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Il posseduto
08 set 2015
Jorge Sampaoli è ribelle, bipolare, metodico, pazzo, ma soprattutto ossessionato. Viaggio nel suo mondo allucinato.
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25 min
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Jorge Sampaoli non sembra avere la credibilità del guru, avvoltolato nelle sue tute da allenamento acetate, nei suoi piumini imbottiti che sembrano risucchiarlo. Però ha la scorza dura delle testuggini, e conosce il senso della rivalsa, come tutti i chacareros, i nati alle periferie della periferia, chi viene dalle campagne, dal mezzo del nulla.

Una narrativa di Jorge Sampaoli non può prescindere dall’utilizzo di termini che appartengono al campo semantico della bipolarità: eccentrico, ma anche metodico, ribelle, ma disciplinato, schiavo delle sue ossessioni fino alla paranoia. Più che uno dei maggiormente quotati allenatori di calcio al mondo pare un maestro elementare harleysta, un frequentatore di sagre paesane, di quelli che passano le serate davanti alla giostra del pungiball per dimostrare, non si sa bene a chi, forse a tutti, quanto siano forti, o sottovalutati.

Palingenesi

Gli spalti del campo dell’Alumni di Casilda, cittadina della provincia di Santa Fe non distante da Rosario, sono stati ridipinti di fresco, e nella palestra sono arrivati nuovi macchinari grazie a una sua donazione.

L’Alumni è la squadra in cui la parabola di Sampaoli è iniziata: la mia squadra, ripete costantemente. Nel 1992, poco più che trentenne, li ha portati alla conquista della Liga Casildense, il campionato provinciale: intervistato da una tv locale ha detto: «Non mi sento campione. El fútbol no termina acá. Non finisce qua».

Tarchiato, con una camicia a fiori molto-anni-novanta insufflata nei pantaloni a vita alta, le parole di Sampaoli sono quelle di un tecnico dal credo solido, destinato ad altri e più alti palcoscenici. Oppure quelle di un pazzo che ci crede tantissimo.

Nel 1996, mentre il suo Alumni sta affrontando il 9 de Julio de Arequito, è inquieto, impaziente, agitato. Finisce per venire espulso, e ancora non sa che l’idea che gli balena per la testa negli attimi immediatamente successivi sarà il rinculo del cane che darà principio alla deflagrazione della sua carriera, e della sua mitografia.

In quegli anni lavora a Los Molinos, un paese di poche migliaia di anime, come ufficiale del registro civile. Divide il suo ufficio con un giudice di pace e un contabile. Non deve avere una vita stimolante o entusiasmante, perciò non mi sorprende che la fiamma interiore gli abbia suggerito che per continuare a seguire i suoi ragazzi sarebbe dovuto rimanere in qualche modo con loro, ma con un gesto folle: vede un albero non distante dal campo di gioco, ci si arrampica, impartisce indicazioni dalle fronde.

C’è un non so che di primitivo, nel gesto di arrampicarsi su un albero, l’istinto animale di mettersi al riparo e al contempo guadagnare una posizione privilegiata per guidare l’attacco, o anche solo per avere una prospettiva diversa. Nelle foto che lo ritraggono seduto sui rami, vestito di nero, una maglia attillata che mette in mostra i bicipiti scolpiti, un principio di calvizie, occhiali scuri da pensatore maudit, Sampaoli è un Barone Rampante che si compiace di quanto il mondo, osservato da là, sia differente, eppure confacente alla sua visione.

Un fotografo de La Capital lo immortala. Il giorno successivo la foto viene pubblicata in un articolo che è un ritratto di Jorge, in cui si racconta, in cui dice frasi che dovevano sembrare stonate, fuori luogo nella sezione dedicata ai campionati amatoriali: «Le mie squadre si caratterizzano per pressare l’avversario nella loro metà campo, spostare il gioco sulle fasce, affondare ai lati. È importante sapere chi è l’avversario, come gioca, fare una scala di valori e lavorare su quella». E ancora: «Bisogna provare a copiare le squadre d’élite, come il Milan o l’Ajax». Anche se stai facendo l’allenatore di una squadra amatoriale nel santafesino.

