2005
Diego Milito ha ossa lunghe e leggere come quelle degli uccelli, spalle aperte da tennista e un viso lungo e drammatico rasserenato da due grandi occhi chiari, di una dolcezza infantile. Si muove per il campo trascinando i piedi, il collo lievemente piegato sotto il peso della testa in un portamento al contempo vagamente indolente e allusivamente feroce.
Conta i passi in avanti e indietro per tenere la posizione rispetto all'avversario, e quando finalmente la palla arriva Milito la aggancia coi piedi come io o voi potremmo fare con le mani, la fa aderire agli scarpini senza lasciare luce, e se decide di puntare la porta abbassa la fronte e accelera di colpo, a passettini corti e velocissimi, come se volesse incornare il portiere. Ma è in prossimità dell'area di rigore che si manifesta il suo genio apollineo: nei sedici metri conosce angoli dello spazio e del tempo che per gli altri sono inaccessibili. Arriva a calciare in porta sempre attraverso la linea più breve, solo che la linea più breve per lui è impercettibilmente diversa da quella che vediamo io, voi, e soprattutto i difensori avversari. Tratta i decimi di secondo da alleati, e in cambio il tempo gli regala l'istante che gli serve a spezzare il respiro di portieri e difensori, e in parole povere a fregarli quasi sempre.
Ha un’intelligenza di gioco estrema, e alterna egoismo ed altruismo con una maturità che mi impressiona e che in qualche modo gli invidio – in un senso che trascende il calcio – e mi fanno pensare che dev’essere necessaria una grande disciplina per essere così intelligenti e allo stesso tempo così lineari e sintetici – di nuovo, non parlo solo di calcio.
Ho vent’anni, guardo Milito e lo vedo mettere insieme cose che non ho mai visto prima su un campo di calcio: calma e velocità, bellezza e inganno, grandezza e minuzia, attenzione e consapevolezza. Sono coinvolto da questo calciatore in un modo assoluto, che all’epoca non so spiegarmi ma adesso – dieci anni dopo – penso funzionasse più o meno così: ho vent’anni, e vorrei saper vivere come Milito gioca a calcio.
2008
Quello del 14 settembre 2008 è un pomeriggio arancio e blu di fine estate, col vento tiepido di mare che spazza il prato di Marassi e ispessisce l’aria di un eccitante sentore salmastro. Lo stadio si riempie in fretta e a me sembra che da un momento all’altro debba partire la sigla della Champions, ma è solo la seconda di campionato. Lo speaker scandisce la formazione ospite, piena di facce che noi tifosi del Genoa, al secondo anno di serie A dopo un lunghissimo purgatorio tra B e C, abbiamo visto per lo più in TV o nei videogiochi: Maldini, Pirlo, Kakà, Ronaldinho, Shevchenko.
Se uno scrittore fermasse il tempo nello stadio e stringesse sui singoli tifosi forse non troverebbe i simboli e gli incroci di De Lillo in Underworld, ma molto probabilmente scoprirebbe due cose: la prima è che la gente si abbraccia e si scambia pacche sulle spalle come se la partita fosse già finita e vinta, la seconda è che non si parla né della partita, né dei campioni del Milan, né di Borriello che torna da avversario, né della buona squadra che quest’anno il Genoa sembra aver messo su. I tifosi parlano tutti della stessa cosa, hanno tutti in bocca un nome solo.
Lo speaker scorre svogliatamente la lista delle riserve del Milan, fa una pausa e poi squilla: «E ora… la formazione… del Genoa!». La gente applaude forte. «Con il numero 83… Rubinho! Con il numero quattro… Criscito!». Salutiamo tutti i giocatori con l’”oé” rituale ma io quasi non sento i nomi. Non riesco a concentrarmi per capire se Gasperini se la gioca con la difesa a tre o a quattro, e in fondo non me ne frega niente. Come tutti gli altri sto aspettando che lo speaker dica un certo nome, per vedere l’effetto che fa. Sono tre anni, che aspettiamo di vedere l’effetto che fa.
«Con il numero quattordici… Sculli! Con il numero diciotto… Gasbarroni!». La pausa è studiatissima, tutto lo stadio trattiene il fiato. «Con il numero ven-ti-du-e… Die-go… Al-ber-to… MILITOOOOOOOOO!!!». La O finale si deforma in un boato simile a quello per un gol segnato, solo ancora più forte, e poi sfuma in un applauso ritmato. Quando le squadre entrano in campo mi alzo sulle punte dei piedi per cercare tra le bandiere e i fumogeni la sagoma di Milito, con quel senso di inquietudine che finisce sempre per amplificare o sporcare la felicità del ritorno: sei cambiato tu? Sono cambiato io?
«Questa è la mia casa, l’ho detto sempre».
Lo trovo e mi sembra sempre lo stesso, ma anche molto diverso. Sembra più alto di tre anni fa, ha le spalle ancora più larghe e quando va a prendere posizione per il calcio d’inizio mi sembra che abbia movimenti più lenti e meditati. Il 22 che porta sulle spalle (tre anni fa giocava col 9) ne raddoppia la spiritualità, e il primo maestoso tocco di palla spazza via ogni dubbio e dà inizio a qualcosa di diverso: una festa, che durerà un anno intero.
Le origini
Quella di Diego Alberto Milito, nato il 12 giugno 1979 in un sobborgo residenziale di Buenos Aires, già centravanti del Racing Avellaneda, del Genoa, del Real Zaragoza, di nuovo del Genoa, dell’Inter, di nuovo del Racing Avellaneda ed episodicamente della nazionale argentina, va raccontata prima di tutto come una stranissima storia di sottovalutazione. Una storia quasi inconcepibile nel globalizzato calcio moderno dove le grandi squadre si fanno chiudere il mercato dalla FIFA perché si fregano a vicenda i ragazzini di 15 anni ma poi lasciano uno dei più grandi attaccanti della sua generazione a fare secchiate di gol in squadre medio-piccole fin quasi a trent’anni. È anche una storia a lieto fine però, perché Milito faticherà il doppio degli altri a prendersi quel che gli spetta ma all’ultimissimo giro, si prenderà tutto o quasi in un colpo solo.
Ad esempio, la prima volta che sento nominare Diego Milito ne stanno parlando su una TV locale di Genova come del “Marco Delvecchio argentino”: con tutto il rispetto per il generosissimo attaccante allora della Roma, non esattamente il tipo di paragone che solletica la fantasia di un tifoso nemmeno ventenne.
