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He Got Game
09 dic 2013
Alessandro Florenzi: ritratto del capocannoniere della Roma di Rudi Garcia, da ragazzino che sognava di giocare con Totti a nazionale italiano.
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A cavallo tra Vitinia e Acilia, propaggini d’agro Romano, terra di fraschette e vino buono. È qui che è cresciuto Alessandro Florenzi: dentro il centro sportivo San Giorgio, dove i genitori, mamma Luciana e papà Luigi – un passato da bomber sui campi dell’Eccellenza laziale – gestivano il bar-pizzeria e lui ha iniziato a tirare i primi calci al pallone. Il calcio, a casa Florenzi, è una questione di pane quotidiano. Anche il fratello gioca, è (o almeno era) molto bravo: si chiama Emiliano, l’ultima notizia che son riuscito a trovare su di lui lo annovera nel Dragona, in Prima Categoria. I Florenzi tifano tutti per la Roma. La prima volta allo stadio di Alessandro è nella stagione 1995-1996, l’ultima con Mazzone sulla panchina e il “Principe” Giannini con la 10. È anche la stagione in cui Francesco Totti viene convocato per la prima volta in Nazionale. Nel San Giorgio Acilia rimane cinque o sei anni. Le sue giornate sono la fotocopia di quelle di centinaia di migliaia di ragazzini italiani: la mamma lo passa a prendere all’uscita da scuola e vanno al centro sportivo. Lei lavora. Lui si barcamena tra divisioni in colonna e analisi grammaticali; poi, finiti i compiti, dribbling ostinati sulla fascia.

Uno dei migliori amici d’infanzia di Alessandro Florenzi è Emanuele Propizio, che oggi fa l’attore (è apparso sul grande schermo in Grande, Grosso e…Verdone e Mio fratello è figlio unico, oltre a due stagioni de I liceali). «Giocavamo insieme da piccoli, anche a pallone; siamo dello stesso anno e della stessa zona. Io abito a Casal Palocco, lui è di Vitinia», dice in un’intervista al Romanista(e non si capisce se venga intervistato in quanto celebrità, amico di un calciatore ormai famoso o entrambe le cose). Entrambi sognavano di diventare forti come Francesco Totti. «Quando parliamo di una persona, che è il Capitano, puoi vedere che ci brillano gli occhi, a tutti e due. Senza nulla togliere agli altri, però per i ragazzi della nostra età è come se fosse una figura mitologica. Noi siamo nati con lui, non abbiamo mai visto la Roma senza di lui. È una figura che va oltre.»

A nove anni Florenzi si trasferisce alla Lodigiani (come Totti), a conti fatti è la terza squadra di Roma. Ci rimane due anni, poi siccome è in gamba Lazio e Roma se lo contendono. Alessandro non ha il minimo dubbio su chi scegliere: «Sono venuto a Trigoria, ho parlato con Bruno Conti, nel suo ufficio: immaginate l’emozione... In quindici minuti avevo già deciso, ma ne sono serviti anche meno». Si allena al Tre Fontane, all’Eur, neppure troppo distante da casa. Contende un posto da titolare al suo amico Bertolacci. Non sempre vince lui. Solo a partire dagli Allievi Nazionali comincia a frequentare il centro sportivo Fulvio Bernardini a Trigoria. E ad allenarsi a qualche passo di distanza dai grandi campioni della prima squadra, e Alessandro ci crede ancora mica tanto. La domenica, qualche volta, è a bordo campo durante le gare casalinghe per fare il raccattapalle. Il padre gli dice, scherzando ma non troppo: «Alessa’, pensa se un giorno dovessi dare palla a Totti con i piedi, invece che con le mani...». Altre volte è più severo. Lo chiama “somaro”. Poi sorride sotto i baffi.

