Intro
Il 28 giugno 2006 va in scena al Madison Square Garden di New York City il primo Draft nella storia dell’NBA regolato dal nuovo Contratto Collettivo, che stabilisce nuovi criteri per ritenere un giocatore eleggibile. La nuova età minima consentita è di 19 anni, cui viene aggiunta l’ulteriore postilla che, se un giocatore non è un international player, può essere considerato eleggibile solo dopo un anno dal diploma della sua classe di liceo. Queste regole, contrariamente al pensiero comune, forzano i diciottenni a non andare nell’NBA direttamente dal liceo, ma allo stesso tempo non li forzano a frequentare il college. È l’NCAA, piuttosto, che viene costretta ad accettare decisioni altrui su cui non può influire, vedendo nascere il famigerato fenomeno degli “One&Done” (telefonare a Kentucky, interno“Coach Calipari”). Giocatori cioè molto forti che si sarebbero dichiarati eleggibili per il Draft usciti dal liceo, ma che con la “regola dei 19” scelgono di svernare un anno all’università (“un anno & tanti saluti”, potremmo tradurre).
Il 5 luglio 2009 Ed O’Bannon, ex ala e stella dell’università di UCLA tra il 1991 e il 1995, guarda sbigottito lo schermo della propria televisione. Davanti a lui, in un videogioco di pallacanestro sul campionato NCAA, la sua esatta copia con il numero 31 sul retro della canotta, il suo cognome scritto sopra, il cranio rasato e i lineamenti identici al suo volto ha appena segnato da tre punti con il suo classico tiro mancino. Ripresosi dallo stupore e dopo aver fatto fare 50 punti al suo avatar, Ed O’Bannon il giorno successivo trascinerà in tribunale l’NCAA, la Collegiate Licensing Company e l’Electronic Arts Sports, accusandole di aver sfruttato i suoi diritti d’immagine senza il suo consenso e soprattutto senza una ricompensa, e di aver violato le leggi sull’antitrust.
Il 27 marzo 2014, il giorno prima della semifinale del Regional contro Iowa State, Shabazz Napier, playmaker titolare e simbolo dell’università di Connecticut, in diretta nazionale afferma di aver avuto durante l’anno problemi di soldi e di “essere andato a letto affamato” più volte. Su esplicita domanda del reporter di Fox Sports, Shabazz risponde di non sentirsi come un “dipendente”, ma che di sicuro le cose dovranno cambiare considerati i soldi che la sua scuola e l’NCAA guadagnano vendendo magliette con il nome degli studenti-atleti.
L’intervista a Napier sull’andare a letto “affamato”.
Il 4 novembre 2016, un venerdì sera, sul canale Showtime va in onda il film-documentario prodotto da Ben Simmons (e famiglia) sul controverso, surreale, primo e unico anno di Simmons in NCAA a Louisiana State University. Per quelli un po’ meno attenti alle vicissitudini collegiali d’oltreoceano potrebbe sembrare notizia degna al massimo della trentesima pagina della Gazza, ma intanto negli Stati Uniti il contenuto di quel documentario e la frase di Simmons - «The NCAA is fucked up!» - riportano sotto i riflettori, anche a causa dell’enorme visibilità del protagonista, l’annosa e sanguinosa diatriba tra gli studenti-atleti e l’NCAA.
“One&Done”, (l’ovvio) titolo del documentario, girato tra l’ultimo anno di high school dell’australiano a Montverde Academy (Florida) e quello di LSU, ha un intento esplicito. Mostrare l’assurdità del sistema NCAA per giocatori talentuosi come la prima scelta assoluta del Draft 2016, denunciando l’ipocrisia del loro status di “dilettanti” (da “amateur”, amatore) al servizio di un’istituzione monopolistica dai ricavi miliardari.
Il trailer ufficiale di “One&Done”
Sul j’accuse televisivo di Ben - la cui immagine peraltro non è uscita immacolata - e sul seguente polverone sollevato che ha forzato il commissioner dell’NCAA Mark Emmert a una risposta ufficiale per prendere posizione, torneremo più tardi.
Gli ultimi tre episodi riportati sopra sono tra i più eclatanti tra quelli che negli anni hanno criticato o citato in giudizio l’operato dell’NCAA. Ma se siamo arrivati al 2017 in una situazione che rispecchia grossomodo quella della metà del ‘900 in quanto a regolamenti e concentrazione di potere, forse non tutto quello che Ben Simmons e compagnia contestano all’NCAA è da prendere come verità assoluta.
