«Se ti muovi e fai un taglio, Bill trova sempre il modo di farti ricevere il pallone.
È il miglior passatore che abbia visto in vita mia»
Larry Bird
Se nelle squadre di college il nome dell’università ricamato davanti la maglia è più importante del giocatore impresso sul retro, per il basket NBA dovete rovesciare il principio di base applicando il suo esatto contrario. Si tratta di uno stereotipo banale ma efficace, una formuletta nozionistica e frammentaria che cristallizza la differenza tra i due piani della palla a spicchi negli Stati Uniti. Ciò nonostante, ci sono ovviamente delle clamorose eccezioni che per la loro unicità in qualche modo tendono a confermare questo principio: William Theodore Walton III, meglio noto come Bill Walton, ne è forse l’esempio migliore.
Per diversi anni il “Grande Rosso” è stato il centro di gravità permanente di una istituzione solida come UCLA al suo massimo storico, dettando idealmente gli ordini del giorno in un ateneo più importante della maggior parte delle squadre del precario circuito professionista. UCLA era il modello di sport universitario per antonomasia - non a caso era la prima scelta ideale del giovane Michael Jordan prima di approdare a North Carolina - ma per qualche tempo è stata letteralmente presa in ostaggio da un mito cementato in un lampo. Quello di Walton fu un impatto collegiale senza precedenti, tanto da spingere la ABA a progettare una franchigia costruita intorno alla sua figura a San Diego. Secondo una leggenda metropolitana, un gruppetto di psicologi camuffati da reporter si aggirava nel campus per studiare il metodo di reclutamento più efficace: uno stratagemma disperato ma in linea con le stravaganze della American Basketball Association.
Per ottenere i suoi servigi e stralciare la concorrenza, i dirigenti NBA hanno valutato di gettare alle ortiche buona parte delle regole elaborate con fatica per favorire lo sviluppo delle franchigie minori. Per molto tempo nella “stanza dei bottoni” si è discusso su come e quanto agevolare un eventuale approdo ai Lakers pur di primeggiare nella singolare guerra tra i due mondi della pallacanestro professionistica. Se Earl Manigault - il leggendario “Goat”, il re buono di Harlem - poteva camminare per il quartiere senza un penny e chiedere ciò che voleva, a metà anni ‘70 Walton poteva cambiare la geografia del gioco con una semplice telefonata.
Circondato da un delirio mediatico terrificante, paragonabile alle attenzioni divise equamente anni dopo dal duo Magic/Bird, Walton ha spesso deluso le attese di chi ha cercato di cucirgli addosso un personaggio spendibile per i gusti del grande pubblico. Il californiano è sempre andato dritto per la sua strada, rinunciando a interpretare il ruolo di salvatore della disastrata e fantasiosa pallacanestro nordamericana degli anni ‘70.
Crolli, rinascite, nuove cadute; un’altalena senza soluzione di continuità ha segnato la parabola del pivot più meravigliosamente atipico e infortunato di tutti i tempi. Secondo calcoli attendibili sono ben trentasette le operazioni chirurgiche a suo carico, unite ad una serie di complicazioni che hanno mandato in corto circuito la maggior parte degli specialisti che hanno cercato di salvare (per quanto possibile) la sua carriera. Un percorso accidentato, contrassegnato da vette assolute, sorprendenti rovesci e una influenza sul gioco davvero profonda al di là dei minuti effettivamente passati in campo.
Una leggenda sportiva con un background singolare
Il “Grande Rosso” nasce e muove i primi passi nei sobborghi di La Mesa, nei pressi di San Diego. Dalla madre bibliotecaria eredita la passione della lettura, si appassiona a un numero infinito di argomenti e si dimostra avido di informazioni riguardo ogni aspetto delle cose che lo circondano. La sua curiosità è immarcabile, è un sorta di Nerd ante litteram: non socializza molto facilmente a causa di una fastidiosa tipologia di balbuzie (superata con molti sforzi) ma è da subito chiaro il suo innato talento per lo sport. Per Bill diventa una forma di espressione ideale che in qualche modo restituisce un senso a una statura molto generosa, altro fattore che lo mette in imbarazzo con i coetanei. Matura una sensibilità e una riservatezza spiccata, che contrasta con la spietata efferatezza che dimostra quando giostra sul campo.
Il materiale aurifero del talento è facilmente rintracciabile da principio con un diabolico assemblaggio del fondamentali. Lasciate stare le storie disseminate di lavoro feroce per emergere: la naturalezza con cui apprende, modifica e reinventa pallacanestro è senza pietra di paragone. La svolta avviene durante il recupero dal primo grande infortunio: a 14 anni, dopo un incidente al ginocchio successivo a una partitella al campetto, è costretto a operarsi e a diversi mesi di permanenza forzata in un letto, ma in questo periodo di convalescenza passa da 185 a 205 cm. Il suo arsenale diventa sostanzialmente illegale: a un talento naturale e smisurato viene fornito in dotazione un fisico poco resistente, ma in grado di assecondare e valorizzare i suoi impulsi cestistici.
