dato - e perché non Fabio Grosso, se il concetto è quello), ma Roberto Baggio e Gianni Rivera (e sì, pure Paolo Rossi, ché quanto fece nell'82 non poteva essere ignorato) sono stelle che si possono tenere al petto. Ma Facchetti (secondo, una volta), Gigi Riva (un secondo, un terzo), Zoff (secondo), Franco Baresi (secondo; invece Schillaci, pure lui una volta secondo, mi pare un po' troppo) o Maldini (terzo, nel 1994 e nel 2003)? Il dubbio è che tra i piazzati ci siano piedi e teste migliori di alcuni premiati.
Un illustre secondo.
Poi, però, il deserto. A parte Cannavaro primo e Buffon secondo nel 2006, è dal 2003 che non ci sono italiani sul podio. E a volerci ragionare, chi avrebbe dovuto? Appunto, ragioniamoci. Quest'anno nei 23 della votazione finale c'è solo Pirlo, nei 50 c'erano anche Balotelli e Buffon. L'anno scorso nel gruppo finale c'erano Pirlo, Balotelli e Buffon. Abbiamo finito i giocatori rappresentativi, forse pure quelli bravi o comunque che siano un marchio. Oppure è il meccanismo delle nomination che ormai è stato distorto in modo imbarazzante. Quest’ultima parte è vera: si vuole tanto bene a Gattuso, e Luca Toni è un evergreen, e Zambrotta ha avuto momenti di certificata utilità, ma vederli tutti insieme nel gruppo dei candidati nel 2006 è sembrato un azzardo, dunque una visione deforme del genio calcistico e di un oggettivo concetto di bellezza (ammesso che esista, la bellezza oggettiva). E dunque occorre vincere e si vince poco e dunque quello che occorre non c'è. Ma è anche vera la prima parte, c'è rimasto poco da esibire: pochi calciatori di genio, capaci di essere simbolo riconosciuto (uno ci sarebbe, ma sono gli italiani stessi a non farne un simbolo: ne parlo dopo, però). La Nazionale è una “squadra”, quando riesce (Europeo del 2012, nessuna traccia di azzurri sul podio) ha un valore superiore alla somma delle individualità e peraltro nemmeno valorizza i talenti, ritenendoli eternamente troppo giovani (Verratti), non scommettendo sulle capacità per troppa paura (Giuseppe Rossi) o buttandoli via con frenesia (se Ancelotti non avesse cambiato ruolo a Pirlo, mostrando intelligenza e pazienza, in quale squadra di Lega Pro sarebbe finito Andrea con l'etichetta di promessa non mantenuta?). Insomma, non solo siamo abitati da un buon numero di giocatori italiani scarsi, ma siamo anche abbastanza ignoranti quando vanno trovati, lanciati, valorizzati. Non c'è un progetto per un Messi italiano (oh, Messi ne nasce uno ogni boh, ma anche un po' meno ci basta) e nemmeno un architetto, per il progetto.
Dunque, non lo vincerà nessun italiano e finché Verratti viene visto come un cervello in fuga senza che si investa su di lui come leader del calcio futuro (ma Ronaldo, Messi, Best e persino Blochin e Owen hanno vinto tra i 21 e i 23 anni), l'unico che si può ipotizzare premiato nei prossimi anni è quello che molti nemmeno riconoscerebbero: Mario Balotelli, è forte, può diventare fortissimo se si libera dei mostri e viene visto solo come un calciatore e dunque lasciato in pace, ed è forse l'italiano (anche oltre il calcio) in questo momento più famoso al mondo. E per ora ci resta Pirlo, che non è niente di arrangiato, ma un genio vero: l'ideale di bellezza, quiete, qualità e qualunque altra cosa si possa considerare affascinante (pure il pallone si sente fortunato, a subire calci da lui) su un campo di calcio. Pirlo è genio e regolatezza, uno a cui lasceresti il portafogli e il pallone più importante della partita (quanti si inventerebbero un no look all'ultimo minuto del secondo supplementare della semifinale mondiale?), uno a cui invidi tutto, la sobrietà e le punizioni, i silenzi e le parole lente e sussurrate, i toni bassi, le palle alte, i lanci precisi e i cucchiai all'improvviso. Indossa la cravatta in campo, e se si vede dal vivo, con tutto il campo a disposizione e non solo la porzione offerta dalla telecamera, si svela anche come uomo di fatica più di come si possa immaginare: stupisce per la pulizia del suo calcio e della sua corsa e del suo recupero e del suo assist anche nella partita che poi, mediamente, è più grigia di altre. Pirlo è Pirlo e sembra anche abbastanza innamorato dell'idea di essere straordinariamente se stesso, senza copertine, spacconate, motivi supplementari per alimentare la discussione. Se proprio ha voglia di esagerare fa un assist in più, un lancio più lungo, si fa venire un'idea eccellente. E se proprio volessi esagerare lo darei davvero a lui il Pallone d'oro. Sarebbe una questione di grazia e piacere, di bellezza e passi delicati. Non lo vincerà, alla fine. Però sarebbe suggestivo.