Verità relative
Rashomon, film giapponese del 1950 di Akira Kurosawa, è uno dei più grandi capolavori nella storia del cinema, e tratta di un brigante in tribunale accusato di aver abusato di una donna dopo averne ucciso il marito samurai. I quattro testimoni chiamati a raccontare il fatto narreranno però quattro “verità” differenti sull’incidente, rivelando sia l’umana debolezza nell’agire sempre per il proprio tornaconto personale sia la diversa percezione (in buona o cattiva fede) che ognuno ha avuto dell’accaduto, teoricamente uguale per tutti. Queste verità relative, e i divergenti punti di vista a corredo, fanno al caso nostro.
Gli attori coinvolti nella gigantesca messinscena dell’NCAA, tra l’organizzazione e le sue regole, il sistema giuridico federale, le Conference, le università, i coach, gli atleti e tutte quelle “interessanti” figure collaterali che hanno - ahiloro - resi ancor più celebri i Fab Five di Michigan, sono come i quattro testimoni del film di Kurosawa. Ognuno ha una sua versione, e persino all’interno degli stessi gruppi si trovano posizioni diametralmente opposte.
Oltre al logico fatto che tutti tendano a tirare l’acqua al loro mulino, è proprio l’esperienza, la formazione e la morale personale, soprattutto degli atleti, a fare la differenza verso una direzione piuttosto che l’altra. Abbiamo dunque optato - oltre al rozzo tentativo di scattare un’istantanea sullo stato dell’arte attuale di cui Vivian Maier pietosamente ci perdonerà - di chiedere ad alcuni personaggi direttamente coinvolti la loro opinione su quello che sta accadendo, contestualizzando le loro risposte nelle realtà collegiali in cui stanno vivendo o hanno vissuto la loro (straordinaria) avventura.
Federico Mussini a St.John’s University non ha trovato le condizioni e le attenzioni di Ben Simmons a LSU e, seppur possa apparire ovvio, già di per sé questo costituisce uno spartiacque di cui è obbligatorio tener conto. Oltre che con l’ex talento di Reggio Emilia abbiamo parlato anche con Luca Virgilio, assistant to the head coach sempre a St. John’s; Amedeo Della Valle, guardia di Reggio Emilia con un biennio recente a Ohio State University; Riccardo Fois, assistant coach a Gonzaga University; e Richard Hamilton, campione NCAA nel 1999 con l’università di Connecticut (oltre che campione NBA con i Detroit Pistons nel 2004). A loro abbiamo posto, tra le altre, le tre seguenti domande, ovvero - leggendo i media americani sul mondo NCAA ed osservando negli anni i coming out degli studenti-atleti - i quesiti che a nostro sindacabile giudizio più sembrano importare a tutte le parti coinvolte.
- L’NCAA deve pagare gli studenti-atleti o le borse di studio sono un buon compromesso?
- Gli studenti-atleti sono sfruttati oltre ogni ragionevole dubbio?
- Se il sistema non è equo, come dovrebbe essere ristrutturato?
Considerata l’impossibilità di un approccio distaccato e storico per una tematica completamente aperta e contemporanea, proveremo con il loro aiuto a rispondere a tutte e tre partendo comunque dal presupposto che, ad oggi, ci sono più cause in corso a riguardo e nessun tribunale statunitense è ancora riuscito a emettere una sentenza che abbia messo tutti d’accordo.
Il sistema redistributivo dell’NCAA
Come molti sapranno, l’NCAA è l’ente che organizza i campionati sportivi tra gli atenei statunitensi che vi aderiscono, che ammontano a più di 1.200. Essi sono raggruppati per Conference, dei gironi per area geografica cui è delegata parte della gestione dei campionati e che generano dei ricavi indipendenti da quelli NCAA. Inoltre esistono tre livelli competitivi, le cosiddette Division: la grande differenza tra gli atenei di Division I e quelli di Division II e III è che solo i primi garantiscono borse di studio sportive complete (“full ride scholarships”) alla maggior parte dei propri studenti-atleti.
Quando gli studenti-atleti o i media parlano di “sfruttamento”, lo fanno per la maggior parte con in testa le mirabolanti cifre che ogni anno e da ormai tre decenni stanno sempre più piovendo nelle tasche dell’NCAA. Come ci rivela Della Valle: «Tra i miei compagni di squadra e credo un po' ovunque i giocatori si sentivano un po' sfruttati, e pensavamo di meritare un qualche tipo di compenso ulteriore. Ora però so che alcune regole, tipo quella sui pasti, stanno iniziando a cambiare».
