Re Cecconi era un centrocampista della Lazio e della Nazionale degli anni ’70. La sera del 18 gennaio del 1977 è entrato in una gioielleria del quartiere Collina Fleming disarmato e - si dice - ha finto uno una rapina. Il gioielliere Bruno Tabocchini, nel clima di psicosi degli anni di piombo, gli spara prima che riesca a rendersi conto della situazione. Re Cecconi muore poco dopo aver mormorato, accasciandosi, “era solo uno scherzo”. La sua è una delle storie più assurde e paradigmatiche dell’Italia degli anni ’70 e non è priva di risvolti poco chiari su cui hanno proliferato versione alternative tra loro. Nel libro “Aveva un volto bianco e tirato” di Guy Chiappaventi, uscito pochi giorni fa su Edizioni Tunué per la collana Traguardi, la sua storia è raccontata e rianalizzata con una grande attenzione alla dimensione sociale e storica entro cui è collocata. Per gentile concessione dell’editore, ne pubblichiamo un estratto che consideriamo particolarmente significativo. Potete acquistare il libro anche su Amazon a questo indirizzo, o sullo store della casa editrice. Il libro verrà presentato per la prima volta sabato 10 dicembre alle 16, in Sala Corallo (Palazzo dei Congressi - Roma, Eur) in occasione di Più libri più liberi. Interverranno gli ex calciatori della Lazio Felice Pulici, Sergio Petrelli, Giancarlo Oddi e Antonio Lopez, oltre a Massimo Maestrelli, Davide Steccanella e Andrea Molino.
Buona lettura!
Alla Lazio in quegli anni hanno quasi tutti la pistola. Si dice che il primo a portarla sia stato il terzino Sergio Petrelli, che già da ragazzino alla Juventus chiamavano «Jesse», come il ban-dito Jesse James. Ha una calibro 38 special che ha comprato quando ancora giocava alla Roma, all’inizio degli anni Settanta. Gli pende sempre sotto l’ascella coperta dal giacchetto di pelle.
Se ci sono problemi, Petrelli (alla Lazio, il suo soprannome da spaghetti-western è «Pedro») tira giù la chiusura-lampo del giubbino. – Lo sai come si chiama questa? – dice sotto i Ray-Ban e i guai evaporano.
Petrelli ha fatto moda.Per passare il tempo durante i ritiri all’hotel Americana, al tredicesimo chilometro della via Aurelia, i calciatori della Lazio hanno costruito un poligono di tiro dinamico. Tirano a bottiglie e barattoli, cambiando posizione e spostandosi lungo un percorso.Non si spara soltanto sulle cose.Ci sono riti di iniziazione per i nuovi arrivati: una pistolettata in mezzo alle gambe mentre leggono il giornale sul letto durante la siesta.
– Vediamo se è da Lazio, – è successo al centravanti di riserva La Rosa.
O una gragnola di colpi mentre vanno a raccogliere il pallone finito dentro la scarpata.
– Corri, Badiani, corri, – dicono al compagno sotto una pioggia di fuoco.
Prima della partita, la domenica, l’autista del pullman, Alfredo Recchia, che si rifiuta di fare un giro di corsa intorno al suo mezzo, viene convinto a muoversi con una scarica di proiettili.
– Corri, Recchia, corri. La tirata tra le gambe l’ha avuta anche il massaggiatore, Gigi Trippanera.
– Ci vediamo sul lettino dei massaggi!
Ogni tanto uno dei calciatori si va a mettere dietro un muro, con la testa a filo dell’ultimo mattone. Chiede ai compagni di fare fuoco per sentire il fischio dei proiettili proprio sopra le orecchie.
– Pronti? Fuoco! La luce delle stanze, la sera, viene spenta con una botta di revolver come nei film western. Si dice che il presidente della Lazio, Umberto Lenzini, abbia una voce di spesa aperta con l’hotel per il rimborso di arredi e lampioni spaccati a colpi di arma da fuoco.
– Spegni la luce.
– No, alzati tu.
– Non mi va.
– Aspetta che sparo. Bum.