Quando torna, fa volare il suo liceo sul parquet. La Helix High School si assicura il titolo per due anni di fila e vince senza troppi problemi le ultime 49 partite disputate. Deambulare correttamente è spesso un problema e per tutelarlo dalle ruvidezze avversarie interviene il fratello (atleta polivalente e successivamente discreto professionista NFL) per fare coppia con lui vicino al ferro. Domina con irrisoria facilità nonostante l’andatura caracollante e una fisicità a scartamento ridotto. Le offerte di borse di studio ovviamente fioccano e reclutatori famelici arrivano da ogni parte del paese; la stampa lo scopre piuttosto in ritardo rispetto agli addetti ai lavori, limitando inizialmente il suo eco complessivo sul pubblico.
Per capire meglio il suo dominio basta dissezionare qualche freddo numero. La percentuale al tiro si assesta a quota 79%, un picco che gli assicura agevolmente il primato storico per la Helix. Ad impreziosire il quadro complessivo si deve aggiungere la quota rimbalzi assoluta che gli garantisce il terzo posto ogni epoca della storia dei tornei liceali statunitense. Prodezze che gli valgono un riconoscimento davvero inusuale per un teenager: alla tenera età di 17 anni è infatti convocato dalla squadra nazionale USA per disputare i mondiali FIBA del 1970 (dove incrocia Dino Meneghin e Charlie Recalcati), un evento più unico che raro nella storia della prestigiosa nazionale stelle e strisce. Una manifestazione molto importante per gli azzurri, in grado di vincere per la prima contro gli Stati Uniti formati principalmente da giocatori professionisti nel vecchio continente.
La straordinaria avventura ad UCLA (1971-1974)
UCLA si assicura i suoi servigi e lo spedisce a bottega del leggendario coach John Wooden che sul suo conto ha accumulato delle referenze incredibili per un semplice teenager. Raccomandazioni talmente buone, e per giunta veritiere, da scatenare una serie di piccoli e grandi divertenti equivoci all’interno di uno degli staff più celebrati del paese. Per ironia della sorte, l’erede ideale di Lew Alcindor (pilastro che lo ha di poco preceduto) è distante qualche ora di automobile.
Walton non lavora soltanto al suo sviluppo sportivo. Cullato da un contesto familiare che lo aiuta e incoraggia a ricevere più “input” possibili, è naturalmente influenzato e attratto dallo spirito californiano del tempo. Abbraccia presto gli ideali della controcultura, i costumi e la filosofia tipiche del mondo hippie. Diventa un cultore di Bob Dylan, dei Grateful Dead e di John Lennon. Da appassionato carnivoro decide di virare verso una elaboratissima dieta vegetariana e naturalmente si schiera contro la guerra in Vietnam. Si oppone in generale alla violenza politica e sociale e al razzismo (ancora molto radicato nel basket ai tempi) per abbracciare una condotta personale orientata alla pace e all’assoluta libertà individuale. Ama gironzolare in montagna per cercare il contatto con la natura ed è un avido surfista. È pure un ciclista di discreto spessore. Ha più sfaccettature di un diamante, una quantità di interessi assolutamente fuori dal comune e un carattere illeggibile, spesso incostante.
“Big Red” mostra la sua vena ribelle e anticonvenzionale anche quando indossa la divisa da gioco. Non appena torreggia sui malcapitati avversari per un rimbalzo difensivo, è praticamente già scattato il contropiede. Anticipa di circa 20 anni a suo modo (ma quasi da fermo, viste le necessità) le abilità di Jason Kidd, alimentando regolarmente il gioco senza palla dei compagni con dei passaggi a tutto campo che lasciano a bocca aperta anche il navigato Wooden. Il gioco “fastbreak” dei californiani è una delizia per gli occhi e spacca le partite con mefistofelica regolarità. Walton è un “point center” in grado di comprendere e manipolare il corso delle gare come un direttore d’orchestra. Va oltre la produzione di assist o giocate: disegna scenari di pallacanestro inediti.
Ovviamente non tutto è rosa e fiori. La violenza gratuita tollerata negli anni ‘70 lo espone in continuazione a malanni fisici di ogni genere: gli avversari si lamentano della sua tutela in sede di arbitraggio, ma in realtà accumula sul groppone almeno un paio di colpi proibiti a partita. Al posto del normale allenamento è costretto a sottoporsi a un noioso e lunghissimo ciclo di terapia caldo/freddo: impacchi caldi e successivamente borse del ghiaccio per dare sollievo alle martoriate ginocchia. Quando il calendario si infittisce, aumentano i problemi/dolori e il consumo di medicinali. È un pioniere, suo malgrado, della somministrazione massiccia di antidolorifici di ogni tipo.
Un altro aspetto distintivo della sua onniscienza cestistica è la lucidità delle letture difensive sin da un’età molto verde. Il suo mentore gli concede idealmente le chiavi della celebre difesa 2-2-1 zona press: dirige l’intera squadra, correggendo con maestria gli errori di posizionamento dei compagni. Il Totem dei californiani è anche un efficace intimidatore (forse uno dei pochi aspetti classici del suo bagaglio tecnico) e le sue doti di stoppatore consentono al resto della truppa di rischiare una palla rubata senza troppi patemi.