Le accuse però arrivano quasi esclusivamente dai giocatori di pallacanestro degli atenei di Division I, e per un semplice motivo: l’84% dei ricavi totali dell’NCAA è legato all’accordo per la cessione dei diritti televisivi del torneo di pallacanestro maschile ai colossi di broadcasting e televisione, Turner Sports e CBS Sports. 19,6 miliardi di dollari (sì, diciannove virgola sei miliardi…) tra il 2010 e il 2032, cifra finale dopo la firma del rinnovo per altri 8 anni, valevole 8,8 miliardi di dollari a partire dal 2024.
Spesso negli anni, per ignoranza o mala fede, questi numeri sono stati utilizzati in modo strumentale per guidare la crociata degli studenti-atleti - ritenuti la principale ragione di tale successo economico -, portando l’organizzazione a specificare ovvietà come la differenza tra quella cifra e quella del (molto più basso) ricavo medio annuo, che per il 2014-2015 è stato di 920 milioni di dollari.
Per capire dove finiscano tutti questi soldi e quanto siano legittime le denunce degli studenti-atleti, vale la pena rileggere sui manuali ufficiali che sono stati consegnati a tutti i 480mila (circa) giocatori delle tre Division per la stagione 2016-2017 alcuni dei principi fondamentali su cui è fondata l’NCAA e la sua gestione.
2.9 The Principle of Amateurism
Gli student-athletes sono considerati “dilettanti” (“amateurism status”), e la loro partecipazione dovrebbe essere primariamente motivata dall’educazione, e dai benefici fisici, mentali e sociali da essa derivati. La partecipazione dello studente nelle attività sportive è uno svago (“avocation” nell’originale, ndr), e gli studenti-atleti devono essere protetti dallo sfruttamento di entità professionistiche e commerciali.
Traducendo in linguaggio più semplice: uno studente-atleta, dal momento della firma della Lettera d’Intenti (NLI) con il proprio college, assume consapevolmente lo stato di“dilettante”, con tutto ciò che questo comporta in termini di rinunce economiche (gli atleti non possono accettare né doni né pagamenti, dallo snack alla Porsche). Con un esempio concreto, Ben Simmons era al corrente sia del suo status di “amateur” alla firma con LSU sia dei ricavi della SEC, la sua conference, grazie alla pallacanestro e al football, ma non c’è traccia di sue accuse durante l’anno prima dell’uscita del documentario, arrivato solo dopo il termine della sua esperienza collegiale: «Andare al college è comunque e sempre una scelta, mai forzata come spesso si sente invece dire in giro, perchè la regola dei 19 anni è dell’NBA, non dell’NCAA, e sai dal principio cosa firmi» ribatte Riccardo Fois, centrando uno dei punti maggiormente discutibili sulla posizione degli studenti-atleti. A lui si accoda Luca Virgilio: «Se ti servono i soldi, non fai il college. Vai in Cina come Emmanuel Mudiay. La ragione per cui i liceali scelgono comunque il college è per l’incredibile circuito NCAA che ti dà il massimo dell'esposizione grazie alle tv 24/7 e alla possibilità di essere seguito quotidianamente dagli scout NBA».
Inoltre è comodo, aggiungiamo noi, piuttosto che andare dall’altra parte del mondo senza la famiglia, a 18 anni, in paesi dove la prima lingua non è l’inglese e non sei visto come un semidio. Poi l’esperienza del campus è comunque memorabile e il tipo di preparazione, soprattutto fisico-atletica, è perfetta per migliorarsi in attesa del Draft. Tutte cose che non sembrano però essere considerate dagli studenti-atleti sul piede di guerra: lo stesso Simmons afferma all’inizio del suo film di dover «andare in America per poter sviluppare al meglio il mio potenziale», ammettendo un po’ ingenuamente che dall’NCAA, in “cambio”, non avrebbe ricevuto solo una borsa di studio e l’opportunità di un’educazione superiore (se il soggetto è interessato…).
2.13 The Principle Governing Financial Aid
Uno studente-atleta può ricevere un aiuto finanziario amministrato dall’università senza violare il principio di “amateurism” (le borse di studio, ndr), all’unica condizione che l’importo non superi il costo massimo autorizzato dall’Associazione; qualsiasi altro tipo di aiuto finanziario è proibito, salvo specifica autorizzazione da parte dell’Associazione
Gli atenei di Division I, come ci dice Luca Virgilio, «hanno a disposizione 13 borse di studio a stagione per la squadra di pallacanestro. Sono borse di studio che variano tra i 45mila e i 55mila dollari l’anno, e coprono le spese basilari di un atleta: i trasporti, la retta annuale, il vitto, l’alloggio e il materiale didattico». Un compenso che non sempre può bastare però, come afferma Amedeo Della Valle parlando della sua esperienza con i Buckeyes: «Al primo anno sei obbligato a stare nel dormitorio del campus. Bello eh, ma dal secondo anno io e la maggior parte dei miei compagni di squadra abbiamo scelto di vivere off-campus. E in quel caso i 1.000 dollari di “stipend” mensile dell’università non bastavano: ne ho dovuti mettere di miei».