La dubbia analogia nasceva forse dalla necessità di caratterizzare in qualche modo il venticinquenne attaccante che il Genoa ha appena acquistato per la rispettabile cifra di 3,5 milioni di euro dal Racing di Avellaneda. Anche la media gol, c’è da dire, contribuisce all’equivoco: 37 gol in 148 presenze col Racing fanno pensare ad un attaccante di manovra e non lasciano certo presagire che quel giorno il Genoa ha appena comprato il più grande centravanti della sua storia recente, e secondo alcuni della sua storia in assoluto. Si sa anche che Milito ha una presenza in nazionale, e che il ct dell’Argentina Marcelo Bielsa è un suo estimatore.
Se all’epoca ci fosse stato Youtube avrei trovato questo genere di video e avrei capito da solo che Milito era qualcosa di più del “Delvecchio argentino”.
È il gennaio 2004, il Genoa lotta per la salvezza in serie B e siamo nel mezzo della prima, vorticosa e a tratti lisergica campagna acquisti invernale di Enrico Preziosi. In una squadra in cui militano già le figurine di Aldair e Zé Elias arrivano altri nomi prestigiosi per la categoria come il capitano del Perugia Giovanni Tedesco, il centrale dell’Udinese Mohammed Gargo e il portiere Alessio Scarpi, ma anche oggetti misteriosi come il trequartista nippo-svedese Stefan Ishizaki, l’infortunato cronico Gianni Comandini e il portiere ex nazionale olandese (due presenze in amichevole) Oscar Moens. Naturalmente in un ambiente reduce da 10 anni di serie B e da un fallimento sfiorato prevale l’entusiasmo, e il caos viene accolto festosamente come un segno del fatto che il Genoa è tornato a partecipare dell’entropia dell’universo.
Milito passa per una seconda punta e viene schierato accanto a una torre pura come Bjelanovic. Esordisce contro l’Ascoli e segna subito un gol facile facile ma poi impiega qualche partita ad ambientarsi, e a un certo punto finisce addirittura in panchina. Dopo una prestazione anonima un giornale genovese si concede di apostrofarlo con il non originalissimo gioco di parole “Milito ignoto” (sono andato a cercare l’articolo nel loro archivio online, ma devono averlo saggiamente cancellato).
Poi però le cose cambiano: Milito segna ancora contro il Venezia e contro il Verona, e al di là dei gol tira fuori prestazioni sempre più convincenti. Nella partita più prestigiosa della stagione, quella con la Fiorentina, Milito è il migliore in campo e manda in porta Gemiti con un colpo di tacco che trasporta istantaneamente il Genoa e noi tifosi in una dimensione calcistica che non frequentavamo da un decennio abbondante. È facile dirlo ora, e magari è un ricordo alterato dal tempo e dai sentimenti, ma mi pare che già dopo una manciata di partite molti di noi si fossero accorti che in quello strano attaccante, alto e presente come un centravanti ma col piede educato di un 10, c’era qualcosa di speciale.
Di sicuro ci dicevamo a vicenda cose del tipo «guarda che è veramente forte», ma questo non fa testo, perché lo dicevamo un po’ di chiunque per caricarci. È vero però che i campioni hanno un modo diverso di stare in campo anche quando non fanno nulla di particolare, anche quando sono lontani dall’azione o quando la palla non gli arriva. Senza ricorrere alla vieta metafora del predatore nel suo habitat naturale, possiamo parlare di una speciale intelligenza atletica, di una comprensione innata dello spazio e del movimento in un campo da calcio che distingue nitidamente alcuni fortunati da tutti gli altri. La loro è una presenza nobile, luminosa, e se non ci sei abituato uno come Milito, anche se si sta ancora ambientando, basta e avanza ad illuminare tutto il campo.
Verso fine campionato c’è una partita in casa con il Cagliari di Zola, Suazo e Esposito, che sta salendo sparato in serie A. Milito segna sotto misura il gol del 2-0, poi il Cagliari rimonta e Milito segna di nuovo su rigore, per il 3 a 2. Il Cagliari a quel punto si butta tutto nella metà campo del Genoa. Al novantesimo la difesa rilancia e Milito prima di centrocampo si allunga e la tocca a mezz’aria con la punta del piede, mandando fuori tempo l’ultimo uomo del Cagliari. Poi accelera, fa una trentina di metri allungandosi il pallone due volte, con tre tocchi più brevi si sistema il pallone e fa una cosa bellissima: spiazza il portiere come su un calcio di rigore, calciando alla sua destra ma ingannandolo col movimento delle spalle e facendolo tuffare a sinistra.
La stagione si conclude con una salvezza sofferta – da quella squadra scombinatissima era difficile aspettarsi di più - e l’esplosione di Milito è uno dei pochi elementi che ispirano un certo ottimismo. In estate però Preziosi gli costruisce intorno una corazzata come in B fino ad allora se ne erano viste davvero poche. Arrivano Zanini e Tosto dal Napoli, Cozza dalla Reggina, il laterale destro Lazetic dal Siena (che nel girone di andata sarà forse l’uomo più devastante e decisivo di tutti, poi si spegnerà di colpo e non combinerà più niente di interessante, credo fino a fine carriera) e a gennaio addirittura Lamouchi dall’Inter, che nelle poche partite che riuscirà a giocare sarà l’unico a dare la stessa impressione di totale estraneità alla categoria di Milito. A far coppia con Milito davanti arriva Roberto Stellone, uno che secondo me con muscoli un po’ meno fragili poteva arrivare in nazionale, e quell’anno al Genoa giocherà la miglior stagione della carriera. Pochi giorni prima ancora di iniziare il campionato viene anche esonerato De Canio, e al suo posto arriva Serse Cosmi.
Di quella strana stagione, cancellata e in qualche modo pietrificata nel tempo dalla giustizia sportiva, restano alcune partite davvero esaltanti con punteggi tennistici, un girone d’andata concluso a +7 sulla seconda in classifica, e uno di ritorno opaco e pieno di strane sconfitte, che porta il Genoa a giocarsi la promozione diretta all’ultima di campionato contro il Venezia.
Milito segna 21 gol e si dimostra un giocatore di un altro modo, che possiamo categorizzare come finalizzatore solo se estendiamo l’area di finalizzazione ad almeno 30 metri dalla porta. In alcuni fondamentali, è vistosamente un Eletto: primo controllo, corsa palla al piede, protezione del pallone, e soprattutto il tiro, non tanto dalla distanza quanto nei pressi dell’area di rigore. Se c’è un corridoio attraverso cui il pallone può entrare in porta, poi star sicuro che Milito ce lo mette. Di destro, di sinistro, controllando e calciando il pallone in modo che agli altri sono quasi inaccessibili: l’esterno, la punta, la suola.