A quindici, sedici anni Florenzi non è per niente un somaro. Indossa la maglia numero 10. Se c’è una cosa difficilissima tra le più difficilissime, a Roma, è essere romani, romanisti e giocare con l’A.S. Roma. Anche nelle giovanili. Figuriamoci con quella maglia così totalizzante, il numero che hai sempre visto solo e soltanto sulle spalle di Totti. Il Florenzi degli Allievi indossa la 10, è vero, ma che non sia un 10 lo si capisce da lontano un miglio. È tenace anche se tecnicamente un po’ prevedibile. Ha una buona visione di gioco, da regista vecchio stampo, ma gioca esterno alto a sinistra e il suo mito è Cesc Fàbregas, che ha solo quattro anni più di lui e già da un paio di stagioni brilla in Premier League con la maglia dell’Arsenal. Il suo allenatore è un ragazzo di pochi anni più grandi di lui, meticoloso nella preparazione atletica, alchimista tattico dal futuro promettente: si chiama Andrea Stramaccioni. E ha un’intuizione: cambiargli ruolo. Da ala lo trasforma in play basso, uomo da centrocampo a tre, una parte perfetta per le sue caratteristiche tecniche e fisiche. Poi però Alessandro è costretto a star fermo cinque mesi per un infortunio al condilo femorale. È in quel periodo che, allo stadio Olimpico, una domenica, conosce Ilenia, che era ancora una ragazzina.

Quello di play basso rimarrà il suo ruolo per il resto dell’avventura nel settore giovanile romanista, anche dopo il passaggio alla Primavera, agli ordini di mister De Rossi, che gli affiancherà Federico Viviani. Al cambio di maglia corrisponde un cambio di sensibilità e attitudine: dal 10 della fantasia all’8 della disciplina tattica, dell’inesauribilità, dell’infinito, se lo corichi su un lato; del loop.

Di quel periodo di Florenzi ho nitido un ricordo: una lunga scena vista coi miei stessi occhi alle 23 di lunedì 6 settembre 2010, a Santa Marinella, una manciata di chilometri da casa mia. Si giocava la finale di un torneo estivo, il Tirreno e Sport. Una di fronte all’altra le Primavera di Roma e Lazio, che poi è sempre uno spettacolo, un derby, anche tra giovanili, anche se ci si sta giocando la finale di un torneo estivo. La Lazio era passata in vantaggio con un rigore intorno al ventesimo del primo tempo (marcatore: Ceccarelli, oggi al FeralpiSalò), e a due minuti precisi dal fischio finale, come epica comanda, ecco assegnato un penalty ai giallorossi: la palla del pareggio. Sul dischetto era andato il capitano. Che però l’aveva fallito, quel rigore, e al momento del triplice fischio era scoppiato in lacrime. Poi era trotterellato verso la curva – che quella sera era una tribuna centrale –, e con le mani giunte aveva chiesto scusa: scusate tutti, davvero. A me un calciatore che chiede perdono ai propri tifosi fa sempre molta tenerezza. Avevo visto quel ragazzino cercare con gli occhi qualcuno tra le fila degli spettatori, qualcuno che nel frattempo gli correva incontro, giù verso la recinzione, un uomo un po’ appesantito, coi baffi, che gli tirava dei gran baci e gli faceva cenno di non prenderla così, di non mortificarsi. Aveva l’aura rassicurante di chi porta lo stesso cognome.

A quei tempi tenevo una rubrica in cui raccontavo storie di pallone che mi sembrava meritassero d’essere raccontate: andai sulla pagina Facebook di Florenzi (all’epoca non era una pagina ufficiale) e presi appunti. Qualche citazione buffa, l’uso confuso delle a con l’acca, il link alla pagina eBay di un tizio che vendeva magliette d’allenamento della Roma (mi ero convinto fosse un account con cui Florenzi si rivendeva le magliette sotto pseudonimo). In quel pezzo, scritto all’indomani del rigore fallito, ho parlato di Florenzi come una giovane promessa che non sarebbe mai sbocciata se non sui campi tristi di Cava de’ Tirreni (si parlava allora d’un suo trasferimento in prestito alla Cavese; immaginavo Cava de’ Tirreni triste). «Alessandro, all’età sua, mica lo so quanto riuscirà ad avanzare nel calcio dei palleggi per i promo di Sky», avevo scritto. Non avrei mai creduto potesse diventare un giocatore vero, Florenzi. Forse era Cioran, o Cortázar, o mio nonno chi diceva che «solo gli imbecilli non cambiano idea almeno tre volte al giorno». Col tempo ho scoperto che non c’è niente di male nel ritrattare le proprie opinioni. Ho rivalutato autori, donne e valori: e cos’è che avrebbe di differente un calciatore? Quando quel racconto uscì, lo inviai a Florenzi con un messaggio su Facebook. Mi rispose solo per precisare che lui, le magliette, mica era vero che se le rubava per poi rivenderle su eBay.