I grandi esclusi
di Camilla Spinelli (@CamillaSpinelli)
Fino al 1994 il regolamento del Pallone d’oro prevedeva che potessero concorrere al premio solo giocatori di nazionalità europea. Per gran parte della sua storia, quindi, sono stati esclusi dalla corsa alcuni tra i più grandi calciatori di sempre. Ad esempio nel 1986, anno in cui è stato premiato Bjelanov, un po’ per premiare l’ottima annata della Dinamo Kiev, un po’ per sdoganare il calcio dell’Est una volta per tutte, siamo sicuri non ci fossero giocatori più meritevoli in circolazione?
Questi sono solo alcuni dei Grandi Esclusi del Pallone d’oro.
Arthur Antunes Coimbra, detto Zico. Secondo France Football è al nono posto nella classifica dei migliori calciatori del XX secolo. Se, quando osservi un gol su YouTube, non riesci a staccarti dallo schermo del tuo computer indipendentemente da chi sia il marcatore (a volte rimango imbambolata davanti a gol segnati in categorie infime, spero di non essere l’unica), vuol dire che stai vivendo un momento di estasi calcistica totale. C’è un video su YouTube di soli calci di punizione di Zico che è esattamente questo. Osservi la sua corsa, il piede sinistro che si posa a pochi centimetri dal pallone e poi, inevitabilmente, l’occhio viene attratto dal movimento strozzato della gamba destra che, dopo il calcio, rimane per qualche secondo parallela al terreno. Zico voleva mettere il pallone sempre e solo nel sette, come se tra palo e traversa ci fosse un bersaglio. Zico però non fu solo sinonimo di punizioni eccellenti; nei suoi due anni a Udine segnò 22 gol in 39 partite arrivando secondo nella classifica dei marcatori dopo Platini, l’Udinese poi arrivò nona in campionato. Ecco, probabilmente dei 3 Palloni d’oro vinti dal francese dal 1983 al 1985, Zico se ne sarebbe meritato almeno uno. In carriera ha segnato 516 gol in 750 partite ufficiali, numeri da gigante assoluto. E invece.
Mario Alberto Kempes. “Il dio che giocava a pallone”, uno dei giocatori che più vorrei aver visto con i miei occhi. Con le debite proporzioni - perché naturalmente oggi il calcio è molto più veloce e muscolare – Kempes è stato il precursore dell’attaccante moderno alla Cavani, quel tipo di attaccante che corre e si sacrifica per la squadra ma che, al momento giusto, riesce ad avere ancora la lucidità per cambiare il corso di una partita. Eletto Miglior Giocatore e capocannoniere con 6 gol della Coppa del Mondo del 1978, quell’edizione giocata in Argentina durante la dittatura di Videla, la più politicizzata e triste di sempre, 2 dei quali segnati alla fortissima Olanda in finale, durante la premiazione Kempes non ha stretto la mano a Videla non si è mai capito se per scelta o se a causa della concitazione dell’evento.