Eppure la cosa più decisiva di tutte è forse la sua prodigiosa predisposizione al forward-thinking. Una frazione di secondo prima che gli arrivi la palla, Milito sa cosa farne e ha in mente una sua idea di come si svilupperà l’azione, fino a diversi tempi di gioco successivi. La sicurezza dei suoi movimenti con e senza palla, la linearità con cui supera o taglia fuori gli avversari facendoli sembrare semplicemente stupidi, esprimono chiaramente una capacità di previsione fuori dal comune. In generale avere o no questa predisposizione quasi scacchistica, è quello che spesso fa la differenza tra un grande calciatore e un incompiuto, a parità di qualità tecniche.
Se non credete che Milito nel 2005 fosse già un giocatore da grande squadra forse dovreste recuperarvi il video di qualche partita di quella stagione, o magari potete accontentarvi di quello del gol contro l’Ascoli di quello col Perugia o di quello pazzesco contro il Vicenza.
Milito quindi impiega poco a sollevarsi dalla dimensione di idolo locale e ad attirare le attenzioni dei media nazionali, che nonostante giochi in serie B gli dedicano attenzioni personalizzate. Nelle interviste è sorridente e impacciato e dice quasi solo cose che potrebbero essere usate per illustrare il concetto di risposte standard da calciatore. Dice che il calcio è la sua passione fin da bambino e quando gli chiedono se ha altre passioni risponde che gli piace dormire e guardare la TV. Scherza con sua moglie sul fatto che gli piace anche mangiare, ma non sa cucinare, e dice che la cosa che gli manca di più dell’Argentina sono i centri commerciali.
Insomma, le interviste a Diego Milito fanno venire in mente quel momento del saggio-reportage L’abilitàprofessionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurditàe la completezza dell’essere umano in cui David Foster Wallace fa notare a Joyce un doppio senso volgare nel cartellone pubblicitario di una marca di gelati ma Joyce non coglie, e allora Wallace finisce per chiedersi se Joyce non sia un perfetto cretino. Wallace ci ragiona sopra e conclude che Joyce non è un cretino ma addirittura un uomo completo, ovvero un individuo praticamente ed esistenzialmente proteso verso un’unica attività, giocare a tennis, che negli anni ha finito per escludere dal suo orizzonte più o meno qualsiasi altra cosa. Una condizione che a noi può sembrare claustrofobica, ma che ha anche a che fare con il concetto di felicità, se la felicità è la piena realizzazione di sé. Bene, Milito sembra un tipo del genere, un ragazzo contento di giocare a pallone e di dare ai giornalisti risposte standard da calciatore, un tipo che non sembra avere alcuna aspirazione ad essere diverso da quello che è o a fare qualcosa di diverso da quello che fa. Il motivo per cui mi soffermo su questo aspetto è che questo tipo di conformazione personale sarà decisiva per le sorti di Milito, consentendogli di restare concentrato e quasi roboticamente continuo per anni, anche quando la sua carriera sembrerà avara di soddisfazioni.
All’ultima di campionato il Genoa deve giocare in casa contro il Venezia. È stato scavalcato dall’Empoli, ormai promosso, e si gioca il secondo posto e la promozione diretta col Torino,che ha solo due punti in meno. C’è un clima strano, perché il Genoa da un po’ di tempo gioca male e perché il Venezia non solo è già retrocesso ma è anche di fatto già fallito, il che storicamente non è proprio una garanzia di regolarità.
Il Genoa va addirittura sotto, ma poi pareggia con Milito e va in vantaggio con Rossi. Nell’intervallo il portiere del Venezia Lejsal, autore di ottime parate nel primo tempo, viene sostituito per un infortunio che in campo nessuno ha visto. Il quasi quarantenne Lulù Oliveira segna comunque il gol del pari del Venezia, ma pochi minuti dopo Milito riceve palla in area di rigore, mette a sedere un difensore avversario e incrocia un destro violento sul primo palo che vale il 3 a 2. La partita di fatto finisce lì e quando l’arbitro fischia tre volte il Genoa è promosso in serie A dopo 10 anni.
Per immedesimarvi nel clima di quel momento, provate a pensare che i genoani della mia generazione di fatto non avevano ricordi diretti del Genoa nella massima categoria, ed erano cresciuti calcisticamente avendo come obiettivo la sopravvivenza, ovvero imparando a tifare per il fatto stesso che il Genoa continuasse ad esistere. Le manifestazioni di emotività di quella sera sono le più goffe, sfrenate ed autentiche che io abbia mai visto in uno stadio o in rapporto ad un evento sportivo, ma raccontarle sarebbe solo una forma particolarmente crudele di ironia, perché un paio di giorni dopo esce sui giornali che un dirigente del Venezia è stato fermato dai carabinieri a duecento metri dalla sede lombarda della Giochi Preziosi, con nel bagagliaio una valigetta contenente 250.000 euro.
Poi salterà fuori che la proverbiale valigetta in realtà era una busta, e che dentro c’era anche il contratto di trasferimento di tal Maldonado dal Venezia al Genoa, ma questo non cambierà la sostanza della storia e soprattutto non ne cambierà il finale.
Inferno
In attesa della sentenza della giustizia sportiva, Milito parte per il ritiro estivo del Genoa insieme a quella che diventerà una squadra fantasma molto rimpianta dai genoani. Certo della propria innocenza (o di farla franca), Preziosi ha sostituito Cosmi con Guidolin e poi ha preso Abbiati dal Milan, Parisi dal Messina (un terzino-goleador molto cool in quel momento, soprannominato il “Roberto Carlos dello Stretto” perché tira le punizioni), Oojer dal PSV e un ragazzino argentino dal San Lorenzo che si chiama Ezequiel Lavezzi (!). Mentre anche la trattativa per Miccoli e Maresca dalla Juventus sembra in dirittura d’arrivo, esce la sentenza: il Genoa è retrocesso all’ultimo posto del campionato precedente e quindi penalizzato di ben due divisioni. Non sarà serie A ma serie C1.
Guidolin e i nuovi acquisti levano le tende in fretta e furia e anche la vecchia guardia viene smantellata: Stellone e Lazetic vengono ceduti al Torino per poche decine di migliaia di euro, Lavezzi torna al San Lorenzo e anche Milito finisce sul mercato, a condizioni vantaggiosissime per l’acquirente perché pur di liberarsi dell’ingaggio il Genoa è disposto a cederlo in prestito biennale con diritto di riscatto. Molte grandi squadre sembrano interessate e con la Juve sembra quasi fatta, ma alla fine Milito non trova un club europeo di prima fascia.