La summa teologica delle reti di Florenzi giovane

Con la Primavera Florenzi vincerà un Campionato da capitano, confermandosi trascinatore, emblema di caparbietà, rigorista infallibile (se escludiamo quello della finale del torneo estivo) e pur capace di prodezze balistiche degne di palcoscenici più prestigiosi – come l’ultima rete segnata a Trigoria con la maglia delle giovanili, contro il Pescara: Florenzi imposta un’azione di contropiede, s’invola verso l’area avversaria, scambia con Montini che gli rende una palla leggermente in ritardo rispetto al corpo. Alessandro controlla con il destro, sombrero sulla propria testa e volée a incrociare di sinistro verso il palo opposto.

Poche settimane prima della finale del campionato Primavera a Pistoia, Florenzi fa il suo esordio tra i professionisti, subentrando al quarantesimo del secondo tempo di una partita abbastanza particolare. È l’ultima di campionato della stagione 2010-2011 e l’avversario è la Sampdoria. Solo un anno prima i blucerchiati avevano fermato la fuga verso il titolo della Roma di Ranieri; quel giorno, a trecentosessantacinque lune di distanza, i doriani sprofondavano mestamente in B. Era l’ultima Roma dei Sensi, e al posto del Capitano, giusto quei cinque minuti prima del triplice fischio finale che servono su un piatto d’argento la standing ovation, entra Alessandro Florenzi.

«Alessa’, pensa se un giorno dovessi dare palla a Totti con i piedi, invece che con le mani...» Per ora gli dà il cambio. Per il resto, ci sarà tempo. «È stata un’emozione indescrivibile», dirà Alessandro di quella serata. «Francesco non mi ha detto niente. È bastato uno sguardo, è come se avesse detto mille parole: un suo sorriso è bastato a farmi stare tranquillo.»

Per Florenzi sembrano spalancarsi le porte della prima squadra. La stagione 2011-2012 è quella di una nuova proprietà, un nuovo DS, Sabatini, un nuovo direttore generale, Baldini, un nuovo tecnico: Luis Enrique. Un nuovo progetto, che presto nella piazza diventerà, con una storpiatura dialettale foriera d’ironia e orgogliosa rivendicazione “Er Proggetto”. Florenzi non ne farà parte: si trasferirà a Crotone in prestito con diritto di riscatto per farsi, come si dice, le ossa nella serie cadetta.

L’esordio di Florenzi con il Crotone, 14 Agosto 2011

L’approccio con la nuova realtà è entusiasmante e complicatissima a un tempo. Florenzi accetta Crotone con la diligenza del professionista, anche se avrebbe di gran lunga preferito Pescara, dove nelle inospitali terre d’Abruzzo sta rinascendo, in tutto il suo fastoso splendore, Zemanlandia. Esordisce all’Enzo Scida, a due passi dal mare, un giorno prima di Ferragosto. L’avversario è il Sorrento. I tifosi intonano E il cielo è sempre più blu, il mister Menichini gli affida una maglia da titolare. Come terzino destro.

«Il mister aveva bisogno di un uomo là vista l’indisponibilità di Correia e Ristovski. Mi chiede “te la senti?” Avrei giocato anche in porta, io...» Alessandro è felice, l’approccio è quello di chi si rimbocca le maniche prima di iniziare un trasloco. «A fine agosto la mia famiglia era tutta giù; poi da sette che eravamo improvvisamente mi ritrovo da solo in casa; non conoscevo il posto, la città, i primi giorni ho fatto fatica a dormire senza i miei e senza Ilenia. Ma poi Crotone mi ha abbracciato e accolto al meglio.» E Florenzi ripaga l’affetto con le prestazioni sul campo: alla prima uscita in campionato, contro il Livorno, segna il gol del momentaneo vantaggio. Due giorni dopo Ciro Ferrara lo convoca per l’Under 21.

Florenzi sente che quella di Crotone può essere l’opportunità giusta per mettersi in mostra e impressionare la casa madre. L’ambiente crotonese ne fomenta le ambizioni. «Una delle esperienze più belle della mia vita. C’è gente buona, disponibile, di cuore, aperta. I ragazzi del posto hanno davvero rappresentato la mia seconda casa.» Alessandro va agli allenamenti con due ore d’anticipo rispetto ai compagni, lavora sodo. Coi rossoblù segna undici reti: sono tante undici reti per uno che come lui gioca basso a centrocampo (la stagione precedente, quella dello scudetto Primavera, ne aveva messe a segno quindici: ma il campionato Primavera non è la serie cadetta). In un’intervista a metà campionato gli chiedono: «Qual è veramente il tuo ruolo?» Lui nicchia. «Centrocampista centrale, anche se l’inserimento è la mia attitudine.» Pochi secondi dopo ritratta: «Diciamo che alla fine sono un centrocampista offensivo, ecco. Il mio peggior difetto è la fase difensiva». E chiosa: «È che sono un ragazzo molto umile: anche terzino o ala, per me va bene, pur di giocare». Il 22 Maggio 2011, giusto un anno dopo aver esordito in Serie A, Florenzi viene premiato come miglior giovane della Serie B.