Due volte capocannoniere della Liga (1976-1977 e 1977-1978) con il Valencia di Di Stéfano, e della Coppa delle Coppe (1979-1980). Iniziò come ala mancina ma ricoprì anche il ruolo di centravanti (proprio come Cavani); più volte però disse di preferire il ruolo di seconda punta. In Sudamerica fu per due volte capocannoniere argentino con il Nacional e il Metropolitano e vinse proprio nel 1978 il Pallone d’oro sudamericano.
Romario. Nel 1994 il Pallone d’oro venne assegnato a Stoičkov che all’epoca giocava nel Dream Team, il Barca di Cruijff. I tifosi lo chiamavano "El Pistolero" (quando giocava nel CSKA Sofia il suo soprannome era "Kamata", Pugnale) e, insieme a gente fortissima come Guardiola e Koeman, vinse quattro volte la Liga, una Coppa dei Campioni e una Supercoppa Europea. Probabilmente si è aggiudicato il Pallone d’oro grazie anche a un torneo – Usa ’94 – giocato in maniera perfetta con la sua Bulgaria diventando anche capocannoniere. Ha fatto la fine che fece, a Parma tra un gol di mano e una lite con i vigili per sosta vietata. Ora però chiudete un attimo gli occhi e ditemi qual è stato il giocatore più rappresentativo di quel Mondiale. Romario, il numero 11 basso e tozzo di quel Brasile che ci ha battuto in finale, premiato "Player of the Year" in quella stessa stagione, ha giocato tutte le partite di quell’edizione segnando 5 gol, ubriacando letteralmente i difensori di dribbling e i portieri congelati dalla sua freddezza sotto porta. Era arrivato a quel mondiale dopo un anno fantastico al Barcellona, 32 gol in 47 apparizioni. La sua carriera in Europa era sbocciata nel 1988, al PSV, e nei cinque anni passati in Olanda, ha segnato quasi un gol a partita ed era considerato l’erede di Gullit.
Purtroppo però, già nel 1994, Romario era riuscito a litigare con compagni, allenatori e presidenti di qualsiasi squadra in cui fosse passato. Storico il commento di Westerhof, allenatore del PSV: «Madre natura gli ha dato tutto, meno l’intelligenza». Questo suo caratteraccio e la poca attitudine alla fatica gli hanno precluso molti più riconoscimenti di quanti effettivamente alla fine ottenne. Il suo palmarès è immenso, per carità, manca però all’appello il Pallone d’oro del 1994, secondo me sacrosanto.
Maradona. O Pelé. E perché non tutti e due? Nel 2000 quando la FIFA ha deciso di indire un referendum sul calciatore più forte e influente del secolo si è rivolta direttamente al pubblico che non ha esitato a scegliere Maradona: l’argentino ha vinto con 78mila preferenze. La FIFA, avendo avuto molti scontri con Diego, è corsa ai ripari interpellando una giuria di “esperti” che ha ribaltato il voto popolare scegliendo Pelé.
Maradona non la prese per niente bene. Ma perché dover scegliere? Sono tutte e due icone del calcio che, insieme a Cruijff, hanno rivoluzionato il modo di giocare e di stare in campo. Pelé, da una parte, come colui che ha reso famoso il Drible de vaca mentre Maradona, dall’altra, Dio assoluto del dribbling in corsa con quel pallone sempre attaccato all’esterno del piede sinistro, calamitato. Tutti e due sono stati premiati come "Calciatore sudamericano dell’anno" - Pelé ben sei volte, Maradona due. Ma nella storia del Pallone d’oro loro due non ci sono e boh, mi pare che il trofeo perda un pochino di senso.
Milito l’ha vinto, no?
di Matteo Gagliardi (@stai_zitta)
È da tre anni che almeno una volta alla settimana guardo un video su YouTube di tutti i gol di Milito nella stagione 2009-2010 chiedendomi perché non soltanto non abbia vinto il Pallone d’oro ma non sia stato inserito neanche nella lista dei candidati.