La scelta personale, anche in questo caso, gioca un ruolo cruciale, espandendo a dismisura le opzioni di un giocatore e quindi le realtà esistenti: le affermazioni di Napier sull’andare a letto affamati forse non dovrebbero essere prese alla lettera, considerato che ogni studente-atleta aveva diritto a tre pasti al giorno (dal 2014 i pasti sono illimitati: sembra una notizia buffa ma “the unlimited meals plan” è una grossa news per l’NCAA) e spesso ad uno “stipend” mensile come aiuto economico. Mussini su questo argomento ha dimostrato scetticismo: la sua realtà è diversa da quella di UCONN, e «io personalmente mi trovo benissimo a St.John’s: non mi hanno mai fatto mancare nulla e tutti i miei compagni di classe durante i corsi di Sports Management cui sono iscritto mi guardano come un privilegiato». Viene peraltro difficile pensare che la stella della squadra che poi sarebbe diventata campione NCAA fosse lasciata alla mercè del suo stomaco, e Virgilio aggiunge: «Noi e i nostri giocatori che giochiamo nella Big East siamo trattati benissimo: abbiamo voli privati, hotel a 5 stelle, una diaria, tre pasti al giorno… Forse quella di Napier è stata una provocazione rivolta a un qualche assistente o all’NCAA stessa».
2.10 The Principle of Competitive Equity
La struttura e i programmi dell’Associazione e le attività dei suoi membri devono promuovere l’equità competitiva per assicurare che a nessuno dei singoli studenti-atleti e delle istituzioni sia impedito in modo ingiusto il raggiungimento di quei benefici relativi alla partecipazione nei tornei universitari.
Significa che l’NCAA, in quanto legalmente riconosciuta come organizzazione non-profit, ha come principio basilare e obbligato l’equità del sistema, e su questo principio basa tutta la propria articolata redistribuzione dei ricavi. Come dice Fois: «È un principio che applicano a tutto. Ad esempio, se noi viaggiamo con il charter privato, allora anche la squadra femminile deve viaggiare con il charter privato, e via dicendo». A favore dell’NCAA è doveroso ricordare quanto assente sia questo lato di “equity” e “revenues sharing” nei media e nelle interviste ai giocatori rispetto alle cifre dei contratti tv, probabilmente perchè renderebbero un po’ più discutibile l’accusa di inequità e ipocrisia di un sistema che in realtà ha i suoi esatti contrari come principi fondativi della propria anima.
Nel 2015, anno di maggior successo economico fino ad oggi, di quei 920 milioni l’NCAA redistribuirà alle tre Division per la stagione 2016-2017 l’86%, e agli atenei e Conference di Division I il 72%, ovvero 659,6 milioni di dollari da dividere “pesando” la percentuale sul numero di borse di studio, gli ultimi sei anni di risultati sportivi e il numero di squadre per ateneo. Ciò significa - considerato il numero di colleges e universities di Division I, ovvero 346 - poco meno di 2 milioni di dollari in media per scuola.
Non solo. Andando più in profondità nel sistema (parzialmente) virtuoso dell’NCAA, il principio di equità redistributiva permette di finanziare quegli sport definiti come “non-revenue sports”, ovvero che non generano ricavi. Se l’NCAA seguisse le logiche proposte dai giocatori di pallacanestro “noi ti facciamo guadagnare, a noi devi quei soldi” quegli sport, senza il “fratello maggiore” pallacanestro, non potrebbero semplicemente esistere, impedendo ai talenti di discipline meno “popolari” di ricevere le stesse opportunità in termini di borse di studio sportive.
All’inizio della stagione 2016-17, su 90 campionati organizzati dall’NCAA per 24 diversi tipi di sport, solo cinque (pallacanestro maschile, hockey maschile, lacrosse maschile, wrestling e baseball) genereranno perlomeno i ricavi necessari per il loro mantenimento. Il college football di Division I non costituisce invece una fonte di ricavo ed è gestito in modo indipendente, situazione non del tutto estranea alle problematiche di cui stiamo discutendo e che vedremo a breve.