Un tributo a Florenzi targato KR

Delle undici reti per il Crotone, sei sono frutto dell’esatta fotocopia di due precisi tipi di azione: inserimento in area senza palla, colpo di testa, rete; oppure inserimento in area sulla sponda d’un compagno, tiro in diagonale a incrociare, rete. Le rimanenti cinque sono tre gran rasoiate da fuori area, altra sua caratteristica, e due vere perle, entrambe messe a segno a cavallo del suo ventesimo compleanno.

La prima: un calcio di punizione al 94° minuto (qua al minuto 3.33) che salva i suoi dalla sconfitta sul campo amico contro il Grosseto. È semplice azzardare il paragone. «Quante volte avrai visto Totti metterla sotto il sette in allenamento.» Alessandro è più pragmatico. «La soluzione del tiro diretto in porta era la sola praticabile. L’area era troppo intasata. Sono contento ne sia uscito fuori un bel gol.»

La seconda: contro l’AlbinoLeffe, in casa. Commentare c’è poco da commentare. In tempi meno barbini, quando sulla pellicola rimanevano impressi solo i fotogrammi davvero meritevoli, ed esisteva una scintillante forma arcaica come cineteca, era lì che avremmo conservato quella rete. Non nella Rete. In tribuna quel giorno c’erano sia suo fratello che papà Luigi. È in suo onore che per la prima volta nella sua carriera Alessandro Florenzi esultata portandosi l’indice nello spazio tra le narici e il labbro superiore, là dove stanno i baffi. I baffi di suo papà.

Minuto 2.16. Come dal barbiere: Sforbiciata e Baffi

La stagione successiva, Florenzi è maturo per tornare a Roma. Nelle foto in ritiro sembra un tifoso che non je pare vero. Oltre a essere anche lui romano e romanista, con Totti e De Rossi condivide il fatto che le loro esultanze riguardano la paternità, anche se da prospettive diverse. Di solito i calciatori ci sembrano più grandi di noi, e in effetti diventano padri prima di noi (io lo sono da due mesi e ho trentadue anni, De Rossi ad esempio lo è diventato a ventidue). Il rapporto che Totti e De Rossi hanno con qualcosa di così virile e docile al contempo come la paternità si manifesta in un’esultanza figlia del loro essere padri. Il dito portato alle labbra come un ciucciotto di Totti. I parastinchi di DDR con le foto della figlia stampigliati sopra e il bacio alla scritta sull’avambraccio: “Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia”(la figlia si chiama Gaia, ma la frase è una formula matrimoniale latina che si può tradurre con Dove tu sarai, io sarò). Florenzi invece ha la faccia da ragazzino e la sua esultanza, mimare i baffi del padre, è palesemente da figlio (forse l’unica che io abbia mai visto).

He Got Game dei Public Enemy è al primo posto della playlist di Florenzi. I primi versi della canzone sono: “If man is the father / The son is the center of the earth”

Nell’estate del 2012 “Er Proggetto” è già naufragato e sulla panchina giallorossa torna, accolto come un guru dai media e dai tifosi, Zdeněk Zeman. Durante la sua permanenza a Crotone Florenzi deve aver pensato ogni giorno al ritorno a Roma. «È stato Sabatini a riportarmi a casa, perché Zeman voleva avermi in ritiro con sé. Mi conosceva dopo l’esperienza di entrambi in B: una grande emozione poter lavorare con Totti, De Rossi, Pjanić, Osvaldo. Ho provato da subito a imitarli, ma spesso sbagliavo...» Florenzi torna a vestire la maglia giallorossa con un contratto da trentamila euro l’anno, quello da settore giovanile. Prende la maglia numero 48 perché la 24 ce l’ha Stekelenburg. Il ventiquattro è il giorno in cui s’è fidanzato con Ilenia. Nella visione dei marketing managers lui e Romagnoli sono i volti giusti per rappresentare negli States una Roma Y&C (“Young & Cool”). Che sappia parlare ai giovani. Sotto il profilo più squisitamente tecnico, Alessandro sembra davvero perfetto per gli schemi zemaniani. «Il mister è una persona di poche parole, che quando parla però sa essere molto chiaro. E poi il suo tipo di gioco mi diverte e esalta le mie caratteristiche.» All’esordio in campionato, contro il Catania, Florenzi sbaglia qualche pallone. Il padre, in tribuna, si arrabbia e inveisce. Alberto De Rossi, ignorando che quell’uomo baffuto sia il padre di Florenzi, ci comincia a litigare prendendo le difese del figlio. È una storia che circola anche in altre versioni, sempre col padre nella parte di chi s’arrabbia e qualcuno che gli difende il figlio. In una versione particolarmente colorita il padre chiude lo scambio di battute con un «Aò je le potrò dì le parolacce a mi’ fijo?».