All’ultimo giorno di mercato sceglie il Real Saragozza, perché ci gioca suo fratello Gabriel. Per noi tifosi è l’ultima beffa, perché fino a un mese prima i rumors di mercato davano per probabile la reunion dei fratelli Milito, ma con la maglia del Genoa.
Intermezzo: i fratelli Milito
Diego e Gabriel Milito (di un anno più giovane) nascono e crescono in una famiglia benestante di Bernal, vicino a Buenos Aires, in un ambiente borghese molto diverso da barrios e favelas dove spesso hanno inizio le storie dei grandi calciatori sudamericani. I due fratelli imparano insieme a giocare a calcio e forse anche per questo uno diventa un centravanti e l’altro un centrale difensivo. La carriera da professionisti inizia per entrambi ad Avellaneda, ma sulle opposte sponde di una delle rivalità più sentite del continente: Diego gioca nel Racing, Gabriel nell’independiente. Durante un derby giocato da avversari hanno una lite: Gabriel entra duro su Diego che si rialza e chiede all’arbitro l’espulsione del fratello. La scena in effetti è piuttosto divertente perché Gabriel risponde dando a Diego del “poliziotto”, e nel mezzo di uno stadio bollente e stracolmo, i due si affrontano con il misto di stizza, esasperazione e confidenza che tutti abbiamo sperimentato nei bisticci coi nostri fratelli, se ne abbiamo.
All’epoca il predestinato tra i due sembra essere Gabriel, che a vent’anni appena compiuti esordisce in nazionale e poco dopo viene acquistato dal Real Madrid, ma poi ha un bruttissimo infortunio al ginocchio e non supera le visite mediche. Andrà al Real Saragozza e continuerà ad essere tormentato dagli infortuni, ma come Diego riuscirà ad ottenere una pur tardiva consacrazione, vincendo due Champions League col Barcellona poco prima dei trent’anni.
Risale al periodo di Avellaneda anche un drammatico episodio che finirà per unire ancor di più i due fratelli: nell’agosto 2002 il padre dei Milito, Jorge, viene sequestrato davanti a casa sua. Diego e Gabriel mettono insieme 100.000 pesos e pagano il riscatto, riuscendo a farlo liberare.
I due fratelli riusciranno a coronare il sogno di giocare insieme per due stagioni nel Real Saragozza, e in una manciata di partite in nazionale argentina. Si affronteranno spesso da avversari in Spagna, e Diego non riuscirà mai a segnare quando in campo c’è Gabriel. Durante Real Saragozza-Barcellona del 2007 Diego ha l’opportunità di battere un rigore ma Gabriel va dal suo portiere, Victor Valdes, e gesticola per un minuto buono spiegandogli il modo di calciare del fratello.
Diego appare un tantino innervosito, e spara il rigore sopra la traversa.
Avranno un ultimo prestigioso incrocio nel 2010 al Camp Nou, nella semifinale di Champions League tra l’Inter di Mourinho e il Barcellona di Guardiola. Come è noto avrà la meglio la squadra di Diego, ma le prestazioni individuali di entrambi saranno modeste.
Gabriel ha smesso di giocare a soli 32 anni nel 2012, stremato dagli infortuni. Da qualche settimana allena l’Estudiantes per cui nella prossima stagione potremmo avere la possibilità di assistere ad una nuova sfida tra i fratelli Milito, con il maggiore ancora in campo nel Racing ed il minore in panchina. Magari Diego continuerà a giocare finché, almeno così, non riuscirà a segnare un gol a Gabriel. Oppure smetterà e andrà a fargli da secondo, e finalmente se ne staranno insieme a fare quello che gli piace, felici e contenti come i fratelli Coen.
Purgatorio
A Saragozza Milito (solo Diego, da qui in poi) oltre a suo fratello trova un paio di grandi nomi come Sàvio, ormai a fine carriera, ed Ewerthon. Inizia a segnare da subito, in tutti i modi. In campionato ne fa 15 e tra tutte le competizioni 21, diventando il capocannoniere della squadra. Di sicuro molti sono gol da attaccante, nel senso che, come direbbe Engels “è la quantità che cambia la qualità”. Però ci sono gol bellissimi come il colpo sotto sull’uscita del portiere dell’Athletic Bilbao, il destro a giro contro l’Alavés e il secondo gol contro il Mallorca.
Il vero apice della stagione arriva però in Copa del Rey e porta finalmente a Milito l’attenzione globale che meriterebbe da un bel pezzo. Semifinale d’andata contro il Real Madrid, il Saragozza vince 6-1 e Milito fa 4 (quattro) gol diventando il primo calciatore della storia a segnare un poker al Real Madrid. Bello il primo gol, con stop e tiro rapidi in area di rigore a fulminare Casillas. Bellissimo il secondo, con sterzata a mandare fuori tempo il recupero dell’ultimo difensore blanco. Poi arrivano addirittura due gol di testa, senz’altro il suo fondamentale più debole.
Intanto in campionato il Saragozza galleggia a metà classifica, ma pochi mesi prima della fine della stagione la società viene rilevata dall’immobiliarista Agapito Iglesias, che promette grandi investimenti e risultati. In effetti in estate arrivano Juanfran, Carlos Diogo, Gustavo Nery e ben due dei più noti ex aspiranti al titolo di “nuovo Maradona”: D’Alessandro e Aimar. Viene anche richiamato Victor Fernandez, l’allenatore che negli anni novanta aveva guidato il club nei suoi anni migliori, vincendo una Copa del Rey e addirittura una Coppa UEFA.
La squadra in effetti ingrana, e ancor di più ingrana Milito che segna 23 gol diventando il vicecapocannoniere della Liga a due lunghezze da Ruud van Nistelrooy. Stavolta mette in mostra tutto il repertorio: profondità, frenate e sterzate in area di rigore. Gol d’astuzia, potenza e tecnica come il sinistro volante contro il Getafe o il colpetto con cui sporca il pallone contro il Barcellona fregando Victor Valdes da un angolo quasi impossibile. A 28 anni Diego Milito è finalmente uno degli attaccanti più rispettati e temuti d’Europa, e noi da Genova osserviamo il tutto con un sentimento misto di orgoglio e rimpianto: il prestito biennale è scaduto e naturalmente il Saragozza a fine stagione paga il riscatto, recidendo definitivamente - così è logico pensare - il cordone ombelicale tra il Genoa e quel giocatore straordinario.
Bellissimi i gol con Getafe al minuto 0:57, con l’Osasuna a 1:15, con Betis e Atletico Madrid di seguito a partire da 2:03.