Nel suo gioco ci sono elementi che anticipano Arvydas Sabonis, strizzano gli occhi ai punti di forza dei fratelli Gasol e poi di Nikola Jokic, con delle peculiarità specifiche (il tiro appoggiato al tabellone o la stoppata con recupero, ad esempio) poi reinterpretate da entusiasti studenti del gioco come Tim Duncan. È regista di gioco con due metri e quindici in dotazione e con feroce voglia di difendere: il gioco di Walton è un vinile ricco di sfumature e variazioni tutte da scoprire, prezioso ed estremamente fragile, da maneggiare con la dovuta cura.
Il suo bilancio collegiale è straordinario, un aggettivo che in questo caso è persino riduttivo. Arrivano due stagioni “perfette” (una passata ai box, come tradizione del tempo per le matricole) senza alcuna sconfitta e due titoli nazionali (1972 e 1973), con l’ultima finale impreziosita da una delle prestazioni più impressionanti mai ammirate alle Final Four, visto che mette a referto un incredibile 21/22 dal campo contro la malcapitata Memphis State. La striscia di vittorie consecutive arriva fino a 88, cancellando ogni record registrato in precedenza. Quando il fisico smette di assecondarlo anche al minimo sindacale arriva la prima bruciante sconfitta in carriera: con la schiena in fiamme e costretto a indossare un busto ortopedico a causa di un brutto fallo subito nella partita precedente, Walton si arrende per la prima volta agli avversari. La magia si interrompe bruscamente, fallisce quindi la rincorsa al titolo nella stagione 1974 anche a causa dei suoi malanni. Può essere considerato il miglior cestista collegiale di ogni epoca assieme a Pete Maravich e Lew Alcindor.
Se consideriamo anche gli ultimi due anni al liceo non ha conosciuto sconfitta per quasi cinque anni, sempre allacciandosi le scarpette in una forma fisica tragicomica e quasi mai riuscendo ad allenarsi con costanza. Il record complessivo NCAA recita un irreale 86-4 con 1.767 punti (20.3 di media) e 1.370 rimbalzi (buoni per superare il record di Jabbar/Alcindor) al suo attivo.
È un personaggio assolutamente allergico alle etichette, alle strumentalizzazioni ed ovviamente a ogni tipo di “establishment” che cerca di combattere in tutti i modi. Si fa arrestare durante una manifestazione di protesta per il Vietnam (poi rilasciato anche grazie ai buoni uffici di Wooden); in qualche occasione si prende la briga di urlare e sbraitare contro il rettore di UCLA durante varie proteste all’interno del campus; rischia un paio di volte l’espulsione ma nessuno ha concretamente il coraggio di prendere seri provvedimenti vista la rilevanza nazionale.
Gli approcci aggressivi della ABA cadono nel vuoto, come facilmente prevedibile. Indirizzato dallo staff di UCLA (in pessimi rapporti con la lega “alternativa”) e desideroso di confrontarsi con la pallacanestro più autorevole possibile, Walton consente alla NBA di tirare un clamoroso sospiro di sollievo. Finisce ai Portland Trail Blazers che per lui sfruttano la prima scelta assoluta del Draft 1974, selezionandolo senza battere ciglio alla ricerca di un salvatore della patria. I vertici della lega spingono per uno scambio a vantaggio dei Sixers (Philadelphia l’anno precedente aveva cercato senza successo di convincerlo a lasciare in anticipo l’università con un corteggiamento serrato) ma contro ogni logica previsione la squadra locata in Oregon riesce a metterlo sotto contratto.
Il suo grande rifiuto alla ABA è uno dei motivi per cui l’associazione alternativa è costretta a chiudere mestamente i battenti. Sfumato un accordo per il contratto televisivo nazionale, l’avventura è destinata a chiudersi a causa di problemi economici. La fusione tra le due leghe appare inevitabile, e le conseguenze dell’unificazione influenzeranno la sua carriera attraverso una curiosa e ricorrente serie di “sliding doors”.
Un biennio maledetto (1974-1976)
La gestione della sua vita privata è ai limiti dei personaggi delineati dal contemporaneo Nanni Moretti. È un autarchico circondato dal mondo della pallacanestro: per i media sportivi americani è l’uomo della provvidenza, la prima vera possibilità di far apprezzare e di “vendere” il basket anche al pubblico Wasp (una locuzione che identifica ironicamente i discendenti dei coloni inglesi protestanti), da sempre freddo con uno sport tradizionalmente associato al pubblico di colore. Una speranza vanamente riposta e che sarà poi colmata da Larry Bird qualche anno dopo.
Il ragazzo è costantemente sotto la lente di ingrandimento del pubblico e spesso si trova a gestire una stampa aggressiva e avida di sensazionalismo. I reporter dell’epoca si trovano a descrivere un hippie col piglio del predicatore e che sciorina una proprietà di linguaggio e una cultura personale clamorosamente sopra media. Con grande stupore si avvicinano ad un atleta che ama pranzare con 6/8 tipi diversi di yogurt e una curiosa selezione di semenze e cereali vari.