Il vulcanico presidente del Newell’s Old Boys, Eduardo José López, legge l’articolo e si innamora all’istante di Sampaoli: gli offre un contratto per guidare le giovanili, e solo un anno più tardi gli propone di portare il suo calcio audace, spogliato da ogni inibizione, fresco come sanno essere le cose più genuine, all’Argentino de Rosario, società satellite dei leprosos che militava in Primera B, la terza serie dal calcio argentino.

Il fatto che a metà anni Settanta nel Salaíto avesse giocato Marcelo Bielsa è solo una coincidenza priva di significato, anche se aiuta a fissare la seconda tappa del gioco unisci i punti che ci troviamo a intraprendere ogni volta che parliamo di Jorge Sampaoli: arrampicata sull’albero, e poi, inevitabilmente, Marcelo Bielsa.

Una Fallacia Classica?

Parlare di Sampaoli è sempre, per sua stessa ammissione, parlare di Marcelo Bielsa. La relazione tra i due mi fa tornare in mente certi luna park di provincia che frequentavo da ragazzino, pieni di giostre e sagomati che scimmiottavano i personaggi della Disney, pallide e grottesche imitazioni: per un lunghissimo tratto della sua carriera, Sampaoli è stato il surrogato di provincia e a buon mercato di Marcelo Bielsa, e ha sovrapposto così tanto la sua carriera alla sua che sono arrivati a definirlo El Bielsa de los pobres, il Bielsa dei poveri.

Paván, autore della sua biografia No escucho y sigo, con molta onestà intellettuale traccia i confini della grande fallacia classica che avvolge Sampaoli: «Ai giornalisti piace molto fare profili, ma spesso si finisce per travisare o magnificare le persone. Credo che Sampaoli sia bielsista nella matrice, nella formazione, ma non sono alla fine tratti così espliciti: in questo momento somiglia di più a Pep. Dire che è bielsista è una semplificazione».

È chiaro che si tratti di una fallacia tutt’altro che ingiustificata, anzi piuttosto indotta da certe dichiarazioni di Sampaoli che puntualmente ricorrono quando, come Marco Polo, cerchiamo di dipingere paesaggi lontani tracciando similitudini vicine: «Ero sempre assorto dal calcio, non pensavo ad altro. Letteralmente. Sono arrivato a un punto in cui ero veramente bielsadipendente. Andavo a correre con il walkman, dentro avevo cassette con la voce di Bielsa. Registravo tutte le interviste che rilasciava, lo seguivo come un vero fan. Ero ossessionato dal suo Newell’s, sapevo tutto di lui, quello che diceva, quello che aveva fatto da quando allenava nelle categorie inferiori».

Nell’ingenuità con cui Sampaoli racconta l’ossessione per Bielsa ci sono, allo stesso tempo, i tratti inquietanti dello stalker e la felicità bambina del fanatico: «Una volta sono andato a Córdoba dove interveniva in una conferenza con Carlos Griguol (storico e longevo allenatore, con un passato vittorioso al Rosario Central, dove conquistò il secondo titolo nazionale dei Canalla, NdA): mi sono sempre identificato con la sua filosofia, col suo progetto di calcio offensivo, con il suo modo di interpretare il gioco».

Quando El Loco era tecnico della Selección albiceleste, Sampaoli macinò i 350 chilometri che separano Casilda da Ezeiza, alla periferia di Buenos Aires, dove si trova il centro d’allenamento federale, per osservarlo attraverso un cannocchiale: «Gli esercizi tattici erano favolosi». È osservando Bielsa che Sampaoli ha forgiato lo stile di gioco, raffinato poi col tempo, che ha sempre cercato di trasmettere alle sue squadre: i germogli sono gli stessi. Una linea difensiva a tre, un centrocampista di contenimento pronto ad abbassarsi per permettere ai terzini di trasformarsi in ali, un enganche alle spalle di un attacco a tre, con gli esterni che convergono negli spazi liberati dal falso nueve.

Eppure Sampaoli non si è limitato a ricalcare sulla carta carbone i movimenti disegnati in campo da Bielsa: li ha portati a un livello successivo, in quel limbo fluido in cui l’irriducibilità non esiste, in cui si gettano le basi per l’evoluzione di un’idea. «Non credo che mi piacerebbe lavorare per Bielsa: per me è il miglior allenatore del mondo, ma preferisco che resti il mio mito, la mia fonte d’ispirazione, seguirlo senza disturbarlo».