Il Saragozza arriva sesto qualificandosi per la coppa UEFA, e in estate rafforza ancora la squadra. Gabriel Milito va al Barcellona ma viene sostituito da Roberto Ayala, e poi vengono acquistati Ricardo Oliveira, Matuzalém e Gabi (lo stesso che oggi è capitano dell’Atletico Madrid). Qualche anno dopo il capitano di quella squadra, Alberto Zapater, ricorderà quasi incredulo in un intervista: «A inizio stagione puntavamo alla Champions League».
Ok, se la parola “catastrofe” può avere cittadinanza nel lessico sportivo, credo che quello del Real Saragozza 2007/2008 sia in assoluto uno dei casi più appropriati a cui applicarlo. La stagione inizia malissimo con l’eliminazione dalla UEFA per mano dell’Aris Salonicco, e prosegue peggio. A ottobre Aimar e D’Alessandro vengono quasi alle mani in allenamento, e quest’ultimo rompe con Fernandez che lo mette fuori rosa. La fase difensiva è un disastro e già a metà campionato la squadra è tagliata fuori dalla corsa per un piazzamento europeo. Fernandez viene esonerato e al suo posto arriva Garitano, che vince all’esordio e si dimette subito dopo. Viene allora chiamato l’esperto Irureta, con il quale le cose precipitano definitivamente. Milito è più o meno l’unico che si salva, segna 15 gol in campionato e 2 in Copa del Rey. Nel momento centrale della stagione, tra la nona e la ventunesima di campionato, segna 12 gol in 13 partite tenendo a galla il Real da solo. Poi si blocca e smette anche lui di vedere la porta, anche se i tifosi lo acclamano fino all’ultimo per la generosità della prestazioni. Sotto la guida del quarto allenatore stagionale, Manolo Villanova, il Saragozza perde l’ultima di campionato contro il Mallorca per 3-2 (sarebbe bastato un pareggio) e retrocede in Segunda Division nell’incredulità generale.
Si è trattato probabilmente della retrocessione più imponderabile della storia recente del calcio europeo. Se la gioca, forse, solo con quella del West Ham 2003 con Di Canio, Joe Cole, Defoe, Kanouté, Carrick, Repka, Bowyer e Glen Johnson.
L’ultimo giorno di mercato
Il 1 settembre 2008 sono alla Mostra del Cinema di Venezia con un amico, e verso le 7 di sera stiamo facendo quello che si fa alla Mostra del Cinema di Venezia: bere uno spritz. A un certo punto il mio amico risponde a suo padre al cellulare e io inizio a guardarmi in giro per non farmi troppo gli affari suoi. Senonché lui diventa dello stesso colore dello spritz, sgrana gli occhi e quasi urla: «Non mi prendi in giro eh? Non è uno scherzo?«, poi mi tira per una manica e alza lo sguardo: «Abbiamo ripreso Milito». Impiego qualche secondo a registrare, e poi gli faccio la stessa domanda che ha appena fatto a suo padre: «Non è uno scherzo eh?».
Siamo largamente in epoca pre-smartphone e internet sui cellulari, per cui trascorriamo la mezz’ora successiva a telefonare e inviare sms, in uno stato di sovreccitazione. A un certo punto da Genova ci dicono che è saltato tutto, perché il calciomercato chiudeva alle 7 e il contratto sarebbe stato “lanciato” dentro il box del calciomercato dopo la scadenza. Poi ci richiamano e dicono che forse c’è ancora speranza. Infine mio fratello, che è tornato a casa di corsa per seguire cosa succede minuto per minuto mi telefona e mi dice che è tutto fatto, c’è l’ufficialità. «È tornato Milito?» chiedo. «È tornato Milito» ride. «Diego Milito?». «Diego Milito». «Il Principe Milito?». «Proprio lui». «Diego Alberto Milito?». «mmmmh-mmmmh». Andiamo avanti con questa cantilena da bambini per non so quanto, ridendo. Poi io e il mio amico entriamo alla proiezione di un film barcollando come ubriachi, col sorriso assente e lo sguardo perso. Durante il film tengo il cellulare acceso e mi distraggo mandando e leggendo SMS esultanti: una trasgressione che all’epoca nel mio codice comportamentale da festival è grave quanto addormentarsi in sala o applaudire un film prodotto da RAI Cinema.
Paradiso
In realtà Milito è sempre rimasto in contatto con i dirigenti del Genoa. All’inizio del mercato il prezzo è di almeno 20 milioni e quindi un ritorno sembra irrealizzabile, ma poi progressivamente – e inspiegabilmente come in passato - l’interesse delle grandi squadre per Milito va scemando, e il Saragozza si ritrova senza acquirenti o quasi.
Il Manchester City, la Juventus e il Palermo con le casse piene per la cessione di Amauri virano una dopo l’altra su altri obiettivi (Amauri stesso per la Juve, Cavani per il Palermo, il brasiliano Jo per il City) e a pochi giorni dalla fine del mercato Milito rischia seriamente di restare bloccato dov’è. Il primo settembre si presentano soltanto il Genoa con un offerta intorno ai 10 milioni, e il Tottenham con una di un paio di milioni più alta. Milito vuole il Genoa e il Saragozza è costretto a cedere, di fronte alla prospettiva di ritrovarsi sul groppone il suo ingaggio in Segunda Division. Il contratto viene depositato qualche minuto prima della scadenza delle 19 e poco dopo, quando i box sono chiusi, l’agente di Milito Pastorello lancia alcune integrazioni ad un collaboratore del Genoa che si trova all’interno. Da qui le voci sull’affare saltato e la leggenda del “lancio del contratto”.
Il Genoa che Milito ritrova nel 2008 è diversissimo da quello che ha lasciato nel 2005. Al posto del motivatore Cosmi c’è un tattico come Gasperini, e al posto di una squadra fisica e quadrata ce n’è una velocissima e aggressiva, che gioca sul recupero di palla e sull’ampiezza offensiva. Gasperini gioca col tridente e si è costruito una solida fama di valorizzatore di centravanti. Con lui in serie B i carneadi Greco e Gasparetto hanno segnato come mai in carriera, e al primo anno di serie A Borriello - reduce da una squalifica per doping e schiacciato dalla reputazione del tronista - ha segnato 19 gol ed è arrivato in nazionale. Qualcuno osserva che Milito è un centravanti meno classico e più mobile dei precedenti, e ipotizza che nel tridente possa trovarsi in difficoltà. Sciocchi.
