Tra le pagine del campionato sopravvive un’oscura categoria di lavoratori che l’opinione pubblica non difende, che le istituzioni non tutelano, eppure settimana dopo settimana è costretta a subire sulla propria pelle il sopruso, l’oltraggio, la sopraffazione. Sono i terzini dell’Inter ignorati dai cross di Candreva.
In questa stagione, nei cinque grandi campionati europei non c’è un singolo giocatore (al di fuori del vincitore di questo premio) che sia riuscito a superare la soglia dei 400 cross, si contano letteralmente sulle dita di una mano i giocatori che sono riusciti a superare la soglia dei 300 cross, e siccome si sta parlando di Candreva è inutile girarci troppo intorno: lui ne ha tentati 415.
Il motore di gioco di Candreva comprende un campionario di giocate abbastanza ristretto, che rispondono alla necessità di attaccare la porta nel modo più diretto possibile, e sono tutte frustranti in egual misura. Quando l’azione si sviluppa sulla fascia destra, Candreva immagina tipicamente di: ricevere dal terzino all’altezza di metà campo, accennare una rapida progressione, poi temporeggiare, in attesa che la vittima designata compia l’umiliante traccia della sovrapposizione, ignorarla biecamente e scoccare il cross.
Quel cross potrà diventare un livido sulla schiena del difensore più vicino, potrà diventare uno spiovente di facile lettura, potrà anche diventare un assist, se le circostanze sono favorevoli. Di sicuro, nel tempo trascorso tra la prima ricezione e lo scoccare del cross, la difesa avrà avuto modo di occupare comodamente il centro dell’area, e il diretto marcatore sarà riuscito a recuperare la posizione di fronte alla palla. Di sicuro, quel terzino che avesse avuto la sciagurata idea di proporsi in profondità si ritroverà lontano dallo sviluppo dell’azione e dalla possibilità di recuperare una transizione negativa.
Il gol di João Mário al Palermo è preceduto da undici secondi di possesso individuale di Candreva, un interminabile lasso di tempo in cui praticamente rimane fermo sul posto, ben posizionato sulla sua mattonella. Prima fa scorrere con calma il pallone, poi punta Goldaniga verso il fondo, ci ripensa e va verso l’interno, ci ripensa ancora e prosegue verso il fondo, poi decide che no, era meglio verso l’interno. Sul cross di sinistro si avventa João Mário e decide la partita, mentre D’Ambrosio si era sistemato con poca convinzione nella zona del primo palo, certo di trovarsi ormai escluso dall’azione.
All'interno della sfida tattica e mentale imposta dal contesto di gioco, Candreva vive una singolare e personalissima battaglia contro i suoi istinti più biechi. Quando si mette in testa di crossare, passa davanti ai compagni di squadra come dovesse farsi largo in una stazione particolarmente affollata. Questa battaglia raggiunge il picco di cattiveria, e quindi la resa definitiva, quando aspetta il movimento dei terzini per usarli come sponde, prima di recapitare enigmatici cross dalla trequarti.
Candreva riempie una definizione di “fumoso” molto particolare, in un certo senso moderna, perché strettamente correlata a parametri di valutazione che prima non avevamo, o sceglievamo di non utilizzare, come l’efficienza al posto della continuità di rendimento.
Quest’anno ha giocato sempre: 45 presenze tra campionato, Coppa Italia e Europa League, di cui 41 da titolare. Ha segnato 8 gol e servito 10 assist, cifre notevoli per un centrocampista. È stato presente nella buona e nella cattiva sorte, nelle strisce di vittorie e in quelle di sconfitte. E ha sempre fatto la stessa cosa: crossare.
I numeri nel nostro campionato dicono 11.2 tentativi di cross ogni 90 minuti, con un’accuratezza del 19.4%, che significa che raggiunge effettivamente un attaccante ogni cinque tentativi. Tra i dieci giocatori che in assoluto hanno tentato più cross, registrano percentuali di accuratezza peggiori soltanto Suso e Perisic (decisamente qualcosa non ha funzionato nell’Inter quest’anno), che però hanno leggermente tamponato i danni limitandosi rispettivamente a 7 e 6 tentativi ogni 90 minuti.