In tutte le interviste che ho letto in cui Sampaoli parla di Bielsa non lo chiama mai El Loco: forse per quella forma di tacito rispetto che impedisce a un pazzo di dare del pazzo a un altro pazzo. Vale anche se sostituiamo la parola pazzo con visionario.

Metodicità e disciplina

Al pari di quello di Bielsa, l’apprendistato calcistico di Sampaoli ha avuto bisogno di due condizioni essenziali affinché potesse giungere a compimento, il suo concetto di calcio trasformarsi da crisalide in farfalla: che si svolgesse fuori dai confini dell’Argentina e che fosse parcellizzato, spezzettato, mai troppo continuativo.

Se la culla dell’idea di gioco ultraoffensivo di Bielsa è stata in Messico, tra Atlas e América de México, quella di Sampaoli è stata in Perù: sei anni spesi tra Juan Aurich, Sport Boys, Coronel Bolognesi e Sporting Cristal.

Quando è stato ingaggiato dallo Sport Boys gli sono stati offerti 2500 dollari da dividere con il resto dello staff tecnico: il club non viveva in buone acque, in pieno svolgimento del campionato la crisi si acuì fino a diventare irreparabile. Jorge perse il suo appartamento, mesi interi di stipendio: si trovò a vivere in una caserma di pompieri. Alla Compañia de Bomberos de Callao lo ricordano come un uomo molto mite e gentile, che attraversava in silenzio i corridoi e si limitava a dire buongiorno o buonasera: lo soprannominarono el hombrecito, l’ometto.

Una nostalgica e lunga retrospettiva dedicata da un programma di approfondimento calcistico peruviano all’evoluzione dei moduli di Sampaoli durante la sua permanenza sulle Ande. L’aspetto interessante, direi quasi la morale, è che il tecnico di Casilda non è uno Zeman ancorato al suo schema tattico, ma che amasse sperimentare, o forse stesse solo cercando l’ago della sua bussola calcistica. I passaggi dal 4-3-2-1 al 3-4-3 con un centrocampo a rombo fino al 4-2-2-2 dell’ultima stagione allo Sporting Cristal sono le tappe del morphing che trasformano i suoi occhi vispi in quelli furbi, ma saggi, del maestro Bielsa.

L’ultima tappa peruviana della carriera da tecnico di Sampaoli avrebbe potuto segnarne la fine: invece ha finito per dargli nuova propulsione, per temprarlo come si fa con l’acciaio per renderlo refrattario alle avversità.

Quando arriva allo Sporting Cristal, nel 2007, si trova in dote calciatori come El Camello Soto e Palacios: una specie di eroi nazionali, con il primo che avevano guidato i Cerveceros fino alla finale di Libertadores dieci anni prima. Mostri sacri che l’ultimo affronto che si aspettano di fronteggiare è quello di un tecnico giovane e sconosciuto che gli impone tre sedute d’allenamento tattico e fisico al giorno. Jorge Soto, soprattutto, non esitò a dimostrare la sua indolenza. Ed era il calciatore più pagato del calcio peruviano: ogni sua parola era legge. Infatti Sampaoli finì per essere esonerato.

«Le avversità mi hanno fatto crescere. Mi hanno dato forza, convinzione. Ho capito che le cose sono andate male perché tra le altre cose mi è mancata la decisione nel sostenere quanto pensavo: non sono riuscito a convincere i giocatori della bontà delle mie idee».

Qualche mese prima dell’esonero, in una gara di Pre Libertadores, il suo Sporting Cristal era caduto sotto i colpi impietosi dell’América de México: 5-0 all’Azteca. «Dopo quella sconfitta ho scritto una lettera a Bielsa: gli ho chiesto scusa per non aver saputo difendere lo stile, l’idea. Per non esserne stato all’altezza».

Sampaoli demolito da una doppietta di Cuauhtémoc Blanco e una di Salvador Cabañas. Ma anche, soprattutto in occasione delle prime due reti, dalla sua difesa altissima, oltre che decisamente poco attenta.