Questo ci porta infine all’altra grande fonte di guadagno (e di problemi...) del sistema collegiale, ovvero le Conference. Se infatti l’NCAA riceve i soldi dei diritti televisivi nazionali, sia le Conference che le singole scuole possono firmare contratti televisivi locali e di merchandising che si aggiungono alle tasse degli studenti, alle royalties e ai contributi governativi nel loro paniere dei ricavi. La Big Ten Conference nel 2006 annunciò un progetto ventennale con Fox Sports per la creazione di un suo canale televisivo, il “Big Ten Network”, che da allora ha incrementato sensibilmente i profitti della Conference e di conseguenza dei suoi membri. Accordi simili sono stati siglati negli anni successivi anche dalle altre “sorelle”, le cosiddette “Power Five” (Big-12, SEC, B1G, Pac-12, ACC).
È a livello di Conference e di singole università che quindi si verificherebbero le maggiori situazioni di inequità, tra sfruttamento dell’immagine degli atleti e redistribuzione dei ricavi: la vendita di magliette e oggetti legate ai giocatori e l’ascesa dei rating d’ascolto grazie alle nuove superstar e a stagioni vincenti basate su squadre piene di talento sono viste ormai con rabbia impotente dagli studenti-atleti che vedono soltanto le briciole di quelle cifre.
Tuttavia alcuni studi contestano questo continuo livore dello studente-atleta, avendo tra l’altro provato la scarsa incidenza della presenza di “One&Done”, ovvero di giocatori molto forti, sull’aumento o diminuzione delle presenze alle partite e nelle vendite del merchandising dei vari atenei: per molti nell’NCAA continua e continuerà a contare di più il nome che c’è sul petto (“Duke”, “UCLA”, “Kansas”) piuttosto che quello presente sul retro - il cognome di giocatori considerati solo di passaggio.
Ad ogni modo, e sempre per rimanere con l’esempio di Ben Simmons, la sua SEC (SouthEastern Conf.) ha ufficializzato per l’anno fiscale 2014-15 527 milioni di dollari di ricavi, distribuiti equamente per l’87% alle 14 scuole membre, ovvero 32 milioni di dollari circa per ateneo. Significa che la Louisiana State University di Simmons, senza contare i propri ricavi, potrà assegnare mediamente alle proprie 16 squadre (sia maschili che femminili) più di 2 milioni di dollari a squadra. Il che, se si tenesse per buona questa in realtà impossibile media aritmetica (i criteri variano a seconda del numero dei componenti del roster, delle scelte dell’ateneo, ecc), porterebbero alla squadra di basket maschile, composta di 15 elementi (levando i costi di gestione) circa 100mila dollari a testa.
Forse Simmons non aveva tutti i torti in fondo, e di certo non aiutano l’immagine pubblica delle “Power Five” le news sui continui aggiornamenti (al rialzo) degli stipendi dei rispettivi commissioner (ormai sopra i 3 milioni di dollari all’anno in media), mentre gli studenti-atleti rimangono digrignanti e inermi a guardare dalla finestra la famiglia felice alla cena di Natale.
Il curioso caso di Giovanni Sherman
Cosa lega un baffuto aristocratico americano, dalla personalità discreta e brillante politico morto il 5 giugno del 1900, l’NCAA, l’Electronic Arts Sports e gli studenti-atleti?
La stravagante liaison è tutta contenuta in uno dei documenti più importanti - “costitutivi” direbbero quelli bravi - della legislazione sull’antitrust degli Stati Uniti d’America, passata alla storia come il famigerato Sherman Antitrust Act. Questo statuto - che prende chiaramente il nominativo dal cognome del suo principale autore, il mitico John Sherman - è ancora oggi una pietra miliare del sistema giuridico e sin dal 1890 “proibisce attività commerciali che il governo federale ritiene anti-competitive, e richiede al governo stesso di indagare su possibili casi di cartelli o situazioni di monopolio illegali”. Tanto per capirci: è la più antica legge statunitense sull’argomento, la stessa che fu decisiva nello smembramento della “Standard Oil” del signor Rockefeller nel 1911.