Si trasferisce nella città delle rose presso una clamorosa villa a forma di lettera “A” che fa subito scalpore nella piccola ma passionale “fan base” locale. Viene seguito dalla fidanzata (deputata alla gestione dei suoi stravaganti pasti) e poco dopo viene raggiunto dal famoso Jack Scott (con fratello al seguito) come aiuto tuttofare e consigliere.
Scott è un personaggio di una complessità e una profondità di opinioni decisamente fuori dal comune. Si tratta di un ex atleta diventato famoso come il più grande contestatore e riformatore dello sport americano degli anni Sessanta e Settanta, un visionario che ha intrecciato in precedenza un legame con il leggendario velocista Tommy Smith e che in futuro sarà chiamato a curare i muscoli e il benessere di Carl Lewis. Si tratta del guru emotivo di Bill, l’unico punto di riferimento importante, un consigliere prezioso (sportivo e finanziario) e una naturale fonte di grattacapi.
Fin dal principio emergono contrasti e incomprensioni con il management della squadra che gli ha assicurato un clamoroso contratto di 2,5 milioni per 5 stagioni. Dopo anni di cieca obbedienza allo staff di UCLA, il “Grande Rosso” ottiene un discreto controllo della sua gestione atletica e delle varie riabilitazioni: oscilla volontariamente di peso (recitando sempre lo stesso slogan: «Tutto ok, conosco il mio corpo») in modo preoccupante e ingaggia una singolare quanto misteriosa battaglia contro i carboidrati nella sua prima off-season da giocatore NBA.
Mentre la dirigenza preme per potenziare la muscolatura e incrementare la resistenza con i metodi più sicuri e tradizionali, il suo entourage risponde con un approccio completamente naturale e con varianti all’alimentazione a base di frutta esotica e patate lesse. Le sue condizioni fisiche sono precarie ma rifiuta spesso antidolorifici e cure cortisoniche, a differenza di quanto faceva al college: il risultato è quello di aumentare notevolmente l’impatto dei primi infortuni.
Il suo stile alternativo non aiuta nemmeno il più volenteroso dei compagni di squadra. Il giocatore più atteso della storia del gioco si presenta regolarmente vestito come un operaio alla guida della sua amata Jeep con cui scorrazza in montagna appena possibile. Ama bruciare incenso nei terminal degli aeroporti durante le trasferte, con un disincanto che sconcerta chi incrocia il suo sguardo.
Walton compare con assoluta disinvoltura al fianco di noti attivisti politici in manifestazioni a favore dei braccianti agricoli. Si schiera al loro fianco per le rivendicazioni sul salario minimo nonostante un contratto milionario. Sono contrasti clamorosi che il pubblico e la squadra faticano ad assimilare.
Sul parquet le cose vanno leggermente meglio. La stella dei Blazers dimostra da principio di poter traslare molte delle sue intriganti qualità anche al piano superiore anche se l’impatto complessivo desta qualche perplessità. Siamo distanti dalle irreali aspettative di stampa e pubblico che abbiamo descritto da principio: l’impatto difensivo è da subito di straordinario livello, esattamente come la capacità di innato facilitatore del gioco dei compagni di squadra. Qualche piccolo limite emerge solo in qualità di realizzatore puro, caratteristica che non ha mai spiccato nella pur lussureggiante economia di gioco del talento californiano. Si intravede un potenziale intrigante che resta sepolto sotto la spessa coltre di infortuni.
Acciacchi di ogni genere si fanno sentire con ben 78 (!) partite saltate nel primo biennio, una situazione che tarpa le ali dei Blazers e aumenta la frustrazione del giocatore e dell’ambiente. Portland resta sul fondo delle varie classifiche in modo sempre più malinconico. A complicare ulteriormente uno scenario ricco di tensione emerge un caso di cronaca che rischia di far saltare definitivamente il banco. Le turbolente frequentazioni di Scott lo portano sotto la sorveglianza dei federali: l’FBI infatti comincia ad intercettare le sue telefonate, pedinare i conoscenti e lo interroga diverse volte quando appare chiaro un legame tra il suo guru/preparatore e la famigerata Patty Heirst.
Si tratta di un episodio clamoroso che ha segnato la storia della controcultura americana. La Heirst è una ricca ereditiera che viene rapita da terroristi di sinistra radicale. Durante la prigionia decide volontariamente di entrare a far parte del gruppo dei suoi carcerieri (Esercito di Liberazione Simbionese) e passa quindi ad una clandestinità a base di lotte paramilitari e rapine. Secondo il quadro accusatorio, Scott prima di volare in Oregon dal suo pupillo ha favorito la clandestinità del gruppo, fornendo nascondigli “sicuri” in California, e viene quindi indagato come fiancheggiatore. Urge una svolta: il management resiste saggiamente alla tentazione di scambiarlo, ricucendo puntualmente ogni strappo e incomprensione anche con il pubblico che comincia a contestarlo per il notevole peso del suo bagaglio extra campo.