L’articolo 3 del regolamento del FIFA Ballon d’Or è l’unico che accenni al metodo delle candidature dei giocatori. Si legge: «The Awards are bestowed according to on-field performance and overall behaviour on and off the pitch». Dando un’occhiata all’articolo 9 del regolamento del “vecchio” Pallone d’oro trovo invece qualche parametro in più di un semplice “comportamento dentro e fuori il campo”, si parla di: l’insieme delle prestazioni individuali e collettive durante l’anno considerato; la classe del giocatore (una somma di fair play e talento); la carriera; la personalità. Analizziamo questi attributi per scoprire cosa sia mancato al Principe per vincere il premio.
Le prestazioni individuali di Milito nella serie A 2009-2010 iniziano col debutto alla prima giornata contro il Bari dove si procura un rigore che sblocca la partita. Il primo gol lo realizza nel derby e da lì in poi, su un totale di 35 presenze segna 21 gol. Segna in ogni modo: col portiere in uscita, di testa, su rigore, in mezza giravolta nell’area piccola, nel derby, da fuori area, con un pallonnetto, smarcando tre giocatori... Segna di esterno destro il gol scudetto contro il Siena all’ultima giornata. Milito quell’anno ha avuto una media realizzativa di 0,70 gol a incontro. In Coppa Italia ne segna solo due, il secondo però è il gol partita in finale contro la Roma con una prodezza da fuori area «Straardinaria», come disse Collovati:«da scrivere negli annali». In Champions segna ovunque: nella fase a gironi contro la Dinamo Kiev, contro il Chelsea agli ottavi, contro il CSKA ai quarti, contro il Barcellona in semifinale, contro il Bayern Monaco in finale, una doppietta.
Gol scudetto.
Le prestazioni collettive della squadra, nella stagione 2009-2010 migliorano notevolmente, Milito è il talismano dell’Inter: soltanto i suoi gol valgono 17 punti in campionato; la rete all’ultima giornata vale il diciottesimo scudetto dei nerazzurri che dopo diciott’anni superano quelli vinti dai cugini; e il 22 maggio, la doppietta in finale del numero 22 interista regala ai tifosi e al Presidente la terza Champions League della Storia. Milito dopo ogni assist che conclude in rete si volta verso il compagno di squadra autore del passaggio e lo indica, ride come un matto e lo ringrazia. È per i suoi gol se Sneijder, Maicon, Eto’o e Júlio César si ritrovano nella lista del Pallone d’oro FIFA di quell’anno.
Il talento di Milito è stato riconosciuto dalla UEFA: nel 2010 infatti lo premiano come “calciatore dell’anno” e “giocatore dell’anno”, per stare più sicuri. È anche insignito del premio “man of the match” della finale di Champions League. I premi glieli ha consegnati Platini. Fuori dal campo quando ha saputo dell’esclusione dalla lista per il Pallone d’oro, l’arbiter elegantiae Milito non soltanto ha augurato la vittoria a uno qualsiasi dei suoi compagni di squadra, ma non ha dimenticato nel momento più ingiusto della sua carriera di «ringraziare il Genoa e la gente del Genoa che non scorderà mai». In campo Milito registra due cartellini gialli in tutta la stagione.
Milito non sbaglia mai.
La carriera di Milito inizia quando abbandona l’Università e il progetto di diventare commercialista, per fare l’attaccante. In Argentina al suo debutto in prima squadra vince il torneo di Apertura con il Racing. Poi col Genoa in serie B arriva secondo in classifica marcatori e dopo lo scandalo delle partite combinate il Genoa lo manda in spagna al Real Saragozza, con cui raggiunge la finale di Coppa del Re e durante la cavalcata batte Barcellona, e il Real Madrid con una quadripletta. A fine stagione 2006-2007 ha segnato due gol meno di van Nistelrooy e arriva nuovamente secondo nella classifica marcatori. L’anno seguente torna al Genoa e diventa il capocannoniere della Serie A, prima di approdare all’Inter e vincere tutto: Coppa Italia, Scudetto, Champions League, Supercoppa italiana e Mondiale per Club, in quest’ordine.