Cinque anni prima, nel 1906, mentre il Mahatma Gandhi coniava e sposava con tutto se stesso il neologismo satyagraha sulla resistenza non-violenta, nasceva la “Intercollegiate Athletic Association of the United States” (IAAUS), ovvero la “mamma” della moderna NCAA (così ribattezzata nel 1910) voluta dallo storico presidente Roosevelt per salvaguardare gli studenti-atleti e inserirli in un programma sportivo sicuro (i giocatori di football morivano durante i tornei pre-NCAA agli inizi del ‘900). Da quegli anni e quelle prime tenere fasi di presa di coscienza di un intero paese è passato più di un secolo, e l’NCAA non sembra aver perso un grammo del suo potere. O almeno così pareva fino all’8 agosto del 2014.
Torniamo per un attimo ad uno degli episodi introduttivi. Eravamo rimasti a Ed O’Bannon che fa causa all’NCAA per l’utilizzo della sua immagine in un videogame della EA Sports per cui non ha percepito nessun rimborso. A O’Bannon nel frattempo si sono aggiunti anche nomi altisonanti come Bill Russell e Oscar Robertson, per un totale di venti ex giocatori NCAA uniti nel tentativo di veder sanata una condizione oggettivamente non equilibrata tra le due parti.
Oltre all’NCAA e all’EA Sports sotto accusa ci finisce anche la CLC che, come nei migliori legal-movies, è tanto semisconosciuta quanto fondamentale nell’ordire le trame dei “cattivi”. La Collegiate Licensing Company è infatti una società che collabora direttamente con l’NCAA, le Conference e gli atenei per “connettere gli appassionati dello sport universitario con i loro “college brand” preferiti” (dal sito ufficiale), agendo in sostanza da advisor e intermediario per la gestione delle licenze di merchandising di tutte le realtà collegiali. Sintetizzando: è la CLC che concorda con LSU quanto e come sfruttare in termini di target e mercato l’arrivo di un Ben Simmons in quell’università.
Durante il processo l’NCAA, la parte in causa più interessata in quanto è quella che più ha da perderci, espone al giudice incaricato del “Northern District of California” Claudia Wilken tutti i principi di “amateurism”, borse di studio ed equità che abbiamo già visto. Ma la falla è troppo grande per essere arginata senza perdite.
Il diritto all’utilizzo del proprio nome e della propria immagine nel sistema giuridico statunitense (così come nella maggior parte del mondo) è sacro e inalienabile, e il suo sfruttamento o la limitazione forzata del suo utilizzo è illegale. Inoltre, va contro lo Sherman Antitrust Act che il nostro buon Giovanni aveva battezzato nel 1890: da sempre gli atleti che desiderano essere dichiarati eleggibili per giocare in NCAA devono firmare a inizio stagione dei documenti dove dichiarano di non aver violato in alcun modo il proprio status di “dilettanti”. Tra i cosiddetti “waiver” che variano dai test antidroga al rispetto delle regole basilari sull’amateurism, c’è un form particolare su cui i querelanti e il giudice Wilken si concentrano: è il famoso form 08-3a, poi diventato 14-3a. Come potete vedere dalla figura, questo form autorizza l’NCAA a utilizzare il nome e l’immagine degli atleti (“likeness”): l’effetto è immediato ma la sua cessazione avverrà solo firmando un nuovo form. Dunque verosimilmente all'infinito e per tutta la vita dell'atleta anche dopo la fine del college, in quanto a nessuno è mai venuto in mente di rinegoziare questo vero e proprio contratto di cessione dei propri diritti d'immagine siglato all’età di 18 anni e poi, probabilmente, dimenticato.
È la chiave per far saltare il banco e vincere una causa che potrebbe diventare storica. Vista la mal parata, l’NCAA prova ad aggrapparsi all’essenza dell’ordinamento giuridico anglosassone definita dal modello di “Common Law”, basato (ci perdoneranno i giuristi per l’estrema semplificazione) sui precedenti giurisprudenziali piuttosto che sui codici: nel 1984 infatti, una causa molto simile intentata da un gruppo di università riguardante le restrizioni sulle partite di football universitario mandate in diretta tv dall’NCAA, decretò che l’organizzazione avrebbe ceduto il controllo dei diritti tv sul football agli atenei (situazione ancora attuale), ma che per preservare il principio di “amateurism” degli atleti e la qualità del prodotto, “gli studenti-atleti non avrebbero dovuto ricevere nessun tipo di pagamento”.
L’appello non funziona: l’8 agosto 2014 la Wilken, citando lo Sherman Antitrust Act e un comportamento “irragionevole” da parte dell’NCAA nel “controllo del mercato e dei diritti d’immagine”sancisce che è giusto da parte dello studente-atleta ricevere una parte della redistribuzione dei ricavi di ogni scuola, e stabilisce a 5mila dollari la cifra massima da elargire all’atleta per ogni anno universitario giocato, pagabile al termine della sua esperienza collegiale per non violare il principio dilettantistico dell’NCAA.