Siamo di nuovo a Genoa-Milan del 14 settembre, a quel pomeriggio fresco e nitido in cui ritrovo Milito dalla gradinata nord e mi sembra che l’ampiezza della sua spiritualità sia raddoppiata.
Nella prima mezz’ora vedo per la prima volta in vita mia il Genoa giocare alla pari contro una grande squadra, il che – scopro con grande piacere – è molto diverso da “tenere testa” a una grande squadra. Il Genoa detta il ritmo della partita ed è inevitabile pensare che sia la presenza di Milito a darci la licenza per giocare con questa disinvoltura contro almeno un paio di ex palloni d’oro.
Alla mezz’ora Milanetto scucchiaia un pallone in area, Milito taglia da sinistra a destra portandosi dietro il marcatore e salta ruotando su se stesso verso la palla che scende, girandola con il petto verso il centro dell’area e aprendo uno spazio che solo lui ha visto per l’inserimento di Sculli. Infatti il numero 14 nel cuore dell’area di rigore del Milan ha tempo di stoppare il pallone, prendere la mira e non lasciare scampo a Dida.
Sull’1-0 la partita diventa bellissima: Milito trova un paio di azioni personali partendo da lontano e portandosi a spasso mezza difesa del Milan. Trascinato dal pubblico il Genoa sfiora il raddoppio in diverse occasioni, ma a metà del secondo tempo c’è un ritorno del Milan, e Rubinho sull’ex Borriello fa una di quelle parate che ti fanno capire che la partita deve finire in un certo modo.
Minuto 89: c’è un errore di disimpegno del Milan e la palla recuperata da Vanden Borre finisce tra i piedi di Milito in area di rigore. Sotto la gradinata nord, a un minuto dalla fine, Milito alza la testa e guarda negli occhi il più grande difensore italiano degli ultimi vent’anni, Paolo Maldini. Tutto resta sospeso per una frazione di secondo, Milito protegge il pallone e guarda verso il centro dell’area ma poi tocca la palla con il piede destro facendosela passare dietro la caviglia sinistra, nella perfetta esecuzione di una finta che nei manuali prende il nome da Johann Crujiff.
Maldini affonda il tackle ma non può colpire la palla e scalcia la caviglia di Milito, che cade a terra. Sembra davvero l’attimo dopo la conclusione di un duello, solo che quello che è rimasto in piedi ha perso, e quello per terra ha vinto. L’arbitro fischia e indica il dischetto, Maldini annuisce, noi esultiamo ma poi ci manca il fiato quando vediamo Milito raccogliere il pallone e posizionarlo sul dischetto. Sembra la persona più tranquilla di tutto lo stadio mentre conta i passi della rincorsa senza distogliere lo sguardo da Abbiati. L’arbitro fischia, Milito va lentamente verso il pallone e poi con un improvvisa accelerazione punge il pallone e lo spedisce sotto la traversa, a incrociare. Diego corre sotto la sua gradinata ed esulta a modo suo, coi pugni stretti all’altezza della vita come uno che sta cercando di aprire un cassetto incastrato. Noi ci abbracciamo tutti e ci viene anche un po’ da piangere, perché quella che proviamo è una gioia strana, che più che con l’emozione di un gol ha a che fare con l’armonia di un cerchio che si chiude.
Happy ending
Alla fine di quel Genoa-Milan Preziosi annuncia l’ingaggio di Thiago Motta, svincolato dopo non aver superato le visite mediche con il Portsmouth. Forse non sa neanche lui di aver appena creato l’ossatura del Genoa più forte del dopoguerra, e sicuramente non può immaginare di aver assemblato l’asse centrale dell’Inter che l’anno dopo centrerà il triplete. Fatto sta che quella contro il Milan è solo la prima di un filotto di vittorie nel segno di Milito che molti genoani sarebbero ancora in grado di raccontarvi quasi azione per azione.
Prima è il turno della Roma di Spalletti, contro cui Milito si trasforma in un cartone animato e segna il primo gol agganciando al volo in due tempi un colpo di testa di Juric prima di spedire il pallone in rete, e il secondo gol in scivolata di sinistro riuscendo però a incrociare la conclusione da secondo al primo palo. Poi tocca al Napoli di Lavezzi, che prima alimenta i rimpianti dei genoani segnando un gran gol ma dopo il pareggio di Papastathopoulos deve assistere all’ormai consueto Milito show. Prima il Principe tiene una vera e propria lezione di protezione del pallone nel cuore dell’area del Napoli, distanziando da fermo per forse tre secondi Rinaudo ed eludendo poi il ritorno di un altro difensore nell’attesa dell’inserimento di Palladino, che fa il 2 a 1. Poi con la squadra in inferiorità numerica segna di testa anche il gol del 3 a 1 che chiude la partita, facendo fare ai difensori partenopei la figura delle belle statuine.
Con 5 gol nelle prime 5 presenze Milito non soltanto ritorna l’idolo dei tifosi del Genoa, ma viene anche per l’ennesima volta riscoperto dai media nazionali, che ne celebrano le qualità e si chiedono come le grandi squadre possano esserselo fatto sfuggire anche questa volta. Anche in questo clima, comunque, il fantasma dell’incomprensione fa capolino a turbare l’apparente unanimità dei cori di apprezzamento. Milito non gioca in nazionale da un po’, e visto il momento di forma tutti si aspettano che il nuovo ct Maradona lo convochi per la sua partita d’esordio contro la Scozia. Invece Maradona chiama el tanque Denis, che pure al Napoli sta segnando col contagocce, per dire il meno. (Personalmente ricordo di averlo preso come un affronto personale, e di aver cercato una catarsi trollando un intero forum di tifosi del Napoli che sostenevano che Denis fosse in effetti molto più forte di Milito, che però risaltava di più perché giocava in una “piccola”).
La corazza di Milito però tiene, tanto è vero che la partita dopo la mancata convocazione segna contro la Reggina la sua prima tripletta in serie A.