La personalità di Milito in quel 2010 la si capisce dall’intervista TV che gli viene fatta dopo la vittoria in Coppa Italia contro la Roma. Prima ancora del Triplete, il giornalista RAI gli chiede diffidente: «C’è il sogno di vincere questi tre titoli, ma come si fa?», e Milito risponde: «Tranquilli… tranquilli». Con personalità da Übermensch.
Come funziona il Pallone d’oro
di Francesco Costa (@francescocosta)
Nel 2010 il Pallone d’oro si è fuso con il FIFA Word Player. Da allora funziona in questo modo. La FIFA e France Football stilano una lista di 23 calciatori candidati. Questa viene poi sottoposta a una giuria composta da 624 persone: per ognuna delle 208 nazioni affiliate alla FIFA votano il capitano della Nazionale, l'allenatore della Nazionale e un giornalista (per l'Italia è Paolo Condò della Gazzetta). Ogni giurato esprime tre preferenze, in ordine di gradimento: al primo calciatore vanno cinque punti, al secondo tre, al terzo uno. I capitani che sono anche candidati non possono votare se stessi. Nel caso di un primo posto ex aequo il Pallone d'oro va al più votato come prima scelta; se sono ancora pari si contano le seconde scelte; se sono ancora pari, le terze; se sono ancora pari il premio viene assegnato a entrambi.
(Qui bisognerebbe scrivere che un'edizione così equilibrata non c'è mai stata, ma sarebbe una precisazione pleonastica. Da quando esiste il Pallone d'oro FIFA, infatti, accade la stessa cosa: vince nettamente Messi. Non solo: da quando esiste il Pallone d'oro FIFA, due squadre (Barcellona e Real Madrid) e quattro giocatori (Messi, Cristiano Ronaldo, Xavi, Iniesta) si sono spartiti da soli i primi tre posti di tutte le edizioni. Un tale assoluto predominio lascerebbe pensare a uno speculare assoluto predominio nei risultati sportivi, ma non è stato così e qui si smonta forse un luogo comune sul Pallone d'oro, almeno da quando è avvenuta la fusione col premio FIFA.)
Andrew Bascome, head coach della Nazionale delle Bermuda. Il suo voto vale quanto quello di del Bosque.
Nel 2010 l'Inter di Mourinho vince tutto eppure porta un solo suo calciatore nei primi dieci del Pallone d'oro (Sneijder, quarto).
Nel 2011 l'Uruguay stravince la Coppa America, eliminando tra gli altri proprio l'Argentina di Messi, eppure Suárez e Forlán prendono rispettivamente l'1,48% e lo 0,76% dei voti.
Nel 2012 vincere la Champions League col Chelsea non fa arrivare Drogba oltre il 2,6%; vincere il secondo Europeo consecutivo non fa arrivare Iniesta oltre il terzo posto; vincere la Liga non fa arrivare Cristiano Ronaldo nemmeno vicino a ottenere il premio (ottiene il 23% dei voti, contro il 41% di Messi).
Certo, in mezzo il Barcellona vince una Champions League e Messi fa Messi, ma in passato vittorie di squadra come quelle citate sopra avrebbero ottenuto qualche riscontro in più: Ronaldo nel 2002 e Cannavaro nel 2006 vincono il Pallone d'oro grazie alla vittoria dei Mondiali; Kaká nel 2007 e Cristiano Ronaldo nel 2008 dopo aver vinto la Champions League. Andando indietro nel tempo l'elenco continua: Rossi nel 1982, Matthäus nel 1990 e Zidane nel 1998 ottengono il Pallone d'oro dopo aver vinto i Mondiali; Sammer nel 1996 dopo aver vinto gli Europei. Con la fusione tra Pallone d'oro e FIFA World Player questa tendenza storica sembra scemare.
Pensateci: dal 2010 a oggi la Spagna ha vinto un Europeo e un Mondiale, ha espresso calciatori formidabili, e questo non è bastato perché uno di questi vincesse il Pallone d'oro.