Alla seconda di campionato la Roma è impegnata sul campo di San Siro, contro l’Inter. Adesso immaginate che una voce fuori campo prenda a declamare una favola per raccontarvi cosa è accaduto al quattordicesimo minuto del primo tempo, che inizia come tutte le favole con “C’era una volta”.

C’era una volta un capitano, indossava la maglia numero 10 da vent’anni, si chiamava Francesco Totti. S’allargava sulla fascia sinistra, controllava il pallone, con una carezza dell’interno del piede destro lanciava un lob al centro dell’area dove pronto ad accoglierlo, con la fronte briosa, c’era un ragazzo di vent’anni, Alessandro Florenzi da Vitinia (terzo nella linea di discendenza della stirpe romano-romanista dopo Re Francesco e DDR: Capitano, Capitan Futuro e Capitan Quel-che-c’è-dopo-il-futuro), che si faceva trovar pronto con la personalità dei predestinati e la metteva alle spalle del portiere.

https://www.dailymotion.com/video/xt82dm_inter-as-roma-florenzi-goal_sport

“Alessa’, pensa se un giorno dovessi dare palla a Totti con i piedi, invece che con le mani.”

A pa’, pensa se un giorno la palla coi piedi, invece, la dà Francesco a me.

Dopo Milano la Roma vince poco, e convince altrettanto. Perde alcune partite in venti minuti; altre in rimonta dopo esser stata in vantaggio di due reti. So zemanian. A Novembre, Florenzi gioca il suo primo derby da grande: una sconfitta dopo esser passati in testa resa meno amara solo da sessanta minuti giocati da gran combattente. Quando viene sostituito da Marquinho è sfinito, come spesso gli accade al momento dell’avvicendamento. Dirà: «Non riesco a gestire le mie forze. È un problema di esperienza, immaginate un ragazzo catapultato in una dimensione così grande e sconosciuta. Entri in campo e pensi: “mi butto, vado”. Poi però finisce la benzina. Ci sto lavorando e da un paio di partite va meglio. Preferisco fare quattordici scatti invece che quindici, e quello che rimane me lo tengo per la fine». (C’è un video in cui si capisce bene di cosa parliamo quando parliamo di applicazione indefessa e capacità di autogestione della fatica. È una scena tratta da una partita ai tempi delle giovanili contro la Fiorentina. Alessandro cade a terra, stremato dai crampi. Ma poi subito si rialza. «Anvedi come corre er capitano», dice qualcuno in tribuna. (Qui invece c’è una canzone che è stata dedicata proprio alla sua caparbietà e alla capacità aerobica.) Tre giorni dopo il derby, Prandelli lo convoca in Nazionale. Esordisce contro la Francia.

«Vediamo che succede, io sto qua. L’anno scorso ho fatto bene, anche adesso sto facendo bene. Io continuo a lavorare al meglio che posso, poi si vedrà», dice Florenzi al suo amico Emanuele, l’attore. I compagni gli sono vicini. I procuratori Lucci e Lelli anche. Ma rientrano nella categoria degli amici. «Sono stati bravi a farmi tenere i piedi per terra. Gli devo tanto, davvero, perché sono stati capaci di usare bastone e carota, complimenti e rimproveri. Sempre al momento giusto.»