Dopo un’esperienza interlocutoria con il calcio cileno spesa guidando l’O’Higgins, Sampaoli accetta di trasferire le sue idee di calcio in Ecuador, firmando per l’Emelec di Guayaquil. «Avevo stretto amicizia con gli aiutanti di Bielsa. Fu Vivas a raccomandarmi Sebastián Beccacece, che diventò il mio secondo. Un altro silenzioso fanatico di Bielsa».

L’Emelec, sotto la sua guida, nel giugno del 2010 viene eletta dalla Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio come miglior squadra al mondo del mese: questo significa che a trenta giorni dall’inizio dei Mondiali sudafricani non c’era compagine al mondo che per risultati, coefficienti e stile di gioco espresso fosse migliore di una allenata da Jorge Sampaoli. Marcelo Bielsa, alla guida della Nazionale cilena, propone a Beccacece di seguirlo nell’avventura mondiale: Beccacece, pur di rimanere vicino a Sampaoli, rifiuta.

U come Una

Prima di assumere l’incarico di direttore tecnico della Roja, di condurre il Cile in Brasile per i Mondiali e infine guidare la Sele alla vittoria in Copa América di quest’anno, l’unica esperienza davvero entusiasmante di Jorge Sampaoli su una panchina è stata quella vissuta in Cile, tra il 2010 e il 2012, alla guida della Universidad.

Con La U Sampaoli è stato tricampeon nazionale: ha trionfato ininterrottamente dall’Apertura 2011 all’Apertura 2012, ha conquistato la Copa Sudamericana del 2011 da invitto e con solo due reti al passivo, ha inaugurato e portato a compimento il ciclo di vittorie più longevo non solo per gli Azul Azul ma per tutto il calcio cileno.

A La U era arrivato dopo l’avventura con l’Emelec, con l’infausto compito di sostituire nell’immaginario dei tifosi la figura di Diego Pablo Simeone, che dopo i successi argentini con Estudiantes e River Plate era stato vicinissimo ad accettare il trasferimento in Cile: poi aveva finito per accettare l’esperienza italiana, al Catania.

Parte della dirigenza Azul Azul non aveva vissuto benissimo le scelte societarie: «A volte mi vergogno di essere nel direttivo», confessò Carlos Heller. «Mettere sotto contratto uno senza esperienza e non investire su uno più conosciuto, davvero non capisco».

A Jorge vengono offerte una magione in un complesso residenziale e una macchina di lusso. Il suo accontentarsi di un’auto usata e un appartamento in centro sono eloquenti dell’umiltà con cui Jorge accettò l’incarico, certo, ma anche—forse è un mio pensiero non privo di malizia—un furbo modo di iniziare un’avventura che muove i passi dalla delusione più cocente e ha come solo obiettivo la redenzione, la riabilitazione, l’affermazione.

«Nel 2011 La U ha giocato partite addirittura migliori di quelle del Barcellona», affermerà tronfio a risultati conseguiti. «Tutta l’Argentina parlava della U, e guardate che è molto difficile che in Argentina trovino il tempo per parlare di una squadra cilena».

«[Il record di vittorie consecutive con la U, NdA] è il prodotto del nostro essere fedeli a un’idea. Siamo una squadra che cerca di giocare sempre alla stessa maniera, a volte con più convinzione o successo, a volte meno».

Nel giro di dieci anni Sampaoli è passato da essere un allenatore pressoché esordiente e sconosciuto catapultato nel calcio peruviano a uno dei tetti più alti del Sudamerica: nel 2012 viene nominato miglior allenatore subcontinentale dell’anno, settimo miglior tecnico al mondo, un’escalation che attira le attenzioni del calcio emergente—gli Emirati Arabi Uniti gli offrono un contratto da 6 milioni di dollari, che declina—tanto quanto dell’Europa.

In un pezzo successivo all’exploit de La U Gabriele Marcotti si chiedeva se Sampaoli fosse pronto a varcare l’Atlantico o la sua esperienza fosse soltanto il frutto estemporaneo di qualcosa di unico e irripetibile che poteva accadere solo in un determinato hic et nunc. La risposta credo sia nella coerenza con la quale Sampaoli ha accettato le redini della Roja: non ha ceduto un metro del suo stile.