Nonostante l’NCAA non si dia per vinta, la sentenza è chiara e gli appelli alla Corte Suprema non lasciano molta speranza. Per timore di ulteriori complicazioni, l’organizzazione sceglie dall’anno successivo di togliere il famigerato form sui diritti d’immagine dello studente-atleta dai propri documenti, delegando a ogni Conference e ateneo la facoltà di far firmare o meno la liberatoria. Un fenomeno “ponziopilatesco”, che ha moltiplicato a dismisura i casi teoricamente soggetti a violazione delle leggi antitrust (vedi figure), la nuova frontiera della lotta degli studenti-atleti per vedersi finalmente riconosciuta una parte più consistente della torta.
A oggi qualsiasi dei 346 atenei di Division I e tutte le Conference possono scegliere di far firmare o meno un form molto simile a quel 14-3a, ma non sono ancora stati rilevati ufficialmente rifiuti da parte degli studenti-atleti nel farlo. Un po’ per superficialità, un po’ per ingenuità e un po’ per compromesso (se il form non viene firmato il nome e l’immagine dell’atleta non comparirà da nessuna parte, dalle media guide alle magliette e pubblicità in tv), il problema sembra essersi solo semplicemente spostato, aprendo nuovi dubbi: sono tanti o pochi 5mila dollari l’anno, considerati i ricavi (anche) sui diritti d’immagine? È giusto dare la stessa cifra alla stella della squadra che se ne va dopo un anno e al dodicesimo che non gioca mai ma rimane per tutto il quadriennio? Considerato che “chi sposta”, ovvero chi giocherà pro dopo il college, rappresenta l’1,1% degli studenti-atleti di pallacanestro maschile di Div.I, è lecito il sollevamento popolare quando il restante 98,9% riceve già tutti i benefit di una borsa di studio completa?
Sembrerebbe di sì, secondo le parole dell’avvocato di Ed O’Bannon a Usa Today al termine del processo: “Siamo felici della transazione (l'accordo con i querelanti da parte dell'NCAA e dell'EA Sports è stato di 60 milioni di dollari; Riccardo Fois, che in quel videogame c'era in quanto membro di Pepperdine University, sta ancora aspettando i suoi 70 dollari di risarcimento, ci ha confessato ridendo, ndr) e che abbiano riconosciuto una violazione delle norme antitrust da parte dell'NCAA. Decretando un rimborso permanente per rimediare alla violazione che consentirà ai membri dell'NCAA di offrire agli studenti-atleti un significativo aumento negli aiuti economici”.
Il futuro
In ritardo di quattro-cinque anni sembra di assistere alla versione NCAA della primavera araba. Per la prima volta nella loro storia gli studenti-atleti sembrano aver trovato una nuova consapevolezza della loro condizione e un’inedita fiducia nei rapporti di forza con un’organizzazione che ha iniziato a mostrare evidenti segni di debolezza.
A Norhtwestern University gli studenti-atleti della squadra di football nel 2014 hanno chiesto ufficialmente al National Labor Relations Board (NLRB) di essere riconosciuti come dei dipendenti, e quindi di potersi unire in un sindacato. La richiesta è stata a sorpresa respinta, ma in altri campus stanno nascendo movimenti di protesta simili e una prima sentenza positiva è arrivata per il sindacato degli studenti della Columbia University.
Nigel Hayes, attuale giocatore della squadra di pallacanestro dell’università di Wisconsin, ha alzato la voce sulle difficoltà degli studenti-atleti nell’affrontare la vita quotidiana con i soli soldi derivanti da borse di studio spesso non sufficienti, chiamando a raccolta tutti i “broke college athletes”. Considerato che l’ammontare medio di una borsa di studio non è cresciuto proporzionalmente negli ultimi decenni rispetto ai ricavi di atenei, Conference e NCAA, la causa vinta da O’Bannon potrebbe diventare la base per fornire agli studenti-atleti un aiuto economico corrispondente alle loro reali esigenze (e quindi possibilmente oltre il calcolo del cost of attendance di una borsa di studio).
L’NCAA stessa, sentendosi circondata da questo moto “rivoluzionario”, ha approvato negli ultimi tre anni delle riforme che vorrebbero andare incontro agli studenti-atleti, come quelle sui tipi di compensi esterni accettabili, approvate nel Gennaio 2013. I dubbi sul reale intento però persistono, visto che molti lo vedono solo come un tentativo di allontanare l’attenzione di media e tribunali dalla sua traballante posizione simil-monopolistica (uno studio ha calcolato che su un massimo di 10mila, il rate sulla concentrazione di mercato da parte dell’NCAA equivarrebbe a 7378, abbastanza per essere definito “preoccupantemente anti-concorrenziale” da parte del Dipartimento di Giustizia americano).