– Buonanotte. Domattina quando ti alzi, fai attenzione ai vetri.
Come Bud Spencer e Terence Hill.
L’Americana è un arsenale. Smith & Wesson calibro 7,65, 38 special, 44 magnum, Winchester, mitra M16, fucili da caccia, anche all’elefante. Il gioco delle pistole dura fino a quando un pomeriggio in ritiro arrivano i carabinieri. Un maresciallo tiene in mano i frammenti di un proiettile e chiede il porto d’armi ai calciatori. La pallottola ha attraversato la via Aurelia ed è entrata nella stanza di un centro specializzato nella cura di giovani sordomuti. Si è infilata nell’armadio di un ragazzo. C’è mancato poco che ci scappasse il morto. Troppe armi girano in quegli anni di piombo e giustizia fai da te.
Nel 1960 i possessori di porto d’armi in tutta Italia erano sui 25.000, sono diventati 98.921 nel 1974. Nel 1976 le richieste di licenza di porto d’armi sono aumentate del trentacinque per cento, le questure ne hanno rilasciate 172.000, 15.000 a Roma, con un aumento del venticinque per cento sull’anno prima.
«Noi sconsigliamo ai privati di armarsi e quando possiamo evitiamo di fare le autorizzazioni. Quando però la richiesta viene giustificata con motivi fondati, non possiamo negare il permesso. Né a dissuadere chi si sente in pericolo, come appunto gli orefici, serve il principio etico che dovrebbe far prevalere la difesa pubblica su quella privata. C’è gente che vuole armarsi per forza, che non vuole capire che la difesa pubblica è più equilibrata e più ponderata nei suoi interventi, anche se in qualche caso non è ancora proporzionata alle reali necessità».
(Domenico Migliorini, questore di Roma, al Corriere della Sera, 20 gennaio 1977).
«Cercare di sventare il far west», dice la questura. Ma intanto le tasse per il rilascio della licenza sono state dimezzate da 20.000 lire a 10.700 lire. Si comprano, come confermano gli armieri, soprattutto armi a canna corta: nel 1975 in Italia ne sono state prodotte 315.547. Gli acquirenti principalmente sono i commercianti: orefici, pellicciai, benzinai, tabaccai, titolari di boutique o di grandi magazzini presi di mira dai rapinatori.
A Tor di Quinto vanno al negozio con la pistola, titola Paese Sera, il 20 gennaio, un reportage sui commercianti della zona in cui Re Cecconi è stato ucciso.
«Molti, un tabaccaio, il proprietario di un bar, dicono, con un po’ di timidezza, che la pistola ce l’hanno anche loro. In Italia ormai i privati armati sono la metà dell’intero corpo dei carabinieri, l’arma più venduta è la Smith & Wesson, ma ora va di moda anche la 44 Magnum, quella di Taxi driver. Il tabaccaio della vicina via di Villa Severini racconta: "L’estate scorsa una sera sono dovuto tornare a casa con un milione che non avevo potuto versare in banca. Mi sono infilato la pistola nella cintura e ho cominciato a camminare guardandomi intorno"».
Poi c’è la categoria degli imprenditori che girano armati perché hanno paura dei sequestri di persona. È il mese di aprile 1977, quando Camilla Cederna e il fotografo Alberto Roveri vanno ad Arcore per la prima intervista che sta per rilasciare un industriale emergente nella Milano che non è ancora da bere. Quell’«uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Men-tre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi», da l’Espresso, 4 aprile 1977.
Alla giornalista Berlusconi ha detto di odiare le fotografie «anche per via dei rapimenti». Sulla scrivania alle sue spalle quel «milanese che vale miliardi» tiene poggiata una pistola. Ne ha due, una la consegna sempre all’autista prima di uscire. Ma per uno strano scherzo la foto, presa da lontano con la pistola molto sullo sfondo, viene scartata dal fotografo. Uscirà solo nel 2010 quando Roveri, trasferendo il suo archivio in digitale, noterà la presenza dell’arma in piccolo. È una 357 Magnum, la pistola più amata da Clint Eastwood, l’ispettore Callaghan, capace con la sua cartuccia di per-forare da quattro a dodici tavole di abete di venticinque millimetri: «Questa è una 44 Magnum che spara proiettili esplosivi, se becchi uno con questa, non se ne parla neanche di impronte».