Raccogliere un’eredità

«Bielsa è arrivato nel momento in cui il Cile era in fondo al pozzo: ha dato una filosofia alla Nazionale che con il tempo si è cristallizzata. Sampaoli è arrivato in un punto in cui eravamo quasi fuori dalla corsa per la qualificazione ai Mondiali: ci ha trasmesso dinamismo e fame di vittoria. Si può dire che Bielsa ci abbia dato la filosofia, e Sampaoli ci abbia portato alla gloria», ha spiegato Jorge El Mago Valdivia.

Ciò che ha fatto Sampaoli rispetto al lavoro pregresso intrapreso nella Sele cilena da Bielsa è paradigmatico di chi sia Sampaoli rispetto a Bielsa: se El Loco è l’etica, Jorge è il pragmatismo.

Sampaoli ha dato alla sua squadra un’organizzazione ferrea, ma al contempo ha lasciato che il flusso di gioco fosse più libero, più fluido, dando vita a quanto di più simile a un’ode alla sincronia che il calcio degli ultimi anni abbia conosciuto. Nel Cile di Sampaoli non si ha mai l’impressione che il pallone viaggi da un giocatore all’altro, ma che avvenga il contrario. Al contempo ha rafforzato l’idea di partenza secondo quale la difesa è il miglior principio di attacco, congestionando tutti i canali e le linee di passaggio avversarie, pressando fin dalle zone più alte del campo, racchiudendo le linee in venticinque metri.

El gueguenprésin.

«Il sistema madre è sempre il 4-3-3, poi ci sono sistemi adattati in base agli avversari, ma tutto deve essere racchiuso in questi dettami: pressione costante, recupero palla immediato, mai avere paura per quanto le squadre contro le quali stai giocando siano più forti, non pensare mai a difendere, ma non dare la possibilità di attaccarti. Deve esserci una caratteristica costante, che è la ribellione».

Ossessione Vol. 2

Liberatosi del fardello del confronto con il Venerato Maestro, Sampaoli se ne è autoinflitto un altro, che non si può esprimere in italiano meglio di quanto faccia quella parola inglese che è workaholic-ness. Ossessione per il proprio lavoro.

«Anche quando sto riposando la mia mente non riesce ad allontanarsi dal calcio, non riesco a disconnettermi». «Se una notte non sogno calcio mi preoccupo. Davvero, mi piacerebbe sapere se esiste qualcosa al mondo che sia più interessante del calcio».

Durante la sua esperienza come direttore tecnico della Roja Sampaoli ha portato la sua mania alle estreme conseguenze: ogni giorno arriva al centro Juan Pinto Durán, la Coverciano andina, alle otto del mattina e non se ne va prima delle nove di sera. A casa passa il tempo a osservare dvd o analisi degli avversari. Il suo biografo Pablo Paván ha raccontato che il lunedì successivo alla vittoria della Copa América era già in ufficio, e aveva già osservato per due volte la partita contro l’Argentina.

Ho letto un’intervista in cui gli chiedevano quale fosse l’ultimo libro letto. Ha risposto così: «Non riesco a concentrarmi su un libro: lo inizio, leggo le prime pagine, poi mi appare Wayne Rooney e inizio a pensare a come posso fare per marcarlo». Ho trovato il collegamento tra i libri e Rooney assurdo, in un certo senso malato. Non vorrei mai avere con il mio lavoro il rapporto che Sampaoli ha con il suo.

Sacrificio

Analizzando la figura di Sampaoli viene da provare un po’ di compassione per quest’uomo catapultato in una spirale di rincorsa al successo, all’affermazione, che non parte da chissà quale brama di soldi o riconoscimenti, ma che sembra quasi un percorso di espiazione che affonda le radici nelle ferite purulente del rimpianto e del sacrificio.

Mi sono chiesto se questa insoddisfazione di base non abbia un principio psicanalitico nella delusione di non essere mai diventato un calciatore professionista, di non aver potuto avere la possibilità di calcare il campo del River, come sognava da ragazzino, per via di un brutto infortunio (frattura esposta di tibia e perone) che ne ha troncato le velleità da calciatore quando aveva solo 20 anni.