Zemanlandia nel frattempo somiglia sempre più a Zora de Le Città Invisibili di Calvino. A febbraio finisce di languire, si disfa, scompare. Sulla panchina subentra Aurelio Andreazzoli, vice di Spalletti nella Roma più spettacolare e meglio attrezzata degli ultimi anni. La preferita di quasi tutti i romanisti. E anche di Florenzi. Battendo l’Inter in semifinale – all’andata, a San Siro, ancora una sua rete – la Roma arriva a contendersi la Coppa Italia contro la Lazio. A Roma. Partita secca. Il 26 Maggio. Pochi giorni dopo la qualificazione un giornalista chiede a Florenzi: «Il derby è già un chiodo fisso?» «Se inizio a pensarci adesso, al 26 Maggio, ci arrivo logorato.» Florenzi viene scelto per interpretare, insieme a Ederson, uno spot intitolato “Il derby è di chi lo ama”. Un promo dai toni e dagli intenti pacificatori. «Mica lo so quanto riuscirà ad avanzare nel calcio dei palleggi per i promo di Sky», avevo scritto. Non ci sono i palleggi e non è Sky. Nondimeno, è un promo. La partita ha avuto gli esiti che tutti sappiamo. Nel marasma della contestazione successiva, dei cori a Trigoria, delle minacce, Florenzi ha tenuto un profilo basso e umile. Mentre il suo amico Osvaldo polemizzava su Twitter con Andreazzoli lui, sguardo basso anche nell’anima, son sicuro pensasse ai tifosi, dei quali poco tempo prima aveva detto: «Hanno diritto di contestarci. C’è gente che si toglie il pane dai denti per venirci a vedere». E da ragazzo intelligente ha evitato di usare i social network («Li uso ma devo stare attento. Appena scrivo una cosa appare su tutti i siti»), fino al 9 giugno, quando è tornato a twittare. Ma per stare vicino alla sua Ilenia, alle prese con l’esame di maturità.

Il fascino delle telecronache brasiliane applicato a “Florensi”

In quei giorni è in Israele con l’Under 21 a disputare gli Europei. Contro i padroni di casa segna anche una rete, quella del 4 a 0 (minuto 1.15: sponda, inserimento, diagonale. Tac). In semifinale, contro l’Olanda del suo futuro compagno di squadra Strootman, a un certo punto si scontra sulla fascia con Ola John. Inavvertitamente lo fa cadere. Gli tende la mano per scusarsi e rappacificarsi. John, di tutta risposta, lo manda a quel paese. Florenzi lo tira per una manica, poi le riprese televisive staccano, non si capisce bene cosa succeda. Quando ritornano sui due, c’è Florenzi che mostra all’avversario la scritta sulla manica della maglia: Respect. In finale l’Italia verrà sconfitta, come al solito, dalla Spagna.

Nella stagione in corso Florenzi è tornato alle origini, o quasi. Rudi Garcia ha ritagliato per lui un ruolo ad hoc da incursore di destra nel tridente d’attacco. Esterno alto, con compiti tattici ben precisi, semplici ma di gran responsabilità: cercare la profondità il più possibile; accentrarsi per dar man forte ai tre in linea mediana; creare spazi per gli inserimenti di Maicon. Di fatto è il capocannoniere della squadra, con quattro reti. L’ultimo centro l’ha messo a segno a Milano contro l’Inter, il secondo del match, subito dopo e subito prima le due stoccate di Capitan Totti, con un’azione delle sue. E per esultare: ha portato il dito indice sotto il naso e sopra le labbra, là dove stanno i baffi, i baffi di papà Luigi. Ma la rete più importante dell’anno, finora, Florenzi l’ha messa a segno a Napoli contro l’Armenia, nell’ultimo impegno degli Azzurri nelle Qualificazioni ai Mondiali del prossimo giugno in Brasile. «Rio de Janeiro? È lontano, sono realista, tengo i piedi per terra. È un sogno, è chiaro. È il sogno di tutti, chiaramente è anche il mio.» Chissà che quel giocatore, buono neppure per i palleggi dei promo di Sky, non me lo ritrovi in Brasile, quest’estate, a giocarsi un posto da titolare. E un giorno, quando l’eterno Totti lascerà la fascia a De Rossi, e DDR – semmai riuscirà a fare in tempo a indossarla – a sua volta dovrà declinare quel suo essere Capitan Futuro al passato, chissà che a raccogliere l’eredità non ci sia proprio un altro romano e romanista come Alessandro Florenzi da Vitinia.

Capitanare [ca-pi-ta-‘na-re.] (v. trans.):

(pres.) Càpitano, (fut.) Capitanerò. Dopo il futuro: Florenzi

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