La Blazermania 1976/77: l’anello e la definitiva immortalità sportiva
La squadra è in piedi da sei stagioni, ha un roster tanto giovane quanto immaturo e non è mai riuscita a compilare un record positivo. Il tempismo però è tutto, nella vita come nello sport.
Una serie di fortunati eventi scatena una sorta di piccolo “Big Bang” all’interno dei Blazers che origina una delle annate NBA più affascinanti di sempre. La ABA ormai è definitivamente sciolta e la lega accoglie più squadre, più talento e più personaggi di spessore. Sembra l’alba di una nuova era, pronta a rovesciare i consueti equilibri. Si rischia il tutto per tutto per rimodellare l’intera struttura intorno alle spalle di Bill. Nella offseason vengono allontanati Petrie e Wicks, probabilmente i maggiori contestatori del californiano in spogliatoio. A guidare la panchina arriva il pittoresco Jack Ramsey che azzecca il colpo della vita selezionando Maurice Lucas nel Draft dei giocatori ABA del 1976.
Si tratta di un’ala forte aggressiva e molto fisica che cambia il volto del roster e allenta gran parte della pressione che grava sulle spalle della pietra angolare del team. Il tarantolato allenatore ha da subito due grandi meriti: in prima istanza introduce un gioco moderno e offensivamente altruista per sfruttare al meglio le doti del suo fuoriclasse e sviluppare immediatamente chimica, lo scenario ideale per armare il Grande Rosso. Una visione avanti anni luce rispetto alla maggior parte delle squadre concorrenti, spesso basate sulla gestione delle individualità e con strutture di gioco fortemente gerarchizzate. In seconda istanza, “Dr. Jack” riesce a entrare immediatamente nel mondo del suo giocatore di riferimento conquistandosi rapidamente stima e soprattutto la piena fiducia del suo bizzarro entourage. I primi due travagliati anni di professionismo cominciano a trasformare l’indole del ragazzone che si presenta ai nastri di partenza della stagione più consapevole e finalmente sano. Il rapporto con lo staff medico migliora sensibilmente e finalmente si convince a un approccio più razionale (accettando le terapie prescritte), pur non modificando completamente le sue abitudini.
L’avvio di stagione è ai confini della realtà. Dopo qualche mese di regular season la squadra vanta il miglior attacco NBA grazie a una serie di partite che lasciano di stucco tutti quanti. Portland è in grado di chiudere quarti di gioco avvicinando i 45 punti e chiudere partite contro le migliori squadre della lega intorno ai 150 punti realizzati. Non difetta di certo il rendimento difensivo che resta sempre in linea di galleggiamento con le migliori del lotto. Con il passare dei mesi la situazione tende ovviamente a normalizzarsi, pur lasciando la sensazione che la squadra sia una mina vagante da evitare a tutti i costi. Walton “rallenta” e viene saggiamente gestito con l’insorgere dei primi piccoli problemi di salute, e l’eco clamoroso intorno al rendimento iniziale si ridimensiona parzialmente. A vincere la stagione regolare sul versante Ovest sono i Los Angeles Lakers guidati da Jerry West e con Jabbar giustamente MVP, complessivamente più esperti e profondi.
Nei primi due turni di playoff le cose trascorrono placidamente, con i Blazers che danno la sensazione di essere molto vicini alla squadra schiacciasassi ammirata dal principio. Vengono spazzate via Chicago (al tempo ancora ad Ovest) e Denver senza troppi patemi. La stampa si interroga sulla giovane età della squadra e la mancanza di esperienza di un gruppo che prima di allora non aveva mai scollinato le 28 vittorie.
La svolta arriva contro lo spauracchio Los Angeles: Portland distrugge lo squadrone con un perentorio 4-0 che vale il clamoroso “sweep”. Bill è straordinariamente ispirato e in grado di vincere (di misura) lo scontro diretto col grande rivale in una sorta di affascinante derby tra leggende di UCLA. Jabbar raramente era stato contrastato in modo così efficace: Walton è freddo in tutte le fasi decisive delle partite, alternando con efficacia grandi momenti offensivi e difensivi.
Ciò nonostante, la finale con i Sixers di Julius Erving sulla carta è già scritta. Phila ha più talento e esperienza, tanto che i pronostici non sembrano lasciare scampo ai Blazers. Collettivo contro individualità: la tag-line è semplice quanto affascinante. La Città dell’Amore Fraterno sfrutta da principio il vantaggio del fattore campo portandosi sul 2-0 con discreta facilità, soprattutto grazie all’impatto stratosferico dei giocatori di maggior talento.