Sergio Abdala, suo compagno di squadra nelle giovanili del Casilda e attuale presidente dell’Alumni dice che «è un vero peccato: giocava da carrillero, era mancino, la destra la usava solo per camminare: era rapido, sfrontato e agguerrito, oltre che un gran motivatore per i compagni». Se le cose fossero andate diversamente forse ci ricorderemmo di un Sampaoli anziché di un Placente.

La tenerezza della nipotina: «Mi dicono di tutto, mi dicono “venduta”. Perché io tifo per zio, è come se fossi cilena».

C’è un video in cui nel bel mezzo di un viaggio alle origini di Sampaoli gli inviati del programma si imbattono nel figlio: gli somiglia moltissimo, ha lo stesso sguardo triste e rassegnato al suo destino, che penso sia condiviso. «La cosa che interessa di più a mio padre è il calcio», dice, ma mi sembra di scorgere nell’inflessione di come lo dice una punta di dispiacere. «Se mi guardo intorno mi rendo conto di aver abbandonato la mia famiglia per il calcio, ma quel che è fatto è fatto», dice Sampaoli in più di un’intervista. «Ho sacrificato l’infanzia dei miei figli, i compleanni, la malattia di mia madre. [...] Se potessi tornare indietro forse sceglierei di stare con loro». «Lo so che mi hanno perdonato: il fatto è che chi non se lo perdona, invece, sono io».

In un’altra occasione ha dichiarato: «Il sacrificio è la mia virtù principale. E senza capire cos’è il sacrificio è difficile capire come sono fatto io». Guardare le immagini di Sampaoli che fa un giro di campo olimpico dopo la vittoria della Sudamericana affiancato dal figlio, che è con lui pur non dando l’impressione di stare davvero con lui, soffermarmi sulla manina stretta in quella del padre durante l’intervista ai tempi dei successi di inizio carriera con l’Alumni di Casilda, mi hanno fatto capire che il sacrificio è soltanto la virtù dei dannati. O dei santi. E comunque nove su dieci non ne vale la pena.

Fino all’estremo limite della paranoia

C’è da intendere che una dedizione così completa e totalizzante al calcio possa provocare alcune distorsioni nell’interpretazione della quotidianità. Ho letto un racconto sui primi giorni dell’esperienza di Sampaoli come DT del Cile. Mentre teneva una delle prime sedute di allenamento a Rancagua, su un campo occultato alla stampa da siepi altissime, capitò che una tv locale inviò un drone a sorvolare il campo per spiare metodi o forse più semplicemente solo per avere uno scoop, qualcosa di cui parlare. Sampaoli non solo interruppe l’allenamento, ma fece evacuare il centro tecnico e intervenire i carabinieri. Successivamente arrancò la pretesa che tutti gli abitanti del quartiere che circondava il campo venissero schedati.

«Sto tutto il tempo con il pensiero che vogliano spiarmi. Non voglio dare informazioni all’avversario: ci sono tecnici ai quali non dà fastidio, a me sì. Un dettaglio, una giocata preparata possono risultare significative per vincere o perdere una partita. Sì, è diventata un’ossessione per me».

Edutechnology

Trascendendo dalle derive paranoiche, l’approccio al mestiere di Sampaoli è fortemente forgiato da un taglio educazionale. La sua promessa di gioco devoto allo spirito e all’estetica dell’attacco ha bisogno di formazione, o meglio di convincimento degli interpreti. «I miei meccanismi, le mie strategie, si basano su quello che uno sente. E poi sull’assenza di obblighi e pressioni. L’educatore deve sviluppare stimoli: creatività, entusiasmo, allegria. Non mi vedo a dare ordini: per educare bisogna sedurre». «Gli ordini, quando vengono impartiti, generano discriminazioni: fanno sì che qualcuno possa sentirsi migliore di altri, o peggiore. E la discriminazione genera risentimento, che è il peggior nemico dell’educazione».

Dopotutto a Sampaoli tutto si può dire, che sia esigente o ferreo nell’applicazione dei suoi dettami, ma non che sia severo. Al suo arrivo alla Roja ha riabilitato Jorge Valdivia, esautorato da Borghi dopo alcuni eccessi di estro fuori dal campo, soprattutto con il bicchiere tra le mani. Allo stesso modo ha scongiurato l’assenza di Vidal dall’ultima Copa América perdonandogli l’incidente d’auto causato dall’eccessiva velocità.