L’NBA, sempre attenta all’evoluzione dei rapporti tra quelli che in futuro potrebbero diventare suoi atleti e la sua de facto principale e storica lega di sviluppo, in attesa di ridiscutere il limite d’età obbligatorio per eliminare o limitare il fenomeno degli “One&Done”, ha apportato una modifica importante alla sua NBA Development League. Grazie infatti al nuovo Contratto Collettivo, il range medio di stipendi delle due fasce (A e B) passerà da 19mila e 26mila dollari a stagione a 50mila e 75mila, offrendo dal prossimo futuro una valida alternativa all’NCAA per tutti quei liceali di talento cui non basterebbe una borsa di studio per risolvere i problemi economici personali e della propria famiglia.
È il punto decisivo sottolineato nella nostra conversazione da Richard Hamilton, leggenda del basket universitario e autore di 27 punti nella vittoria del titolo NCAA con U-Conn nel 1999: «Man, tutti volevano rimanere al college per quattro anni, era un’esperienza stupenda! Ma molti di noi semplicemente non potevano permetterselo, con la chiamata al Draft pronta e i soldi dell’NBA da andare a prendere. Io volevo uscire già al secondo anno per dare una mano economica alla mia famiglia, ma il mio mitico coach, Jim Calhoun, mi disse di attenderne almeno un altro, perchè non ero pronto mentalmente per affrontare la vita da pro. Così lo ascoltai, e al mio terzo anno vissi il momento più bello della mia vita con la vittoria del titolo. Credo che gli studenti-atleti dovrebbero percepire “stipend” più elevati, e la regola dei 19 anni dovrebbe essere tolta: se uno ha abbastanza talento per saltare dal liceo all’NBA, deve avere la possibilità di farlo, a maggior ragione se oltre ad essere forte quella potrebbe essere una soluzione per una situazione personale e finanziaria problematica».
Sembra essere l’opinione anche di Federico Mussini e Amedeo Della Valle, soprattutto perché, come fanno giustamente notare sia Virgilio che Fois, l’NCAA è piena di casi come quello di Ben Simmons, cui è bastato raggiungere il minimo consentito di media voti nel primo semestre (1.8 GPA per i freshmen) per diventare eleggibile e giocare nel secondo semestre, fregandosene di tutti i corsi successivi. Chi glielo faceva fare, visto che qualche mese più tardi avrebbe firmato un contratto garantito da prima scelta con l’NBA?
E allora forse la vera domanda da porsi è sul valore nel lungo periodo dell’opportunità di avere una borsa di studio completa regalata da quelli che molto spesso sono tra gli atenei migliori del mondo a livello accademico. Sono pochissimi i giocatori con un futuro da professionisti che completano i quattro anni (nonostante le università diano la possibilità di proseguire anche durante la carriera pro), ma non sono certo novità del 2016 le notizie delle drammatiche condizioni economiche di molti ex atleti al termine del loro percorso professionistico. Certo, due anni in più a Georgetown University e una laurea in Arte non avrebbero tenuto lontano Allen Iverson dalla “bancarotta” e dall’alcolismo, e Kobe Bryant con la sua testa ha dimostrato di poter essere un imprenditore di successo uscendo direttamente dal liceo. Ma per molti altri giocatori un titolo universitario conseguito presso un’istituzione prestigiosa potrebbe significare un’ulteriore possibilità per reinventare (o salvare) la propria vita una volta che il fisico avrà detto “stop”.
Comprendiamo dunque bene Riccardo Fois quando, interrogato su questa tematica, conclude: «Per me l'istruzione tramite borsa di studio non è solo un compenso: è molto di più, è priceless. Soprattutto per un italiano come me che viene da un tipo di realtà differente: se fai l’università in Division I, spesso in cima ai ranking mondiali, tutti gli studi dimostrano che avrai un futuro migliore, professionalmente parlando. Al di là del singolo caso Simmons comunque, io sono sempre per la "True College Experience" anche se sei un “One&Done”: adoro i nostri ragazzi che vedono Gonzaga come una famiglia anche dopo essersene andati. In definitiva, se c'è un sistema migliore dell’NCAA per un 18enne, sarei proprio curioso di conoscerlo».