A riaccendere la scintilla della sfida sono due fattori inaspettati. Il primo è senza dubbio la “Blazermania”: si tratta di una sorta di febbre sportiva che colpisce e stravolge la città di Portland (400.00 mila abitanti ai tempi) verso la metà della stagione e che trasforma il palazzetto di casa in una sorta di castello inespugnabile, facendo impennare la qualità e il rendimento della squadra. A fronte di 12mila posti disponibili, le richieste per i biglietti toccano anche quota 20mila. La città è una delle più singolari e vitali degli Stati Uniti, brama maggiore rilevanza nazionale e risponde con un entusiasmo mai visto prima. Il secondo fattore è la cattiveria agonistica e la malizia di Maurice Lucas nel peggior momento dei ragazzi di Jack. Con la squadra sull’orlo della crisi di nervi in Gara-2, la poderosa ala forte ingaggia una delle risse più famose della storia lega con Darryl Dawkins. L’alterco si trasforma in una inevitabile espulsione per entrambi i protagonisti, ma è il punto di svolta emotivo della sfida.
Gli improbabili sfidanti ritrovano coraggio grazie alla sua leadership carismatica: a trasformare la proverbiale zucca in una fantastica carrozza ci pensa un Walton in stato di suprema grazia. Il pupillo di Wooden chiude la serie vicino ai 20 punti e rimbalzi di media, guidando la squadra come un play occulto con occasionali revival del gioco “fastbreak” che aveva incantato gli appassionati pochi anni prima. Il Grande Rosso dopo aver sofferto nelle prime due partite sale in cattedra in modo perentorio e si eleva di un paio di gradini rispetto alla prestigiosa concorrenza.
Le sue evoluzioni sono una perfetta sintesi tra il nuovo che avanza lentamente e la pallacanestro “bread & butter” che è vicina al suo tramonto. Privi di armi come il tiro da 3 punti (introdotto nella NBA e nel college solo a inizio anni ‘80) e limitati da approcci tecnici conservativi, i giocatori sono spesso costretti a convergere nei pressi del canestro, alla mercé dei lunghi dominanti. Le arti cestistiche gravitano inevitabilmente attorno al ferro: Bill è un “finesse player” che va nella direzione opposta, una tipologia completamente diversa dal centro realizzatore o meramente difensivo che hanno influenzato lo sviluppo degli eventi fino a quel momento. Alla fine della stagione ’77, però, l’astro di San Diego è tornato prepotentemente re della palla a spicchi.
La grande illusione e il triste epilogo con Portland
La conquista del titolo stravolge completamente la città e dà luogo a una serie di festeggiamenti epocali che elettrizzano tutto l’ambiente. Oltre 250mila persone affollano la parata della vittoria e il clima di giubilo travolge ogni fascia social, tanto che il sindaco, secondo le cronache locali, è incontenibile in ogni festa o occasione pubblica ed esponenti di ogni età, compresi i bambini, affollano di telegrammi la sede dei Blazers.
La stagione successiva le aspettative sono ovviamente alle stelle. La pressione non penalizza la truppa di Jack Ramsey che sembra destinata a fare sfracelli per diversi anni grazie alla freschezza del roster. Il fuoriclasse gioca in modo fantastico grazie a una buona forma fisica e uno stato di trascendenza pura dal punto di vista tecnico. Il prodotto di UCLA è ormai riuscito a tradurre completamente il suo intero repertorio a livello NBA: limitare il suo gioco e la sua capacità di migliorare i compagni si rivela un rebus senza soluzione per gli avversari. Ha uno stile semplice ma efficace, concede poco allo spettacolo ma incanta ugualmente il pubblico con le sue letture e la capacità di coinvolgere ogni componente di squadra. Dopo le prime sessanta partite, il record recita un eloquente 50-10.
Nel momento migliore però ricomincia una spiacevole sequela di infortuni che segna la fine della favola. Le fragili giunture del pivot cominciano a cedere e per la franchigia comincia un periodo davvero complicato. Le sue prestazioni valgono il titolo di MVP nonostante la fine prematura della regular season; Walton torna in campo per giocare i playoff, ma si tratta di un recupero (forse) affrettato che si conclude con la frattura dell’osso navicolare del piede sinistro. E qualcos’altro si rompe.
Dopo qualche mese arriva un’esplicita e clamorosa richiesta di cessione (nello specifico ai Golden State Warriors) da parte del giocatore, che accusa apertamente la squadra e il medico sociale. Esplodono fragorosamente tutti i malintesi e le tensioni gestite con fatica nel primo biennio: a supportare la decisione di Bill interviene ovviamente il “solito” Scott che appoggia in tutto e per tutto la crociata personale del suo pupillo. Sotto accusa sono il mix di medicinali somministrati e la presunta superficialità della franchigia nella gestione delle riabilitazioni. Portland non cede di un millimetro e nega quanto richiesto: scoppia una guerra di nervi e il giocatore decide di scioperare, restando fuori dal campo per forzare il trasferimento richiesto.
Segue un lungo e difficile periodo di veleni in cui uno dei giocatori più forti della sua generazione è costretto a restare fuori dal campo e saltare completamente la stagione. Vive da esiliato in casa a distanza di pochi mesi dalla rincorsa del titolo più stupefacente della NBA.