«La caratteristica più importante che deve avere un leader è la convinzione. Non può mentire ai suoi seguaci, perché se mente se ne accorgono. Non ci sono gruppi buoni o gruppi cattivi: ci sono solo buoni o cattivi leader». Un buon leader, un leader illuminato, è il leader che capisce che nel calcio si ha sempre a che fare, per quanto professionisti, con venti ragazzi.

Per allenare i suoi alle situazioni tattiche da fronteggiare in partita, Sampaoli ha scelto un approccio ludico. «Abbiamo sviluppato un software di simulazione che ci permette di giocare alla Play online contro i giocatori». Il super-user è Felipe Flores, uno dei membri dello staff tecnico. In base a ogni singolo giocatore, Sampaoli suggerisce a Flores come giocare: l’obiettivo è stimolare le sinapsi del giocatore, fargli incamerare informazioni fuori dal campo, informazioni che torneranno utili, conservate nei cassetti della memoria, in partita.

Nel marzo del 2014, poi, durante la tournée europea di preparazione ai Mondiali del 2014, in Austria, ha fatto librare in volo sul campo d’allenamento un drone pilotato da Flores: ha registrato la seduta, poi l’ha mostrata ai suoi uomini, evidenziando i loro movimenti, soprattutto quelli sbagliati. Per un attimo deve essersi sentito ancora sull’albero, come quella volta a bordocampo a Casilda.

Ribellione

Su un bicipite Jorge Sampaoli porta tatuata una frase dei Los Callejeros che dice «No escucho y sigo / porque mucho de lo que está prohibido me hace vivir». Nell’educazione sentimentale di Sampaoli c’è molto rock argentino: Los Piojos, Los Fabulosos Cadillacs, Charly García e poi i controversi Los Callejeros, protagonisti più o meno volontari di una delle pagine più nere della cronaca argentina degli ultimi anni: nel 2004, durante un loro concerto alla discoteca República Cromañón, un incendio ha causato la morte di 194 persone, e più di 700 feriti. Sampaoli ha più volte manifestato la sua solidarietà al frontman del gruppo, che è poi l’autore della frase che porta tatuata, Patricio Fontanet, recandosi anche al carcere in cui ha scontato la sua reclusione, a Ezeiza. Ironia della sorte, non lontano dal campo d’allenamento in cui andava a celebrare la sua passione per Bielsa.

Non sono riuscito a farmi un’idea compiuta su dove si trovi il giusto nell’affaire Fontanet, e ai fini di questo ritratto di Sampaoli sarebbe anche irrilevante: piuttosto mi sono chiesto cosa sarebbe quel qualcosa di proibito che nella visione di Sampaoli manda avanti la sua vita. Forse è qualcosa di molto più intimo e meno plateale di quel che vorremmo, più sottile e cerebrale: qualcosa di non troppo inaccettabile, tipo la sua ossessione per il calcio, per il lavoro, per le sue convinzioni. Anche contro chi gli dice che sta sbagliando: no escucho y sigo.

Due frasi: parlando della sua infanzia maledetta dice: «Quando ero piccolo prendevo l’autobus per andare a Buenos Aires, tutte le domeniche, per seguire il River: 400 chilometri, dodici ore di viaggio. Altre volte prendevamo il treno, ma senza pagare, perché non avevamo i soldi». E poi, interpellato sulla delicata questione politica cilena, sulle contestazioni al governo degli ultimi periodi, basate perlopiù sulla politica educativa: «Credo che per via delle radici mapuche o indigene ci sia molta attitudine alla ribellione tra i cileni. Il problema è che spesso rimane sommersa, dovrebbe affiorare di più»

Da queste due frasi, scollegate tra loro, si intuisce che il senso della ribellione per Sampaoli è ingenuo, permeato di buoni sentimenti, legato a un’idea di sinistra sessantottina, guerrigliera, ma con le idee al posto delle armi: una ribellione da potere alla fantasia, terzomondista, guevariana.