«Purtroppo è difficile convincere gente che ha subito una, due o tre rapine a non cercare in una pistola almeno l’illusione di potersi opporre a chi minaccia la sua vita e il suo lavoro. Molti di noi hanno visto andare in fumo in pochi minuti il lavoro di anni e anni e in qualche caso di diverse gene-razioni. A queste persone non si può consigliare la prudenza ed è impossibile convincerle che avere una pistola in tasca è, in fin dei conti, un altro pericolo che si aggiunge ai tanti che già siamo costretti a correre. Purtroppo al punto in cui siamo non credo che la situazione possa migliorare. La paura è la peggiore dei consiglieri». (così Luigi Mercatili, vicepresidente dell’Associazione romana orafi, al Corriere della Sera, 20 gennaio 1977).
Re Cecconi la sera del 19 gennaio è disarmato quando con i suoi amici gira per i negozi della Collina Fleming. Più tardi dovrebbe arrivare anche il compagno di squadra più caro, Gigi Martini, che è praticamente il suo gemello e non solo in campo. Hanno fatto insieme il corso da paracadutista e sono i leader dell’altro spogliatoio, gli antagonisti di Chinaglia e Wilson, i capi della Lazio che ha vinto lo scudetto nel 1974.
«Mi sono tolto la soddisfazione di aver detto chiaro quello che pensavo del comportamento di Chinaglia. Quando si è legati a una società come lo sono io alla Lazio, come lo sono Wilson, Martini e tanti altri miei compagni, non si può agire in quella maniera. Io con Chinaglia ci ho litigato parecchio e non sono rammaricato. Alla fine si è visto chi aveva ragione», da Il Monello, 30 novembre 1976.
Non è un segreto che neanche nell’anno della vittoria del campionato, Chinaglia il venerdì a casa di Tommaso Maestrelli cerchi ogni volta di convincere l’allenatore a non far giocare quei due che proprio non sopporta, Cecco e Gigi che sono culo e camicia e si proteggono sempre, in campo e fuori. I due non riescono a digerire le manie di grandezza, da Re Sole, del centravanti, il fatto che Chinaglia abbia un salottino riservato sul pullman della squadra dove solo alcuni fedelissimi possono accedere e giocare a poker, che se la prenda spesso con i compagni più deboli o più giovani, che pretenda di decidere la formazione o il menu della cena in ritiro. Uno sbruffone.«Luciano diceva sempre che Chinaglia era un pistola ma che in campo serviva», racconta Piero, il fratello maggiore di Cecco. Un ganassa, come dicono dalle parti di Re Cecconi, che invece per carattere e origini è l’esatto contrario: un faticatore di poche parole e molti fatti.– Ma che pirla di uomini sono? – ha detto Re Cecconi una volta a Martini dopo l’ennesima discussione.– Ti stavo aspettando, – gli ha risposto Martini e così praticamente è nato il patto di ferro.
La squadra si è divisa in clan, le partitelle di allenamento a Tor di Quinto qualche volta sono più dure di quelle del campionato: nessuno vuole perdere e l’allenatore Maestrelli deve darsi da fare perché finisca in pareggio. Ci sono anche due spogliatoi e per gli uomini di Chinaglia è vietato entrare in quello degli altri e viceversa. Se succede, quello che accade dopo può essere molto pericoloso. Un pomeriggio il portiere Pulici si attarda sul campo per un allenamento supplementare, sotto la pioggia. Quando rientra nel suo spogliatoio, vede una sagoma che non gli è congeniale: un uomo che non dovrebbe essere lì e che si sta asciugando i capelli con il phon. È Gigi Martini, l’arcinemico, il capo degli altri, quelli dell’opposta fazione. Pulici da dietro le spalle di Martini stacca la spina dell’asciugacapelli. Martini si volta, resta immobile e lo fissa. Vede una bottiglia di acqua minerale su una panca, la prende e la spacca su un muro. Poi brandisce il collo di bottiglia come un’arma bianca: – Cosa volevi fare?