Contestualmente, anche se non è facile accorgersi dell’ago nel pagliaio di cross che ha accumulato, Candreva è anche uno di quei giocatori che tirano troppo. In campionato si prende 2.6 tiri, ma calcia nel 55% dei casi da fuori area, e prende lo specchio della porta nel 38% dei casi - che al netto della pessima shot selection è un buon risultato, perché se non altro Candreva è un buon tiratore.
Candreva è un giocatore che “fa molte cose che non servono a niente”, non uno che “fa molte cose quando ne ha voglia”, non uno che “fa molte cose con aria di sufficienza”. È un’ala che calcia bene il pallone con entrambi i piedi, e tanto gli basta per strappare 2,6 tiri e 2,8 occasioni create ogni 90 minuti, cioè genera indicativamente 5 conclusioni ogni partita, e qualcosa gli avanza. Può un tiraccio dalla trequarti in Brasile provocare un assist invitante in Texas? Il gioco di Candreva ci costringe a valutare innovative applicazioni della teoria del caos.
Per questo immagino che qualche lettore si attendesse da questa categoria un’assegnazione più affascinante, come poteva essere quella di Ilicic, che con Candreva ha conteso il premio punto a punto. Al pari di fumosità, lo sloveno emana un fumo più etereo, evanescente, con il retrogusto dell’insondabile. Rievoca deliziose categorie di giudizio come «togliersi le pantofole» nel tentativo di spiegarsi l’altalena emotiva, l’impressione che alcune partite le giochi coi guanti da lavoro e altre coi guanti di seta.
Al contrario, il principale elemento distintivo di Candreva in questo gran premio della fumosità è che la sua idea di gioco è estremamente lontana dal vezzo, dall'esibizione fine a sé stessa. Anzi, è molto lineare, oltre che prevedibile per le difese avversarie, «un codice binario che non prevede variazioni: corsa lungolinea+cross o corsa lungolinea+tiro». Ed è anche molto costante, almeno nella sua media produttiva.
In fondo per Candreva non esiste avversario, competizione, ora del giorno o mese dell’anno che faccia realmente qualche differenza: si può star certi che tenterà tutti e 11 i suoi cross, e in mezzo ci infilerà anche quei 2/3 tiri di contorno, tanto per non concedersi nessun momento di esitazione. Il suo è un contributo tangibile, pressoché sicuro, che diversi allenatori finiscono per apprezzare, o per accettare loro malgrado.
A conti fatti, è una strategia di sopravvivenza. Candreva non sa controllare il pallone in spazi stretti, non sa proteggerlo con il corpo, non sa girarsi rapidamente se riceve di spalle. Se gli spazi si aprono, manca di visione di gioco e scelta del tempo per permettersi di fare il passaggio giusto al momento giusto. È una constatazione bizzarra, se pensiamo che la trasformazione in ala destra è relativamente recente, e che per molti anni dopo l’esordio tra i professionisti ha agito da trequartista centrale.
Eppure anche quest’anno i suoi tentativi di giocare al centro sono stati occasionali, limitati ai momenti di maggiore fiducia, e soprattutto hanno avuto effetti disastrosi, anche nelle partite che l’Inter ha vinto con sicurezza. È chiaro che non c’è modo di utilizzarlo al di fuori del prediletto corridoio laterale, e che da trequartista non avrebbe avuto la carriera che tutto sommato ha saputo ritagliarsi. Forse ha avuto ragione lui.
Candreva ha spogliato il suo calcio della fantasia, preferendo la figura dell’operaio altamente specializzato a quella del decision-maker. Ha meccanizzato all’inverosimile determinate situazioni di gioco, riconducendole alla soluzione universale “testa bassa e caricare il destro”, e ogni anno colleziona un numero sufficiente di gol e assist per coprire la coltre di fumo dei 415 cross.
L’inganno emerge soltanto nel momento in cui si amplia la prospettiva dall’individuo alla squadra, si sposta lo sguardo dal pallone ai terzini brutalmente ignorati nella sovrapposizione. Questo premio l’ha vinto Candreva, ma è simbolicamente dedicato a loro.