«Mi piacerebbe guidare un gruppo di giocatori tipo in Iran, in Iraq, nel Medio Oriente. Perché sono culture nelle quali la gente si immola per un ideale, sbagliato o meno. Quello che voglio dire è gente che dà la vita per una causa. Credo che se riesci ad arrivargli, a quei tipi, sarebbero capaci di fare di tutto pur di seguire il tuo messaggio».

Forse non è un caso che un altro dei suoi tatuaggi sia una frase di Ernesto de la Serna Guevara, rosarino più o meno come lui: «Non si vive celebrando vittorie, ma superando le sconfitte».

Argentinità

Riusciremo mai a vedere Sampaoli sulla panchina dell’Albiceleste? A giudicare dal suo pensiero è più facile che non trovarlo su una panchina qualsiasi della Primera: «Nel calcio argentino non ci sono laterali che offendono, non ci sono wines (ali, NdA), guardo il calcio argentino e non riesco ad appassionarmi: mi annoia, la stessa cosa che mi succede con il calcio italiano».

Eppure il suo attaccamento alla bandiera, come tutti gli argentini, è viscerale, emozionale, sinceramente sentito. Per questo non mi sono stupito nel leggere che subito dopo la vittoria contro la nazione che gli ha dato i natali, nella finale di Copa América, c’è stato chi ha visto in lui un uomo distrutto: per aver sopportato una pressione fuori dal comune, certo; per aver dovuto tenere fede ad aspettative che non avrebbero tollerato un risultato inferiore alla vittoria finale, ovvio; ma anche, forse, per aver dato un dispiacere al suo popolo. Mentre i giocatori festeggiavano per le vie di Santiago sull’autobus scoperto, lui si è defilato. «Ho molto rispetto per Michelle Bachelet», ha detto in seguito, «ma quello era un momento molto intimo tra giocatori, il presidente della ANFP, la presidenta e il popolo cileno. Quei festeggiamenti erano più per loro, che per me».

Epilogo (?)

Scemato l’interesse per il suo nome subito dopo la vittoriosa e per certi versi scontata parentesi della Copa América, l’hype attorno a Jorge Sampaoli è tornato a invigorirsi in seguito agli eventi, quasi contemporanei, dell’esautorazione del Piojo Herrera dalla panchina del Messico e dell’abbandono, anche questo non del tutto inatteso, dell’OM da parte di Marcelo Bielsa. Le speculazioni a tratti quasi sillogistiche che si sono innescate vorrebbero El Loco in Messico e Sampaoli a Marsiglia, o Sampaoli in Messico direttamente, come se seguire le orme del suo Maestro fosse un atto dovuto.

La federazione calcistica messicana sembra gli abbia offerto uno stipendio da otto milioni di dollari: tuttavia il suo contratto con la Roja è assai blindato, prevede una clausola rescissoria di 12 milioni di dollari e in fin dei conti, come il suo biografo Paván ha sottolineato, Sampaoli non è tipo da abbandonare un progetto in cui si sente coinvolto appieno. Che è poi un tratto caratteristico dei perseveranti.

Jorge Valdano ha raccontato un aneddoto che è assai eloquente della perseveranza di Sampaoli: «Un giorno mio fratello mi ha chiesto se avessi potuto incontrare un uomo che veniva da una città vicino alla mia e che stava facendo di tutto per mettersi in contatto con me. Alla fine ci siamo visti, in casa mia: mi ha tenuto per sette ore bloccato sul divano a farmi domande sul calcio. Qualche anno più tardi qualcuno mi ha mostrato una foto: non ho fatto fatica a riconoscere Sampaoli, l’uomo che mi aveva tenuto prigioniero in casa per un giorno intero».

La (nuova?) missione è quella di portare il Cile ai Mondiali di Russia del 2018, farlo con successo e coerenza con la sua filosofia. Il che non significa affatto che Sampaoli non continuerà a sperimentare moduli, studiare il gioco che forse non ama, ma che di certo lo ossessiona.

«Ho ancora l’aspettativa di abbattere barriere, anche se non so ancora quali saranno le prossime. La mia vita è semplice: mi sveglio e devo competere con qualcuno. Foss’anche un nemico immaginario».

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