Nella prigione dorata di Sterling (1979-1985)
I vertici della lega intervengono per cercare di risolvere la pericolosa situazione di empasse. Trovare un accordo con gli Warriors risulta impossibile; la soluzione di ripiego è la nativa San Diego, al tempo casa dei “neonati” Clippers. Per sbloccare lo scambio i californiani pagano un prezzo molto alto: Kermit Washington, Kevin Kunnert, una prima scelta e una compensazione di 350mila dollari. Considerate le sue condizioni fisiche, è una trade che il resto dei giocatori dei Clips accoglie con malcelato malcontento.
Il Grande Rosso si accorda per un compenso record di 7 milioni di dollari per sette stagioni, una cifra che il proprietario Irv Levin concede senza mercanteggiare, convinto di cambiare per sempre l’immagine della squadra con il prestigioso ingaggio. L’ambiente in effetti viene preso d’assalto dalla stampa sportiva, con un felice ritorno d’immagine nel breve periodo. Walton conquista la copertina di Sport Illustrated per la presentazione della stagione 1979-80 e rilascia un’intervista-fiume in cui cerca di sfatare tutti i miti negativi che aleggiano sul suo conto.
L’aria di casa e le sue montagne favoriscono un radicale cambiamento. Ricomincia a mangiare la carne, smussa notevolmente gli angoli con i media, sfrutta l’estate per lavorare sul suo fisico come mai in precedenza. Abbandona la barba da santone e adotta un taglio di capelli molto più sobrio. Dismette i panni dell’attivista e si trasforma nella figura bonaria e rassicurante che conosciamo oggi. Si allontana gradualmente da Scott, comincia timidamente a frequentare il bel mondo e sfoggia un abbigliamento più curato del solito.
Le premesse sono eccellenti da tutti i punti di vista; la conclusione è un disastro. Dopo qualche comparsata in preseason l’osso navicolare cede nuovamente: la stella dei Clippers è in grado di disputare solamente 14 partite nella prima stagione con la nuova casacca. Nei due anni successivi (in cui la squadra va malissimo) è costretto a passare più tempo in ospedale che a casa. Impossibile giocare. Si riabilita e si infortuna di nuovo con velocità terrificante.
Nel 1981 si convince a provare una serie di interventi ricostruttivi per cercare di risolvere la situazione del suo piede sinistro ormai seriamente compromesso. Il recupero è lungo e complesso e molti specialisti maturano la convinzione che la sua carriera sia semplicemente finita. I compagni di squadra malignano a proposito di “malattie immaginarie” visti i tempi di recupero e la convalescenza in cui è spesso costretto al riposo assoluto.
Levin è furioso e incapace di risalire la china: ci sono pettegolezzi sulla sua intenzione di abbandonare la squadra, situazione di cui approfitta Donald Sterling che rileva la franchigia per 12.5 milioni di dollari. Si susseguono cause legali del vecchio proprietario nei confronti di Walton e dei suoi dottori, mentre si trascina da tempo quella tra Bill e il medico dei Blazers. Il capolinea è all’orizzonte. Dietro l’angolo c’è invece una nuova rinascita.
Alla fine dell’estate del 1982, dopo due anni e mezzo di dolorose operazioni chirurgiche e contro il parere della quasi totalità di vari luminari ortopedici, il Grande Rosso comunica di essere pronto per affrontare il training camp. La risalita è lenta, costante e francamente sorprendente.
Tre stagioni di paziente affinamento fisico e di lavoro sul campo pagano preziosi dividendi e progressivamente il numero di partite giocate raggiunge una quota apprezzabile, dimostrando di essere tornato a un livello di gioco più che soddisfacente. Non è più in grado di influenzare il destino di una squadra, ma riesce a incidere in modo significativo sull’andamento delle partite. L’introduzione del tiro da tre punti varia il gioco nel modo a lui più congeniale: sa di avere poco tempo per vincere ancora e alla soglia dei 32 anni cerca di approdare ad una contendente al titolo. La sua lunga assenza e il tempo necessario per recuperare ha praticamente ucciso il progetto della NBA a San Diego, uno dei più grandi rimpianti della carriera. I primi approcci con Sterling (deciso a forzare la mano per un trasferimento illegale a Los Angeles della franchigia) lo esortano a cambiare aria con grande determinazione.
L’ultima corsa con Boston (1985-1990)
Seguono contatti con le due superpotenze del tempo: i Lakers di Magic Johnson e i Celtics di Larry Bird. Il Grande Rosso non è in grado di superare alcun tipo di visita di controllo e rappresenta una notevole incognita nonostante gli incoraggianti progressi. I lacustri si muovono inizialmente con grande rapidità ma si arenano ben presto sul tema della condizione fisica. Con la situazione in bilico, sono i senatori di Boston a fare la differenza. Red Auerbach registra il desiderio delle stelle biancoverdi e si limita ad un accordo tra gentiluomini. Walton assicura verbalmente di poter garantire almeno una stagione produttiva come riserva di lusso, questo basta al grande capo dei Celtics per correre il rischio ed approvare i pessimi test medici sotto la sua responsabilità. L’accordo si chiude con un prezzo più alto del previsto: i Clippers ricevono in cambio Cedric Maxwell (MVP delle Finals ’81) e una prima scelta. Sterling vende cara la pelle.