Joe Thunder Armstrong Nagbe, allenatore della Liberia. Il suo voto vale quanto quello di Xavi.
Vincere col proprio club o con la propria Nazionale, insomma, conta molto meno di un tempo. Ci sono due spiegazioni possibili, complementari. La prima: in questo momento storico un gruppo fisso e ristrettissimo di calciatori è percepito dagli addetti ai lavori come stabilmente più forte, indipendentemente dai grandi risultati che altri fuori da questo gruppetto possano ottenere con le loro squadre. Tra questi Messi è visto come il più indiscutibile: talmente superiore, proprio in senso assoluto, da compensare anche il fatto che un suo collega per una stagione possa segnare o vincere più di lui. Il Pallone d'oro sta diventando un po' meno il premio al miglior calciatore dell'ultima stagione e un po' più il premio al miglior calciatore punto.
La seconda spiegazione: nella giuria del Pallone d'oro uno vale uno. Le scelte delle grandi potenze del calcio mondiale, degli allenatori e dei calciatori migliori in circolazione, delle nazioni dove il calcio ha storicamente maggiore incidenza culturale, pesano esattamente quanto le scelte del dilettante capitano della Nazionale di Montserrat, dell'allenatore delle Isole Cook e del giornalista sportivo di Vanuatu. Non importa qui capire se è giusto o sbagliato, bensì se questo ha delle conseguenze. Forse ce le ha.
Giuseppe Giannini, da giugno alla guida della Nazionale libanese. Il suo voto vale quanto quello, che ne so, di van Gaal.
Nel 2010 Messi viene scelto come vincitore del Pallone d’oro FIFA dai capitani di Albania, Bahamas, Bielorussia, Bermuda, Brasile, Capo Verde, Comoros, Isole Cook, Croazia, Costa Rica, Cuba, Cipro, Gabon, Georgia, Honduras, Ungheria, Islanda, Iran, Kazakistan, Libano, Liberia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Moldavia, Mongolia, Montserrat, Namibia, Nuova Caledonia, Nicaragua, Nigeria, Repubblica Ceca, Russia, Polonia, San Marino, Senegal, Slovacchia, Somalia, Suriname, Swaziland, Uganda, Uzbekistan, Taipei, Vanuatu, Venezuela.
Perdonate l’effetto elenco telefonico, ma non manca qualcuno? Fatta eccezione il Brasile, mancano le grandi potenze del calcio. Quell'anno il capitano della Spagna vota Robben; quelli di Germania, Italia e Francia votano Iniesta; quelli di Uruguay e Inghilterra votano Sneijder; quello dell'Olanda non mette Messi nemmeno come terza scelta. Nel 2012 Messi non è la prima scelta dei capitani di Spagna, Germania, Italia, Francia e Olanda; degli allenatori di Spagna, Germania, Italia e Brasile; dei giornalisti di Spagna, Italia, Francia e Inghilterra. Vuol dire qualcosa? Forse.
Se una buona parte dei voti decisivi per vincere il Pallone d'oro FIFA arriva da paesi di – come minimo – limitata cultura calcistica e qualità di gioco, di cui nessuno saprebbe citare una sola squadra di club, forse questo sistema favorisce i calciatori che oltre a essere fortissimi sono anche personaggi globali, fenomeni pop: calciatori che sono anche brand internazionali, la cui celebrità e quantità di sponsor sia paragonabile alle star del cinema o della musica.
Messi e Ronaldo lo sono di certo.
Iniesta lo è?
Lo sono Ribéry e Robben, reduci da una stagione formidabile e teoricamente candidati naturali al Pallone d'oro?
Forse no. Forse possono vincerlo comunque: tre edizioni sono troppo poche per trarre indicazioni definitive. Ma le indicazioni ci sono e se questa tendenza esiste impariamo un'altra cosa: che l'Italia ha già oggi un potenziale vincitore del Pallone d'oro, un calciatore che è allo stesso piano di talento, personaggio globale e fenomeno pop. Si chiama Mario Balotelli, serve che ci metta un po' del suo, poi è pronto.