Il resto della stagione sarà trionfale sia per lui che per il Genoa e si concluderà al quarto posto a pari punti con la Fiorentina, ma fuori dalla Champions per la differenza reti negli scontri diretti coi viola. Il piazzamento comunque non rende del tutto giustizia al livello del campionato giocato da quel Genoa, e va ricordato che la corsa Champions con la Fiorentina si svolse a ritmi talmente alti che le due squadre finirono il campionato con 5 punti di vantaggio sulla sesta (la Roma) e 10 sulla settima (l’Udinese). La Juve e il Milan, che all’epoca era ancora una discreta corazzata, finirono seconde a pari merito con solo 6 punti di vantaggio sul Genoa: una cosa semplicemente da vertigini, per una squadra al secondo anno di serie A. L’Inter di Mourinho e Ibrahimovic invece giocò naturalmente un campionato a sé, e ricordo che due dichiarazioni del portoghese durante la stagione mi trasmisero una certa inquietudine, mettendole in relazione l’una con l’altra: prima disse che Gasperini era l’allenatore che l’aveva messo più in difficoltà e che il Genoa lo aveva impressionato. Poi, qualche mese dopo, disse che nel corso del campionato l’Inter aveva affrontato come avversari un paio di calciatori di livello straordinario, e che in estate avrebbe provato a comprarli. Ebbi paura che parlasse di Milito e Thiago Motta, e in estate ricevetti la conferma, con la magra consolazione di essere diventato bravo a capire il mourinhano.
Tornando a quella grande stagione, comunque, noi genoani nel nostro orgoglioso provincialismo vi racconteremo sempre e prima di tutto i quattro gol segnati da Milito in due derby.
All’inizio della stagione 2008/2009 il Genoa non vince un il derby da 6 anni, perché per 4 stagioni la Samp è stata in serie A e il Genoa in serie B, e dal ritorno in serie A ci sono stati un pareggio e una vittoria della Samp. Quell’anno però le condizioni ci sono tutte, perché al grande inizio del Genoa fa da contraltare la mediocrità dell’ultima Samp di Mazzarri, che infatti finirà per salvarsi con qualche patema.
Alla vigilia del derby di andata però Cassano si concede un’indimenticabile sbruffonata in conferenza stampa: «Quelli là tutte le volte che scendiamo in campo diventano pallidi per la paura». Non c’è bisogno che vi dica che dopo i due derby il tema del pallore sarà al centro degli sfotto’ cittadini per almeno due-tre anni. (L’assoluta sventatezza di Cassano ne fa un avversario che ricordo con grande nostalgia: dove lo trovi uno che ti sfotte prima della partita e poi perde? Neanche i cattivi di James Bond...).
Il derby d’andata è molto bloccato, finchè Milanetto non ha la possibilità di battere un calcio di punizione sotto la nostra gradinata poco al di là del limite laterale destro dell’area di rigore. Sul cross teso e tagliato Milito riesce a girare intorno al blocco difensivo della Samp, saltare inarcando la schiena e colpire il pallone con la fronte all’altezza del dischetto del rigore con uno schiocco che si sente fin sugli spalti. La palla si infila sotto la traversa, lasciando Castellazzi immobile e facendo esplodere la metà genoana dello stadio. Probabilmente è il più bel gol di testa della carriera di Milito, che ne ha segnati un buon numero ma quasi sempre di astuzia, appoggiando in rete sottomisura quasi senza saltare. Finirà uno a zero con Milito in trionfo, ma questo è niente rispetto al derby di ritorno, che si gioca a maggio quando ormai il divario tra le due squadre è ben delineato anche in classifica.
La partita è a senso unico, e dopo mezz’ora Milito devia in rete in spaccata, con la consueta combinazione di riflessi e capacità propriocettiva, un colpo di testa di Biava. All’ultimo minuto del primo tempo però Campagnaro trova il pareggio, raccogliendo il pallone deviato dalla barriera su punizione di Palombo.
Sembra che la Samp possa rientrare in partita, ma al 73esimo della ripresa Milito ruba palla alla difesa della Samp e di sinistro trova uno stretto spiraglio tra Castellazzi e il palo. Sul due a uno la partita diventa una specie di corrida, con la Samp che si butta in avanti, il Genoa che difende e prova a ripartire, e in generale tutti che si danno un sacco di botte. Vengono espulsi Ferrari, Thiago Motta e Campagnaro, e in 10 contro 9 Cassano e compagni arrivano a folate disordinate ma sempre più frequenti in prossimità della porta del Genoa, sotto la nostra gradinata. È durante uno di questi attacchi che Palombo inciampa, Milanetto gli ruba palla e lanciando Palladino dà il via a quelli che per me sono forse i dieci secondi più belli che ho vissuto da tifoso del Genoa.
In fondo Diego Milito ha giocato nel Genoa per due stagioni e mezzo, di cui una e mezzo in serie B, eppure è senza dubbio il calciatore a cui sono più affezionato in assoluto, e tendo a considerarlo una bandiera della mia squadra quasi nello stesso modo in cui un romanista può pensare a Totti o uno juventino a Del Piero. Come si spiega questa sproporzionata affezione, che tanti genoani condividono con me? La risposta breve è che Milito è il giocatore più forte che abbiamo mai visto nel Genoa, ma probabilmente esiste anche una spiegazione più articolata.
Il tifo calcistico è partecipazione di un’identità collettiva, attraente perché meno contraddittoria o semplicemente diversa dalla nostra identità personale. Questa identità collettiva rende possibile la dilazione dell’illusione adolescenziale della propria straordinarietà, e probabilmente è questo il motivo per cui non c’è squadra di calcio che non abbia una forte costruzione mitopoietica legata ad elementi identitari, storici o geografici Per i tifosi del Genoa cresciuti a cavallo tra la fine degli anni novanta e i primi duemila, questo tipo di strutture autocelebrative surrogavano quasi per intero i risultati della squadra sul campo. Eravamo la squadra più antica d’Italia, avevamo 9 scudetti, ci ritenevamo la tifoseria più calda d’Italia, ma eravamo a metà classifica in serie B e le cose andavano peggio di anno in anno. La genoanità dei miei ricordi parlava una lingua eminentemente settaria, piena di oscure parole d’ordine cariche di risentimento nei confronti del resto del mondo del calcio, delle altre squadre, degli arbitri, dei nostri stessi dirigenti e in generale di chiunque ci sembrasse responsabile del prolungato esilio del Genoa dalla propria dimensione naturale.
I due Genoa di Milito – quello del 2005 che domina la serie B e quello del 2009 che torna in Europa – rappresentano i due momenti di massima sovrapposizione tra la nostra certezza che il Genoa è “speciale” e la realtà. Con Milito il Genoa assomiglia davvero alla visione romantica che abbiamo coltivato per anni, perché Milito è speciale proprio nel modo in cui ci immaginiamo lo sia il Genoa.
Comunque alla fine del 2008/2009 se ne va all’Inter insieme a Thiago Motta, in cambio di qualche milione e le “promesse” Acquafresca, Fatic e Bolzoni. Più Bonucci, che comunque verrà prima girato al Bari e poi venduto alla Juve, per cui noi non lo vedremo neanche in fotografia.