Pulici indietreggia e lascia perdere.
Il 19 gennaio 1977 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti è in visita ufficiale a Bonn e incontra il cancelliere Helmut Schmidt. La Germania chiede e sostiene misure di austerità e deflazione per l’Italia in cambio dell’appoggio al Fondo moneta-rio internazionale che qualche mese più tardi concederà a Roma un prestito di cinquecentotrenta milioni di dollari. Il governo Andreotti è pronto a fare modifiche alla scala mobile, aumenta-re le tariffe dei trasporti pubblici, reintrodurre le targhe alterne la domenica, imporre un giorno di chiusura alle macellerie per ridurre i consumi di carne, tagliare l’illuminazione serale e notturna dei negozi.
Questo ultimo punto è un problema, visto il clima di allarme vissuto dai commercianti, specialmente nell’orario vicino alla chiusura.«Non mi risulta, infatti, che la Gran Bretagna, per ottenere il prestito internazionale più grosso della storia, abbia dovuto indossare il saio del penitente, decretare la chiusura anticipata dei negozi e dei locali pubblici, la “marcialonga” domenicale per gli automobilisti e far piombare le vie cittadine nell’oscurità, con tutte le conseguenze che già conoscemmo nell’inverno 1973-74, data di nascita reale, ma non ufficiale, dell’ora dello scippo facile e impunito», si legge in un editoriale su Stampa Sera in quei giorni.
Come adesso in via Francesco Saverio Nitti (economista e politico, 1868-1953). È una strada a senso unico che termina in via Flaminia vecchia, l’arteria che spacca in due il quartiere Fleming. Sono appena passate le diciannove e trenta. Il profumiere Giorgio Fraticcioli bussa sulla vetrina della gioielleria per la consegna dei flaconi che gli sono stati richiesti poco prima.«Ti porto uno spray buono, aspetta un poco, fammelo cercare», ha detto il profumiere all’altro commerciante. Fraticcioli è stato già due volte quel pomeriggio nella gioielleria. Deve comprare un regalo per una comunione. La prima volta ha scelto l’o-maggio, la seconda è tornato con la moglie per pagare: doveva anche aspettare che Tabocchini incidesse le iniziali sulla coppa d’argento. Ma ha dimenticato i flaconi di deodorante: «Accompagnatemi un attimo a fare questa consegna», ha detto ai calciatori. Sono ottanta-novanta metri di distanza tra i due negozi.Dietro Fraticcioli in fila indiana ci sono i due giocatori. Dentro, con Tabocchini, sua moglie che sta infilando una collana di perle, suo figlio Leonardo che studia nel retrobottega, il macellaio Mario Isidori che con i suoi due figli è andato a comprare un orologio da bimbo e sta anche prendendo un’ordinazione di carne dalla moglie dell’orafo. Già sei persone, con tre bambini. In un buco: tra il bancone e la porta a vetri ci sono due metri e dieci, poco di più, due metri e mezzo, da una parete all’altra.
«Il Fraticcioli urtò il vetro con le nocche, io feci segno di domandare se i due erano con lui. Il Fraticcioli mi fece un gesto vago che fu da me interpretato inizialmente come una risposta affermativa alla mia domanda. Apro. Mentre il profumiere viene verso il banco, noto uno dei due, quello biondo. Ha un volto particolarmente bianco e tirato. È una faccia sconosciuta ma dura, tesa, con qualcosa di non comune che polarizza la mia attenzione. Ha un’aria minacciosa con la mano destra nella tasca, sollevata verso l’alto», dall’esame al processo dell’imputato Bruno Tabocchini, Roma, 3 febbraio 1977.
Estratto da Aveva un volto bianco e tirato, Il caso Re Cecconi, di Guy Chiappaventi, Ed. Tunuè, 2016, collana Traguardi, 144 p.