Il nuovo pubblico lo accoglie subito con entusiasmo e una commovente standing ovation al suo esordio. Il neo arrivato dei biancoverdi supera ogni più rosea aspettativa: gioca 80 partite (record in carriera), sfodera l’entusiasmo di un rookie e garantisce 20 minuti di assoluta qualità. Trasforma la squadra (solo una sconfitta in casa nel corso della stagione) in una corazzata, impreziosendo quello che per molti appassionati è il roster più formidabile della storia delle lega, e di certo la squadra migliore dell’epopea di Larry Legend. Il suo approccio si fa sentire anche negli allenamenti che diventano ancora più divertenti e competitivi del solito. I suoi passaggi e le sue invenzioni dal post sono una delizia per il pubblico del Garden. A fine stagione, oltre al titolo, arriva anche il riconoscimento come Sesto Uomo dell’Anno. L’unico inconveniente fisico dell’annata è la “solita” frattura del naso.
La stagione successiva la dea bendata e il martoriato fisico del californiano presentano di nuovo il conto, con i relativi interessi: scende in campo solo dieci volte e non riesce a rientrare per i delicati playoff del 1987 per un micidiale mix di problemi. È spesso invocato dal pubblico che spera sempre di vederlo recuperare in extremis, e per questo rimane a roster anche l’anno successivo ma senza mai scendere in campo, disperso nella lista degli infortunati e negli infiniti protocolli di riabilitazione.
Le porte della NBA sembrano ormai chiuse e nell’estate del 1988, il destino di Walton incrocia fugacemente il campionato Italiano: Napoli sta costruendo una squadra ambiziosa e lo invita per un periodo di prova. La dirigenza è consapevole della condizione precaria del giocatore ed è pronta a chiudere un occhio sull’esito degli esami a cui viene sottoposto. Eppure, al momento del check medico, la situazione è talmente compromessa che risulta impossibile firmare il contratto per la società partenopea. Della sua avventura resta qualche foto scattata sul lungomare e qualche video dei pochi allenamenti disputati con la squadra. Bill non si dà per vinto e lavora incessantemente per altri due (dolorosi) anni alla ricerca di una nuova possibilità. Sventola bandiera bianca e si ritira ufficialmente solo all’inizio del 1990, quando l’ennesimo grave infortunio lo convince ad abbandonare definitivamente le sue ambizioni agonistiche.
Retaggio
Il prodotto di UCLA ha scritto pagine importanti della storia del gioco in brevissimo tempo. L’arco temporale della sua avventura è di quattordici stagioni ufficiali, ma gli infortuni ne hanno cancellato circa nove e mezzo. Le sue skill complessive (un rimbalzista ed un difensore dominante con l’abilità di un play sopraffino) sono ancora oggi un assoluto Gronchi Rosa. Se nel gioco moderno i centri hanno sdoganato ogni sorta di qualità nella metà campo avversaria, la doppia dimensione offensiva/difensiva è spesso un assoluto miraggio.
Walton ha pagato lo scotto delle sue convinzioni prima di stemperare i suoi atteggiamenti, divenuti col tempo universalmente apprezzati tanto da diventare un ambasciatore della NBA. La sua passione per la competizione lo ha portato a travolgenti vittorie, ma anche a trascorrere buona parte della sua vita in ospedale e in sala operatoria, tanto che il suo fragilissimo fisico si è fatto sentire anche dopo il ritiro: dopo un periodo di lancinanti dolori alla schiena ha valutato persino il suicidio e ha perso il suo lavoro di commentatore sportivo alla ESPN, un’attività che ha segnato il suo corso da ex giocatore. Per diverso tempo è stato costretto a dotarsi di una speciale sedia pieghevole pronta a dare sollievo a schiena e ginocchia in occasione di ogni uscita pubblica.
L’ennesima operazione (la numero trentasei o trentasette?) lo ha poi finalmente restituito ad una vita normale e al suo lavoro di analista per il celebre network sportivo. Walton ha fatto la differenza anche in questo campo, capitalizzando al meglio la sua inventiva e la notevolissima cultura generale. Il suo collega Jim Gray lo ha fotografato alla perfezione: “È probabilmente l’unica persona che riesce a legare assieme con un ragionamento efficace e nella stessa frase: Madre Teresa, Michael Jordan, il cambiamento climatico, il muro di Berlino e Baryshnikov”. Un personaggio fuori da ogni schema, sempre in grado di rialzarsi da ogni rovescio per tornare in sella. Un innovatore del gioco e una mente fertile che ha fatto scuola anche dietro a un microfono. Un’enciclopedia vivente dei fondamentali poi studiata e replicata da buona parte dei lunghi moderni come Tim Duncan. La sua vena goliardica ha contribuito a rinfrescare l’ingessato panorama degli analisti NBA. Ha un notevole seguito di ammiratori che estrapolano in continuazione le frasi migliori dei suoi commenti.
Un pioniere che ha rubato il cuore di chi lo ha visto giocare e non lo ha mai reso indietro.