The end: un po’piùuguale degli altri
Non so davvero che pensieri attraversino la testa di Milito un anno dopo, quando con ancora sulle dita il sentore metallico della coppa si lascia inghiottire dal tunnel degli spogliatoi del Bernabeu, quando canta i cori con i compagni bevendo Champagne dalla bottiglia e battendo il ritmo con sull’armadietto, quando con i capelli umidi esce a respirare l’aria profumata della primavera di Madrid e sale sul pullman per l’aeroporto di Barajas, quando si affaccia su Piazza Duomo con una città impazzita ai piedi. Non so se ripensa alla retrocessione a tavolino del Genoa, che gli ha impedito di farsi conoscere in serie A a venticinque anni, o all’incredibile retrocessione col Saragozza, o magari a Maradona che in due anni da ct ha fatto davvero tutto quel che poteva per non puntare su di lui. Quello che so è che quella sera Diego Milito è il numero uno al mondo.
Esiste tutta una letteratura sul triplete dell’Inter di Mourinho come vittoria del collettivo sui calcio dei grandi solisti, ma la lingua cruda dei fatti parla di un collettivo di uguali in cui, per dirla con Orwell, c’è un animale un po’ più uguale degli altri.
5 maggio 2010, Roma. Al minuto 40 della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter Thiago Motta intercetta un passaggio di Vucinic a centrocampo e rilancia d’esterno per Diego Milito, che porta palla per una trentina di metri tenendo a distanza i difensori della Roma, manda a vuoto con il corpo il recupero di Perrotta e dal limite dell’area calcia sotto la traversa, sul secondo palo. È gol, e il vantaggio regge fino al novantesimo. La Coppa Italia è il primo trofeo stagionale dell’Inter.
16 maggio, Siena. L’Inter si gioca lo scudetto in Toscana. Alla fine dei primi tempi il punteggio è fermo sullo 0-0 e quindi la Roma, che sta vincendo 2 a 0 a Verona contro il Chievo, è virtualmente campione d’Italia. Al cinquantaseiesimo Javier Zanetti in percussione sulla sinistra serve Diego Milito, che può girarsi e puntare l’area di rigore dal suo angolo preferito, quello sinistro. Invece di attaccare il fondo come fa di solito Milito si accentra, supera un difensore del Siena e calcia di collo pieno sul primo palo. La palla entra all’incrocio dei pali e vale il diciottesimo scudetto dell’Inter.
22 maggio, Madrid. Minuto 34. Sul rilancio di Julio Cèsar Milito appoggia di testa per Sneijder, che gli restituisce il pallone in profondità. Milito passa tra Demichelis e Van Buyten e sull’uscita di Butt spezza a metà l’ultimo passo e calcia in controtempo sotto la traversa per l’uno a zero. Minuto 70. Su azione di contropiede Milito punta l’area dal lato sinistro, di nuovo il suo preferito, quello dei gol più belli. Avanza a passettini, gioca a lasciarsi catturare da Demichelis ma all’ultimo schiaccia il pallone sotto il piatto del piede e cambia direzione. Demichelis gira su se stesso come un animale spaventato da uno sparo, Milito intanto è oltre e si sistema la palla col sinistro, poi calcia di destro e fa due a zero. L’Inter è campione d’Europa dopo 45 anni.
Foto di Javier Soriano / Getty Images.
Diego Milito ha firmato i tre atti decisivi del primo triplete mai realizzato da una squadra italiana, e se preferite un approccio meno suggestivo e più statistico possiamo ricordare che è capocannoniere della squadra in tutte le competizioni, secondo marcatore assoluto della serie A e quarto della Champions.
Uno così è un candidato naturale al Pallone d’Oro, e quando i giornali iniziano a parlarne provo quel sentimento misto di soddisfazione e gelosia di quando il gruppetto indie che avevi scoperto insieme ad altri 12 adepti fa il botto, e l’amico ignaro e musicalmente semianalfabeta te li consiglia perché sono “bravi, anche se un po’ lagnosetti come piace a te”.
La faccenda comunque è complessa, perché nel 2010 la diarchia Messi-Ronaldo domina già il calcio mondiale, e Milito non ha né il virtuosismo né il glamour della Pulce o di CR7. Neanche la carta d’identità è dalla sua parte, perché poco dopo aver festeggiato il triplete ha compiuto 31 anni, 6 in più di Cristiano Ronaldo e addirittura 8 più di un Messi già marziano. Però il Pallone d’Oro è sempre stato un premio al giocatore più vincente e decisivo, oltre che al più forte, e l’extraterrestre è stato buttato fuori dalla Champions proprio da Milito e compagni. E allora un premio al giocatore più vincente e decisivo del 2010 a chi vuoi darlo, se non a Diego Milito?
Uno che la pensa così è Alex Ferguson: «Il Pallone d’Oro lo darei a Milito, ha disputato una Champions straordinaria». Anche Platini la pensa cosi, o almeno è quel che dice a Milito durante la premiazione della Champions League. D’altra parte il mondiale che si è giocato in estate in Sudafrica – che ha visto Milito giocare poco e l’Argentina di Maradona uscire malamente con la Germania – ha rilanciato le candidature degli spagnoli, e in particolare di Iniesta.
A ottobre France Football pubblica la lista i nomi dei 23 candidati al premio, e Diego Milito non c’è. Ci sono Messi e Ronaldo, gli spagnoli, ben quattro giocatori dell’Inter (Julio César, Zanetti, Eto’o e Sneijder), e c’è addirittura Asamoah Gyan, ma Milito è fuori. Le reazioni di sconcerto sono molteplici: “Incredibile” commenta Moratti, e perfino il Genoa, che in teoria con Milito non ha più niente a che fare, rilascia un comunicato intitolato “Ingiustizia è fatta”.
Milito invece resta in silenzio come d’abitudine, e qualche giorno dopo si limita a ringraziare pubblicamente tutti quelli che “gli sono stati vicini” e l’hanno aiutato a superare la delusione. L’impressione però è che se ne faccia rapidamente una ragione, anche perché a quel punto della carriera ha tutti gli anticorpi che gli servono per metabolizzare le delusioni, e probabilmente pochissima voglia di farsi guastare la festa.
Continua all’Inter finché ce la fa, poi se ne torna al Racing dove vince il titolo segnando il gol decisivo. Segna anche nel derby con l’Independiente ed esulta come un matto, provocando i tifosi della roja e trasgredendo bruscamente la disciplina del Milito composto, professionale e concentrato di un’intera carriera. Dietro gli occhi spiritati e le mascelle contratte quello che secondo me sta pensando è: «Me lo sono meritato».